Il presente contributo testimonia una posizione “personale” a cura dell’autore. Su questo tema Tafter Journal intende avviare un dibattito allargato.
1. Premessa
La lettura di una ricerca condotta da Carlo Desideri e Emma Imparato, pubblicato da Giuffrè con il titolo “Beni ambientali e proprietà“, propone un modello per la gestione delle aree protette distinto da quello attualmente in vigore nel nostro paese. Il lavoro ha il grande merito di tratteggiare le linee essenziali di questo approccio alternativo portando a sostegno della sua bontà la descrizione della sua sperimentazione in corso da lungo tempo in Francia e Regno Unito.
A distanza di alcuni anni – il libro è stato pubblicato nel 2005 – e nonostante le difficoltà in cui versano i nostri enti parco e il sistema di protezione nel suo complesso che riportano spesso in agenda il tema di una sua revisione, i frutti di questa ricerca non sembrano essere adeguatamente filtrati nel dibattito generale. Allo stesso modo nel campo urbanistico che rivendica tradizionalmente il primato sulle questioni che riguardono il territorio e la sua organizzazione complessiva – che oggi non può prescindere dal tema della protezione delle sue parti più preziose – l’approfondimento e la riflessione di approcci diversi da quelli pianificatori, come quello proposto nel libro in questione, non sembrano trovare adeguato spazio con il risultato che di fronte a chi vuole alleggerire o comunque rivedere il sistema di protezione vigente, gli urbanisti finiscono per giocare il ruolo di chi difende un meccanismo, quello del piano, che soprattutto per quel che riguarda le aree protette di interesse nazionale riesce a esplicare solo parzialmente i suoi effetti e non risponde a pieno alle sfide connesse alla loro conservazione e gestione.
Consapevole che non basti un approccio difensivo ma occorra – come hanno fatto Desideri e Imparato – ricercare nuovi percorsi di lavoro e offrire ai decisori nuovi strumenti, ritengo utile contribuire alla circolazione di queste idee introducendo elementi ulteriori di riflessione discendenti dal rilievo crescente che il tema del contenimento della pressione antropica ha assunto per chiunque si confronti con il territorio e la sua organizzazione.
Con questo intento ho elaborato questo documento di lavoro confidando nella possibilità che gli interrogativi, prima che le soluzioni proposte, contribuiscano a far emergere la consapevolezza che il territorio e la sua protezione debbano essere considerati come uno dei più rilevanti temi di policy che abbiamo di fronte, da affrontare facendo emergere una rinnovata domanda sociale riferita al territorio rispetto alla quale gli strumenti pianificatori/conformativi e gli approcci fondati sul comando e il controllo non soltanto sono insufficienti, ma possono rivelarsi, se inadeguatamente governati e gestiti, dannosi.
Il lavoro si articola in due parti; la prima è finalizzata a descrivere l’attuale stato giuridico delle aree protette e a delineare un modello alternativo e complementare all’approccio attualmente utilizzato, dentro il quale l’affidamento esclusivo della tutela a strumenti di natura conformativa come i piani venga affiancato e/o sostituito dalla apposita costituzione di patrimoni (pubblici e/o privati) di aree, delle quali assicurare la conservazione e la gestione sostenibile sulla scorta delle esperienze, pur diverse tra di loro, del National Trust britannico e del Conservatoire de l’espace littoral che opera in Francia. Nella seconda parte del documento vengono proposte delle schede dedicate al funzionamento di questi due soggetti e a una norma del Codice Civile introdotta nel 2003 che potrebbe, se opportunamente valutata, tornare utile ai fini della definizione di una proposta articolata e circoscritta.
2. Lo stato giuridico delle aree protette
Senza volere fornire un quadro dettagliato e esaustivo delle previsioni normative vigenti in materia di aree protette, si può dire in estrema sintesi che la legge quadro (L. 6 dicembre 1991 n. 394 successivamente modificata dalla legge 9 dicembre 1998 n. 426) definisce un regime giuridico speciale per la tutela e la gestione delle aree all’interno delle quali sono presenti formazioni fisiche, geologiche, geomorfologiche e biologiche, o gruppi di esse di rilevante valore naturalistico e ambientale. A questo scopo, la stessa legge distingue queste aree naturali da proteggere in parchi nazionali, parchi naturali regionali e riserve naturali, statali o regionali in base alla rilevanza degli interessi in esse presenti.
Per le aree che ricadono all’interno di un Parco Nazionale è previsto un regime giuridico in base al quale il controllo sull’esercizio delle attività consentite e la tutela dei valori naturali e ambientali nonché storici culturali, antropologici tradizionali sono affidati agli enti Parco, istituiti per le aree di interesse nazionale con Decreto del Ministero dell’Ambiente sulla base delle indicazioni contenute nella legge quadro. A questo scopo questi enti di diritto pubblico sono tenuti, entro termini perentori stabiliti dal legislatore, ad adottare il cosiddetto Regolamento del Parco, di cui all’art. 11 della legge prima citata, predisporre il Piano del Parco ed il Piano pluriennale economico e sociale, di cui agli artt. 12 e 14 della citata legge e ad esprimere il proprio nulla osta sulle trasformazioni edilizie nelle aree comprese nel parco come pure sugli strumenti urbanistici dei comuni e/o delle province compresi.
Nelle more dell’approvazione del Piano vigono le norme di salvaguardia e la zonizzazione dell’area protetta (con l’individuazione delle zone di riserva integrale e orientata) allegate al decreto istitutivo del Parco, alla luce delle quali l’ente parco è tenuto a rilasciare pareri e i nulla osta di cui sopra.
Lo strumento principale che a regime dovrebbe governare la tutela e in più in generale la gestione delle aree protette è costituito, dunque, dal cosiddetto Piano del Parco affiancato per i profili socio-economico dal piano pluriennale economico e sociale.
Il ruolo primario di questo strumento è confermato dal fatto che, una volta adottato dall’Ente parco ed approvato in via definitiva dalla regione o dalle regioni coinvolte, ai sensi dell’articolo 12 comma 7, sostituisce ad ogni livello i piani paesistici, i piani territoriali o urbanistici e ogni altro strumento di pianificazione.
Ciò, da un lato, determina un trasferimento dei poteri pianificatori – in via ordinaria e generale affidati a Comuni, e limitatamente ad alcuni aspetti pure incidenti alle Province e alle Regioni – e dall’altro conferisce a questo strumento natura fondiaria ossia il potere di conformare il diritto di proprietà e di incidere sullo status giuridico delle aree giungendo ad annullare completamente la loro trasformabilità, al pari di uno strumento urbanistico generale o attuativo, ma apponendo, a differenza di quanto accade con quest’ultimi, vincoli di natura ricognitiva definiti tali perché non preordinati all’espropriazione e dunque destinati né a essere indennizzati né a scadere con l’obbligo dell’eventuale reitero oneroso del vincolo da parte dell’autorità di piano.
I problemi connessi al riconoscimento ai Piani del Parco del rango di “piano dei piani” limitatamente ad aree protette la cui estensione è, fortunatamente, rilevante sono di due tipi.
Il primo legato alle gravi difficoltà che ancora si registrano nel completamento dell’iter, necessariamente articolato e complesso, che porta all’entrata in vigore del piano. A questo proposito giova precisare che con la legge 9 dicembre 1998 n. 426 sono state introdotte, tra le altre, delle modifiche all’articolo 12 della legge quadro per definire e precisare il percorso amministrativo che dall’approvazione del Piano del Parco da parte del Consiglio Direttivo giunge all’approvazione della regione e/o delle regioni nel cui territorio si trova il parco, passando per una preventiva adozione regionale del Piano e il deposito dello stesso presso le sedi dei Comuni interessati per la presentazione delle eventuali osservazioni.
Giova segnalare questi aspetti dal momento che proprio la procedura complessa, necessaria a garantire la “supremazia” del Piano del Parco, è all’origine di una situazione che è ben descritta da un quadro riepilogativo sullo stato di avanzamento delle procedure approvative dei Piani, reso pubblico sul sito del Ministero dell’Ambiente nel mese di dicembre dell’anno scorso e recentemente aggiornato, in base al quale 4 dei 22 Parchi Nazionali costituiti hanno il Piano in vigore, e in altri due casi è stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale la delibera di approvazione.
Il secondo problema – aggiuntivo a quello della difficile applicazione delle norme concernenti l’approvazione del Piano del Parco – è connesso all’approccio di fondo scelto dal legislatore che è quello di riconoscere alla pianificazione un ruolo centrale nella protezione della natura preoccupandosi, infatti, di attribuire a questi piani la maggior forza e incidenza giuridica possibile ma trascurando il problema legato alla ripartizione degli oneri e dei benefici connessi all’asservimento di vaste, ma delimitate, porzioni del territorio a un interesse dell’intera collettività quale è la protezione di aree di particolare pregio.
A questi piani, per esempio, non è associato alcun strumento di natura finanziaria attraverso il quale ridistribuire i benefici di cui godono le aree, nelle quali si concentrano le potenzialità immobiliari turistiche e promozionali presenti nel parco (i centri, le aree accessibili, etc. etc.) a beneficio delle aree da proteggere soggetto ad un regime di non trasformabilità assoluta. E come non ci sono strumenti di natura finanziaria, utili a gestire le sperequazioni presenti all’interno dell’area protetta, ancor meno ci si è preoccupato del fatto che gli oneri connessi all’asservimento “ambientale” di queste aree non siano accompagnati da strumenti attraverso i quali riconoscere in modo esplicito, attraverso apposite controprestazioni finanziarie, il “servizio” che le comunità custodi delle aree protette rendono alla collettività nazionale o regionale a seconda della tipologia di area protetta.
Venendo in modo rapido alla conclusione di questa parte ricognitiva dello stato di fatto va considerato, infine, che il ricorso a strumenti “pianificatori” e urbanistici tradizionalmente utilizzati per zonizzare il territorio e conformare il diritto di proprietà finisce per affidare la tutela e la protezione di queste aree all’allineamento delle condotte dei proprietari alle previsioni dei piani, trasferendo su quest’ultimi l’onere di conservare queste aree, rimanendone comunque proprietari con tutto quello che ciò comporta in termini di manutenzione, gestione e messa in sicurezza rispetto ai rischi (incendi, frane, incidentalità, etc.) che da una loro cattiva gestione possono discendere.
Ciò rileva anche perché la perdita di valore subita da queste aree può dar luogo, da una parte, ad un abbandono e dunque a un degrado del bene stesso da proteggere e dall’altro ad una manomissione abusiva di queste aree posta in essere specialmente in quelle porzioni di aree naturali protette periurbane o prossime ad aree di interesse turistico realizzata da operatori “non legali” che hanno gioco facile ad entrare in possesso di questo tipo di aree, prive di “valore”.
Alla luce di queste criticità credo sia utile interrogarsi sulla possibilità di introdurre dei cambiamenti o comunque di sperimentare meccanismi di natura diversa verificando, in modo particolare, la possibilità di ricorrere in modo generalizzato a strumenti sperimentati in altri paesi, come la Francia e il Regno Unito . Le esperienze, cui sono dedicate due schede sintetiche nella seconda parte del documento, sono accomunate dalla sperimentazione di un approccio alla tutela della natura fondato sul ricorso allo strumento proprietario. In base a questo approccio la facoltà di godere e di disporre di un bene costituente il diritto di proprietà – esercitata da soggetti appositamente formati e istituiti – può assicurare la protezione costituzionalmente prevista quale la protezione della natura in modo più efficace di quanto non faccia un sistema di pianificazione che conformi e funzionalizzi le proprietà attraverso meccanismi “pseudourbanistici”.
Il concetto di proprietà ambientale – di cui si vuole proporre l’adozione nel testo richiamato all’inizio – fa riferimento a soggetti, beni e situazioni diverse accomunate dalla destinazione ambientale che il bene ha e dunque non si configura come una categoria ma piuttosto come un fenomeno cui ricondurre tutte le situazioni in cui il godimento e la gestione del bene sono finalizzati alla sua conservazione.
Gli elementi distintivi di queste situazioni giuridiche, ed in particolare di quelle di cui si darà conto nella seconda parte del documento, sono:
• l’acquisizione in proprietà di beni di interesse ambientale e culturale al fine della loro conservazione;
• l’applicazione alle proprietà acquisite ai fini di una loro conservazione di un regime di inalienabilità;
• l’affidamento delle attività (di acquisizione e gestione) a soggetti ad hoc con una struttura e un profilo statutario opportunamente definiti;
• la gestione attiva del bene assicurata direttamente dal proprietario o mediante l’affidamento convenzionato a terzi che tenga conto delle caratteristiche dell’area interessata accertate precedentemente;
• lo studio e la predisposizione di un documento finalizzato a delineare le caratteristiche dell’area sotto forma di “bilancio ecologico” e a indirizzarne la gestione verificando, in modo particolare, la sussistenza o meno dei presupposti per renderla accessibile e a quali condizioni;
Nei casi che verranno esaminati in seguito i proprietari di beni con finalità di tutela sono soggetti specializzati che li individuano, li acquisiscono o ne divengono a vario titolo beneficiari (lasciti, donazioni, etc. etc.) e ne determinano l’inalienabilità. A conclusione della prima parte di questo documento è opportuno precisare alcuni elementi di contesto e rispondere alle obiezioni più immediate che si pongono di fronte all’adozione di un approccio di questo tipo.
3. Il fenomeno della proprietà ambientale in Italia
In Italia il fenomeno della proprietà ambientale, per quanto misconosciuto o quasi negato in sede di pianificazione, esiste e ha una sua consistenza: ci sono diverse tipologie di terre destinate ad usi collettivi e civici e proprio per questa ragione da conservare ovvero di cui preservare la possibilità di accedervi e di utilizzarle senza pregiudizio per gli altri aventi diritto. In Italia ci sono associazioni, come il FAI e il WWF, che occupandosi di protezione della natura e dei beni culturali acquisiscono ovvero gestiscono aree e/o beni. Ma l’acquisizione non è la loro missione specifica. Per quel che concerne gli enti l’unica esperienza associabile a quella della proprietà ambientale è quella degli enti parco ai quali il legislatore ha riconosciuto la possibilità di esercitare un diritto di prelazione sulle aree presenti all’interno dei confini del parco e anche l’espropriazione. (1) Ma sull’esercizio di queste prerogative e dunque sulla quantità di aree acquisite non si hanno notizie circostanziate.
4. Il fenomeno della proprietà ambientale e i sistemi di pianificazione delle aree protette
Il rapporto con le forme di protezione della natura attraverso i sistemi regolativi/pianificatori – di cui comunque vanno tenute presenti le difficoltà precedentemente richiamate – non deve essere visto in termini di alternatività e contrapposizione. Sia il Trust britannico che il Conservatoire hanno preceduto l’introduzione di un sistema pubblico di protezione ovvero hanno affiancato il funzionamento di strumenti ordinari di protezione operando in modo sinergico e rafforzando l’azione pianificatoria/regolativa.
5. Il fenomeno della proprietà ambientale: fattori di convenienza e prospettive
Nel fenomeno della proprietà ambientale si può rintracciare il ritorno ad una sorta di manomorta di natura ambientale, che sottrae beni alla produzione e marginalizza un approccio pianificatorio, grazie al quale, al contrario, si tenta di prendere in considerazione e coniugare le forme di tutela con la valorizzazione/promozione e gestione di attività sostenibili e compatibili. A proposito di questa obiezione, va evidenziato il fatto che nell’attuale situazione l’esigenza di conservare o comunque la sottrazione alla piena utilizzazione dei beni naturali sta prendendo quota rispetto alla ricerca della produttività.
La stessa Politica Agricola Comune (PAC), che per lungo tempo è stata uno strumento fondamentale (più efficace della stessa pianificazione paesistica o paesaggistica che dir si voglia) per la difesa di certi paesaggi si è indebolita e ha cambiato natura erogando contributi, per esempio, anche per il set aside (congelamento) delle terre o per l’introduzione delle cosiddette buone pratiche agricole. (2)
Nella considerazione degli elementi che suggeriscono l’avvio di un processo di acquisizione di beni per finalità ambientali – che coinvolga, ai diversi livelli, le amministrazioni pubbliche, lo Stato ma anche associazioni e soggetti privati – non va trascurato, dunque, il fatto che il ritorno economico e\o la compensazione di un investimento nella protezione della natura possano venire non soltanto dalla valorizzazione (turistica per esempio) dei beni protetti, ma proprio dalla loro conservazione in sé stesso e dallo stesso set aside prima richiamato. Rispetto ad esso alla disponibilità di contributi nel quadro della PAC e più in particolare delle politiche di sviluppo rurale si può aggiungere un valore economico vero e proprio – oggetto di un apposito trasferimento finanziario – legato, per esempio, alla quantità di Co2 che le aree protette sono in grado di assorbire (e dunque al risparmio sulla bolletta di Kyoto pagata dal Governo oppure all’innesco di negozi e pratiche cooperative tra soggetti diversi aventi ad oggetto il carbon offset), alla quantità di energia alternativa che possono produrre nel quadro della strategia comunitaria del 20 20 20.
In questa prospettiva – anche per collocare il ragionamento sul piano degli stessi principi costituzionali – nell’introduzione al libro il professor Carlo Alberto Graziani sottolinea come la formula del razionale sfruttamento del suolo di cui all’art. 44 della Costituzione (3) possa perdere il suo significato originario diventando parte integrante di una politica nei confronti dell’uso del suolo e della protezione dell’ambiente, all’interno della quale il razionale sfruttamento del suolo possa concretizzarsi anche nella non utilizzazione.
In questo quadro si imporrebbe anche una revisione degli stessi strumenti preordinati al razionale sfruttamento del suolo – identificati dai costituenti con la limitata estensione della proprietà, la trasformazione del latifondo e la ricostituzione delle unità produttive – all’interno della quale non escludere la possibilità di ricorrere a un rinnovato “latifondo ambientale”.
Va infine considerato il fatto che le esperienze descritte in seguito presentano, tra gli altri, un tratto comune costituito dal significativo successo che sia il National Trust che il Conservatoire riscuotono, sotto forma di sottoscrizioni, lasciti e donazioni. Ciò dimostra come, indipendentemente dalla natura pubblica o privata di questi soggetti, la chiarezza del mandato e della missione perseguiti li renda, più facilmente, beneficiari di trasferimenti da parte di soggetti terzi. Si pensi, al contrario, alla credibilità dei nostri enti parco, i cui vertici vengono commissariati cambiano o divengono oggetto di conflitto tra Governo, regioni e enti locali ad ogni passaggio elettorale, e ai quali si pensa come strutture presso le quali parcheggiare più o meno temporaneamente politici, tecnici di riferimento e “clientes”
6. Esperienze e spunti per la ridefinizione/correzione dell’attuale sistema di protezione della natura
In questa seconda parte verranno richiamati in sintesi gli elementi distintivi delle due esperienze richiamate all’inizio di questo documento e si darà conto, infine, di una modifica al Codice Civile della quale verificare l’utilità al fine di avviare e consolidare un processo di acquisizione di beni da conservare da parte di soggetti pubblici e/o privati.
7. Il National Trust
Il National Trust for Places of Historic Interest or Natural Beauty nasce come associazione privata senza scopi di lucro nel 1895 con la “finalità prioritaria della tutela degli spazi naturali di particolare bellezza, anche al fine di salvaguardarli come spazi aperti all’accesso pubblico”.
Nel 1907 è giunto il riconoscimento normativo; il National Trust Act ha conferito uno speciale statuto a questa charity incaricata di conservare terre e immobili individuati per la loro bellezza per l’interesse storico o per le loro caratteristiche fisiche, attraverso la loro acquisizione e gestione duratura nel tempo. Gli strumenti attraverso i quali costruire e gestire questo prezioso sono le donazioni, i lasciti ma anche l’acquisto sul mercato.
La legge del 1907 prevede anche che il Council del National Trust possa stabilire – ove si accerti che i beni di cui entra in possesso meritino di essere conservati per il bene della nazione (4) – che siano dichiarati inalienabili e dunque non possono essere né venduti né divenire oggetto di garanzie reali. Gli stessi beni sono preservati dall’espropriazione a meno che il Trust non dia il suo consenso.
Come detto l’attività fondamentale del Trust è acquisire in proprietà e gestire beni culturali e ambientali senza avvalersi di diritti di prelazione né della possibilità di beneficiare di espropriazioni, ma operando sul mercato con normale compravendite e godendo di lasciti ereditari e donazioni. A questo proposito va precisato che le leggi accordano al donatore la facoltà di rimanere nel bene ceduto al Trust sollevandosi dall’ottemperanza agli obblighi connessi ma potendo comunque godere del bene.
Il Trust non può vendere i beni dichiarati inalienabili a meno che non venga adottato un apposito Act of Parliament e di fronte ad una possibile espropriazione il Trust può opporsi attivando una procedura particolarmente complessa con il coinvolgimento del Parlamento.
Il Trust detiene poteri regolamentari rispetto alle aree di proprietà che provvede a gestire direttamente con il supporto dei suoi volontari – che superano i 3 milioni – garantendo generalmente l’accesso alle aree non coltivate e definendo con gli agricoltori le condizioni e le modalità di accesso a quelle coltivate. In alcuni casi opera attraverso conservation covenant con altri soggetti privati che si impegnano ad utilizzare in un certo modo i beni.
Venendo ad alcuni dati sul patrimonio, si può dire che al 2003 la sua consistenza era di 275.000 ettari (un po’ meno della Valle d’Aosta). Il NT è proprietario di circa il 20% dell’intera costa dell’Inghilterra, Galles e Irlanda del Nord ma tende ad acquistare anche beni presenti nel retroterra della fascia costiera. Il NT, per la gran quantità di terre coltivate, può essere considerato una vera e propria “farming organisation” che cerca di sensibilizzare le aziende agricole a stabilire un rapporto con il territorio meno invasivo. Il NT possiede anche 25.000 ettari di boschi (di cui 5.000 “antichi” di particolare valore) nei confronti dei quali ha intrapreso una gestione coraggiosa che non esclude completamente la produzione di legname. Per la gestione il Trust elabora per tutte le proprietà uno statement of significance attraverso il quale individuare le caratteristiche del sito ed il modo per gestirlo consultando, ai fini della sua elaborazione, le comunità locali.
L’estensione delle proprietà ha un impatto sulle comunità locali che abitano in quelle aree (ne sono condizionati e per certi aspetti ne sono dipendenti) tale da trasformare il Trust in un soggetto di governo. Su questo aspetto è interessante osservare come il Trust, pur essendo un soggetto privato, contribuisca a uno sforzo tradizionalmente pubblico che è quello del riequilibrio territoriale. In considerazione del fatto che la quota maggioritaria dei suoi iscritti e sostenitori si ritrova tra la popolazione urbana, il Trust finisce per operare come una sorte di investment agency che raccoglie risorse tra un certo segmento della popolazione “metropolitano” e le trasferisce alle aree da conservare e quindi più marginali da un punto di vista della vitalità economica e della capacità produttiva. A questo proposito è utile evidenziare il fatto che il Trust operi lanciando pubbliche sottoscrizioni riferite alla raccolta di fondi necessari ad intervenire, per esempio, per la tutela delle zone costiere disponendo in questo modo delle risorse necessarie a intervenire ogni volta che un bene ambientale venga messo in vendita o sia a rischio. (5)
Come detto nella prima parte, la presenza di un soggetto di questo tipo non surroga ma integra un sistema di pianificazione e gestione di aree da tutelare che si è sviluppato a partire dal 1949 con il National Parks and Access to the countryside Act (riformato diverse volte nei decenni successivi) e che distingue alcune tipologie di aree da tutelare (National Parks; Areas of Outstanding Natural Beauty; Sites of special scientific interest e Nature Reserves) affidandole alla gestione di appositi consigli formati da rappresentanti degli enti locali e, per effetto di una modifica relativamente recente, da rappresentanti del Segretario di Stato competente. Le aree comprese nei parchi nazionali sono soggette a un sistema di regolazione e gestione che prevede l’adozione di specifici strumenti pianificatori e regolamentari, e la contestuale promozione e incentivazione di attività compatibili.
8. Il Conservatoire de l’espace littoral et des rivages lacustres
Il Conservatoire nasce con la legge 10 luglio 1975 n. 75-602 quale strumento di politica fondiaria per la tutela e la salvaguardia del littoral e la protezione degli ambienti naturali e degli ecosistemi presenti lungo la fascia costiera, più che per la gestione del territorio.
Il Conservatoire è un établissement public a carattere amministrativo posto sotto la sorveglianza del Ministero dell’Ambiente, la cui gestione è garantita da un organo di governo a struttura mista formato da membri scelti dal Parlamento, da rappresentanti ministeriali, delle associazioni ambientaliste, delle regioni e degli enti locali.
L’ambito d’azione del Conservatoire è rappresentato dai cantoni costieri dei territori metropolitani e dei dipartimenti oltremare, dai terreni dei comuni posti sulle rive dei laghi o sui bacini di oltre 1000 ettari, dai comuni rivieraschi degli estuari e dei delta e dagli altri comuni che intervengono direttamente negli equilibri economici della fascia costiera previo parere del Conservatoire e assenso del Prefetto.
Le risorse per il funzionamento derivano da una specifica dotazione statale ma il Conservatoire può ricevere comunque sovvenzioni e contributi volontari di soggetti pubblici e privati, lasciti ereditari e donazioni. Negli ultimi anni si è registrato un aumento dei contributi delle regioni che parallelamente all’ampliamento delle loro responsabilità concorrono al finanziamento delle attività connesse alla gestione dei siti. A questo proposito emerge la differenza più rilevante tra NT e Conservatoire – ferma restando la diversa natura giuridica – consistente nel diverso rapporto con gli enti locali tanto che si dice sempre più spesso che tra il Conservatoire e gli enti locali sussista un rapporto organico e strutturato di partnership.
Per l’acquisizione degli immobili e delle aree il Conservatoire può avvalersi del diritto di prelazione, dell’espropriazione nonché della transizione bonaria, che rappresenta lo strumento più praticato che beneficia, però, dell’esistenza della prerogativa di esercitare il diritto di prelazione. L’espropriazione ha riguardato, invece, solo il 3% delle acquisizioni realizzate, Il Conservatoire è anche assegnatario di beni di proprietà dello Stato, per esempio del Ministero della Difesa.
I principali criteri a cui si attiene il Conservatoire per la scelta delle aree da acquisire sono a) la presenza di forti minacce rispetto a un sito; b) la necessità di recuperare una zona in via di degrado; c) la volontà di aprire al pubblico un sito prima dell’acquisizione inaccessibile.
Quanto alla natura giuridica del patrimonio fondiario la legge dice che i terreni acquisiti – non tutti ma quelli per i quali il Conservatoire ha stabilito la necessità di conservarli per la salvaguardia del littoral – entrano a far parte del suo demanio e ad essi, in forza di una disposizione normativa, si applica il regime della demanialità e dunque una sostanziale inalienabilità.
Per quanto riguarda la gestione il Conservatoire stipula con gli enti territoriali o con altri soggetti, di cui è stato predisposto un elenco tassativo (enti pubblici locali, organismi pubblici, fondazioni e associazioni specializzate) apposite convenzioni accompagnate da un “piano di gestione” elaborato e adottato dal Conservatoire d’intesa con i gestori e volto a definire – sulla base di un bilancio ecologico relativo allo stato del sito stesso, alla ricchezza della flora e della fauna, alla sua fragilità e al suo interesse sotto il profilo paesistico, culturale e naturale – le caratteristiche fisiche del sito, ma soprattutto gli obiettivi e gli obblighi connessi alla gestione.
A fianco del Conservatoire ci sono dei soggetti privati – Conservatoires regionaux d’espaces naturels (CREN) – animati da associazioni ambientaliste e scienziati, che acquisiscono in proprietà oppure affittano siti naturali dei quali assicurano, in collaborazione con le amministrazioni locali ed eventualmente con gli stessi proprietari privati, la conservazione e la gestione.
Analogamente a quanto detto per il National Trust l’esistenza di questo soggetto, e dunque di una politica fondiaria per la tutela dell’ambiente, non mette in discussione approcci pianificatori/regolativi. Successivamente all’istituzione del Conservatoire, infatti, è stata introdotta una specifica forma di protezione del littoral (6) e ha continuato a esistere un sistema di siti protetti, parchi e riserve naturali.
9. L’articolo 2645ter del Codice Civile
Nella legge 23 febbraio 2006 n. 51 è stato inserito nel codice civile l’articolo 2645ter che recita così
«Gli atti in forma pubblica con cui beni immobili o beni mobili iscritti in pubblici registri sono destinati, per un periodo non superiore a novanta anni o per la durata della vita della persona fisica beneficiaria, alla realizzazione di interessi meritevoli di tutela riferibili a persone con disabilità, a pubbliche amministrazioni, o ad altri enti o persone fisiche ai sensi dell’articolo 1322, secondo comma, possono essere trascritti al fine di rendere opponibile ai terzi il vincolo di destinazione; per la realizzazione di tali interessi può agire, oltre al conferente, qualsiasi interessato anche durante la vita del conferente stesso. I beni conferiti e i loro frutti possono essere impiegati solo per la realizzazione del fine di destinazione e possono costituire oggetto di esecuzione, salvo quanto previsto dall’articolo 2915, primo comma, solo per debiti contratti per tale scopo».
Senza entrare nel merito del dibattito intorno alla questione se questo articolo del Codice civile abbia introdotto o meno un nuovo tipo di negozio di destinazione, qui se ne richiama il contenuto per sottoporre ad una necessaria verifica l’ipotesi che tale norma possa essere utile ai fini del funzionamento complessivo del processo di patrimonializzazione delle aree da conservare a cui si fa riferimento in questo documento.
Questa previsione del Codice si può collocare in modo appropriato all’interno di una riorganizzazione del sistema degli oneri concessori e dei tributi connessi alle operazioni di trasformazione edilizia e urbanistica del territorio che passi da una forma di prelievo pubblico – come l’attuale – preoccupato essenzialmente di far compartecipare i privati ai costi dell’urbanizzazione, a un sistema di esazioni (sotto forma di denaro ma anche di aree) che contribuisca alla definizione e alla gestione di bilanci ecologici, in base ai quali ogni sacrificio marginale di aree libere sia adeguatamente compensato dall’acquisizione alla collettività di parti del territorio risparmiato dall’urbanizzazione, e dalla cessione delle risorse necessarie alla loro gestione sostenibile nel tempo. Su questo aspetto è possibile fare tesoro delle esperienze di compensazione ecologica preventiva, di matrice forestale, praticate in Germania, ma anche in Olanda e negli Stati Uniti, e studiate in Italia da Pileri.
Secondo questa impostazione, si può prevedere che le risorse generate dalle operazioni urbanistiche riferite agli ambiti di trasformazione non restino integralmente nelle casse dei Comuni nei quali dette operazioni sono state realizzate – a finanziarne come accade ora la spesa corrente – ma che alimentino degli appositi fondi per l’acquisizione delle aree presenti all’interno di parchi e riserve regionali, e che lo stesso debito, nei confronti della natura, accumulato dai Comuni venga saldato attraverso il conferimento di aree preservate dall’urbanizzazione agli enti di gestione esistenti e alle Conservatorie da istituire secondo il ragionamento proposto.
Nella prospettiva di una patrimonializzazione delle aree da conservare, la disposizione del Codice prima richiamata potrebbe rappresentare uno strumento giuridico attraverso il quale strutturare, alle scale più opportune, le necessarie relazioni di servitù ecologica tra le aree oggetto di trasformazione e valorizzazione immobiliare, che generano risorse, e quelle da conservare.
La possibilità, prevista da questo articolo del Codice, di trascrivere e dunque rendere opponibile di fronte a terzi un atto volontario con il quale vincolare dei beni alla realizzazione di un interesse meritevole di tutela, costituirebbe, infatti, l’appiglio grazie al quale legittimare un contratto che lega chi realizza un’operazione immobiliare, i proprietari di aree non urbanizzate comprese nei parchi o in appositi perimetri di protezione e i rispettivi enti di gestione oppure nuovi soggetti giuridici da costituire sulla base dei modelli francesi e britannici evocati precedentemente.
All’interno di questi schemi contrattuali, i primi si obbligherebbero ad acquisire un’area libera dimensionata sulla base del valore dell’operazione immobiliare che realizzano (oppure a trasferire ai proprietari di quell’area un canone necessario alla sua gestione sostenibile), ad apporre su di essa un vincolo (non urbanistico e non pubblicistico, ma in forza della disposizione del Codice) a essere conservata, che si sostanzia proprio nel suo conferimento al patrimonio degli enti di gestione delle aree protette o di apposite Conservatorie; quest’ultimi, invece, funzionerebbero come dei Trust, che costruendo un patrimonio di aree, di cui assicurare la conservazione nell’interesse della collettività, avranno il compito di curare e tenere costantemente aggiornato una sorta di anagrafe pubblica delle aree a diverso titolo preservate dall’urbanizzazione, e di pianificarne e gestirne le forme d’uso in modo più efficace di quanto accada attualmente.
Note
(1) L’indicazione normativa contenuta nella legge quadro è ulteriormente specificata e arricchita in alcune leggi regionali: quella Toscana (L.R. n. 65 del 1997 art. 23), quella della Basilicata (L.R n. 47 del 1997 art. 18) e quella della Valle d’Aosta (L.R. n. 30 del 1991 art. 28)
(2) Tra di esse si trovano la cura dei corsi d’acqua, il ripristino delle fasce arboree, la piantumazione al confine tra le proprietà etc.;
(3) Art. 44 Cost. 1. Al fine di conseguire il razionale sfruttamento del suolo e di stabilire equi rapporti sociali, la legge impone obblighi e vincoli alla proprietà terriera privata, fissa limiti alla sua estensione secondo le regioni e le zone agrarie, promuove ed impone la bonifica delle terre, la trasformazione del latifondo e la ricostituzione delle unità produttive; aiuta la piccola e la media proprietà. La legge dispone provvedimenti a favore delle zone montane.
(4) Questa scelta avviene sulla base di un apposito e rigoroso processo valutativo (assessment process), che richiede una serie di perizie di esperti sulle caratteristiche della proprietà, sui rischi eventuali che presenta e sui benefici pubblici che garantisce.
(5) “Enterprise Neptune dal 1965 ha portato alla raccolta di 34 milioni di sterline, traendo beneficio anche da contributi provenienti dal governo centrale e, a volte, dai governi locali. Ha consentito di acquisire (fino al 2000) 665 Km di costa”;
(6) Nel 1986 è stata approvata la loi à l’aménagement, la protection et la mise en valeur du littoral con la quale si è dotato il cosiddetto littoral di una specifica forma di tutela e di una specifica politica della quale vengono forniti gli elementi e le regole fondamentali quali l’estensione limitata dell’urbanizzazione costiera negli spazi prossimi alla riva; il divieto, non assoluto, di edificabilità nella fascia costiera dei cento metri a partire dalla linea alta di costa o dal livello massimo di invaso; l’assoggettamento di qualsivoglia operazione sul littoral (anche di conservazione) allo svolgimento di una enquete publique.
Bibliografia
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