Evoluzioni
Partiamo dalla condivisione del concetto di cultura come trasmissione e scambio di conoscenza in senso eco-sistemico, interpretazione che pone l’accento non più sul prodotto culturale in sé, ma sulla sua dimensione processuale che a monte, durante e a valle, coinvolge e vede come protagonista una nuova molteplicità di attori e interlocutori: finanziatori, produttori e consumatori che dialogano, si sovrappongono, producono e fruiscono (talvolta contemporaneamente e scambiandosi i ruoli) all’interno di una nuova relazione fluida.
In questi processi di scambio, sovrapposizione di ruoli e professioni, sperimentazione e costruzione di saperi, le figure professionali inevitabilmente si evolvono così come si assiste a un progressivo mutamento di approccio da parte sia delle istituzioni promotrici di azioni culturali, verso l’esterno e nei confronti dei diversi attori che popolano il sistema culturale, sia dei finanziatori di quest’ultime.
La professione dell’artista/creatore/produttore in questa nuova situazione assume contorni più flessibili e trasversali trovandosi al centro di relazioni sociali e istituzionali rispetto all’ormai lontana e superata visione dell’artista autonomo e indipendente. In particolare l’artista contemporaneo viene caricato di nuovi significati e responsabilità nei confronti delle istituzioni e amministrazioni, pubbliche o private che siano, alle quali fa riferimento, del pubblico e del contesto in cui opera, e, allargando la visione, della società più in generale.
Da qui l’investitura dell’artista quale mediatore, facilitatore o consulente, che indossati i panni dell’uno o dell’altro risponde ai più diversi obiettivi: dalla (auspicata) risoluzione di emergenze e disagi sociali all’interpretazione dei bisogni di una comunità, dalla coesione sociale alla visione di soluzioni alternative all’interno di progetti di riqualificazione urbana, dall’intercettazione alla formazione di nuovo pubblico. L’artista che dialoga con l’amministrazione comunale e con gli abitanti, l’urbanista che partecipa a un workshop tenuto dallo stesso artista sono esempi utili per dimostrarci come ci sia stata un’evoluzione dei profili, che in alcuni casi assottigliano i confini tra un “mestiere” e l’altro.
Ciò non significa mettere in discussione le competenze, ma più semplicemente condividere e mettere a servizio le conoscenze proprie di ciascuna professione. L’artista veste i panni del tecnico capace di portare competenze e soluzioni creative, del politico, che agisce con un obiettivo predefinito e del mediatore, capace di operare su piani e settori diversi tra loro interrelati. Allo stesso modo il planner scopre strumenti di analisi, interazione e progettazione più complessi ed efficaci, capaci di considerare dimensioni più complesse e stratificate della realtà nella quale si trova ad operare.
The Street
All’interno di questa riflessione e più in generale sul concetto di azione culturale come pratica e significato, si inserisce il caso del progetto The Street, realizzato a Londra tra il 2008 e il 2011 da una galleria pubblica, Whitechapel Gallery.
Whitechapel Gallery è un’istituzione culturale nonprofit fondata nel 1901 nel cuore di una zona degradata nell’Est di Londra da un religioso, con il dichiarato intento di “bring great art to the people of East London”. Nella sua storia, lunga più di un secolo, l’istituzione si è sempre distinta per aver attribuito all’arte e alle attività culturali ad essa legate un’utilità sociale, visione in parte condizionata dalla posizione stessa della Galleria e dai finanziamenti pubblici grazie ai quali si sostiene. La sede si trova infatti nel quartiere Tower Hamlets, uno dei più poveri e multiculturali dell’intero Regno Unito, ma al tempo stesso tra i più vivaci sul piano creativo; i principali finanziatori della Galleria sono enti pubblici, dal London Borough of Tower Hamlets all’Arts Council.
Nel 2007 Whitechapel Gallery è coinvolta in un processo di riqualificazione urbana fortemente sostenuto dalle amministrazioni municipale e di quartiere, desiderose di attivare una serie di politiche volte alla regeneration della zona attraverso il riconoscimento, coraggioso e lungimirante, di un ruolo centrale dell’arte contemporanea e delle istituzioni e industrie culturali operanti nell’area. In particolare, Whitechapel Gallery viene indicata all’interno dei piani urbanistici quale attore fondamentale del processo di rigenerazione. Per queste ragioni la Galleria riceve un finanziamento per il raddoppio della sua superficie espositiva: dei tredici milioni di sterline necessari per i lavori di ampliamento oltre la metà provengono dagli enti pubblici promotori delle attività della Galleria, gli altri da privati attraverso donazioni.
Nel 2008 dunque la sede di Whitechapel Gallery chiude parzialmente al pubblico per i lavori di ampliamento, durati oltre due anni: in questo periodo di tempo si svolge la fase più significativa del progetto di arte pubblica The Street, ideato da Marijke Steedman e Anthony Spira, rispettivamente curatori dei dipartimenti Education e Exhibition. Un’iniziativa che proietta la Galleria all’esterno, diffondendola nel contesto urbano circostante e eliminando quelle barriere, architettoniche e psicologiche, che spesso limitano o scoraggiano l’accesso ai luoghi della cultura.
Il progetto si articola in due fasi: la prima, nel periodo compreso tra marzo 2008 e gennaio 2009, da svolgere fuori sede, ossia per strada; la seconda, compresa nel biennio 2009–2011, in cui attuare un programma espositivo per collegare l’interno della nuova sede della Galleria con l’esterno, forti del lavoro di sensibilizzazione del pubblico implementato durante il primo periodo d’attività.
Dal punto di vista finanziario il budget totale di The Street, necessario per coprire i costi, inclusi staff e il 10% di margine di rischio, è stimato in 329.924 sterline per il primo anno (prima fase) e 257.465 sterline per il secondo e il terzo anno (seconda fase).
Il dipartimento Development di Whitechapel Gallery diversifica le richieste su due finanziatori privati molto distanti tra loro: J.P. Morgan, società leader nei servizi finanziari globali, e Esmée Fairbairn Foundation, ente privato che finanzia sul territorio britannico attività educative e di formazione a scopo benefico. A loro si deve l’intero sostegno al progetto per una cifra complessiva di 250.000 sterline, minore del budget stimato ma bastevole per avviare l’attività, seppur ridimensionata rispetto agli inizi.
Per il primo anno The Street si concentra in Wentworth Street, un luogo simbolico dell’intreccio di attività, culture straniere e condizioni sociali diverse che caratterizza tutto il quartiere, sede giornaliera del Petticoat Lane Market.
La prima fase del progetto prevede otto interventi, commissionati a otto diversi artisti e collettivi di artisti, che si susseguono durante il primo anno, avendo come base un ex negozio di cappelli con due vetrine sulla strada, The Shop. Gli artisti chiamati dalla Galleria a presentare un intervento site-specific, che dialogasse e coinvolgesse gli abitanti e la vita del quartiere, sono Nedko Solakov, Bernd Krauss, Shimabuku, Eileen Perrier, Jens Haaning, Henry VIII’s Wives, Melanie Manchot e Minerva Cuevas.
Per ragioni di brevità prendiamo in esame i tre interventi risultati complessivamente più efficaci e maggiormente significativi ai fini della nostra riflessione, ovvero quelli di Nedko Solakov (BG), Bernd Krauss (D) e Minerva Cuevas (MEX). I tre progetti presentati ai curatori hanno come punto di partenza comune l’introduzione di nuove tipologie di commercio e scambio all’interno del Petticoat Lane Market, un mercato secolare oggi caratterizzato da clienti e prodotti di origine straniera, per lo più bengalese e somala.
“A Turnover for many and a bit of luck for one”, l’intervento dell’artista bulgaro Nedko Solakov, si concentra in effetti sull’attività del mercato. All’interno di The Shop sono esposti un acquarello firmato dall’artista e una lettera d’istruzioni per il pubblico, chiamato a partecipare attivamente al processo di creazione dell’opera, avviato dall’artista senza l’idea di un risultato predefinito. Secondo le indicazioni di Solakov ciascun visitatore è stimolato a eseguire un gesto quotidiano: l’acquisto presso il Petticoat Lane Market di un bene di consumo del valore maggiore di 5 sterline, al quale viene assegnato un numero di lotteria, il cui premio finale è l’acquarello dipinto dallo stesso Solakov. È un’operazione che nelle intenzioni dell’artista mette in relazione le dinamiche del mercato dell’arte, caratterizzato da cifre smisurate, con le attività di un normale mercato di strada, economico e un po’ squallido, costringendo il visitatore della Galleria a interagire, in molti casi per la prima volta e senza pregiudizi, con i commercianti di Wentworth Street, e viceversa.
Per il suo intervento Bernd Krauss usa The Shop come salotto: lo spazio espositivo si trasforma in residenza privata, ma allo stesso tempo pubblica perché visibile a tutti attraverso le due vetrine del negozio. Krauss riempie progressivamente l’interno dello spazio con oggetti di scarto, recuperati e rivalorizzati attraverso la sua creatività: una collection in progress destinata a concludersi con un’asta pubblica in strada, che trasforma i ritrovati “pezzi da collezione” in nuove merci di scambio. Uno scambio che ancora una volta da commerciale diventa culturale, nel momento in cui molti dei frequentatori dell’area sono di origine straniera. Anche in questo secondo intervento il commercio è strumento di mediazione che collega e mette a confronto mondi solitamente distanti, e l’artista ancora una volta si fa attivatore e poi interprete degli scambi e delle dinamiche che prendono corpo all’interno di questa nuova piazza. Sicuramente quello di Krauss è l’intervento che più mette in gioco la relazione artista-pubblico in modo diretto, quasi sfrontato, per cui vale la definizione non più di arte pubblica bensì di arte per il pubblico, inteso come quel gruppo di persone che viene direttamente coinvolto nell’esperienza e nella fruizione del lavoro dell’artista.
L’intervento della messicana Minerva Cuevas trae invece ispirazione da un sistema mutualistico molto diffuso in Gran Bretagna tra il XIX e il XX secolo, ovvero l’impiego da parte delle cooperative dell’epoca di gettoni (tokens) per redistribuire la ricchezza ai propri soci a fine anno, “monete” attraverso le quali era possibile acquistare i beni prodotti dalla cooperativa stessa. Un commercio basato sul baratto utilizzato nei periodi di crisi economica, a discapito degli scambi con valuta corrente. Allo scoppiare della crisi del sistema capitalistico a cavallo tra il 2008 e il 2009 Cuevas riporta simbolicamente l’attenzione su forme alternative di scambio, introducendo nella microeconomia del Petticoat Lane Market S.COOP un gettone del valore equivalente a 1,20 sterline, riscattabile acquistando un gelato presso The Shop, trasformato per l’occasione in una gelateria. La reazione dei commercianti direttamente coinvolti in questa rivoluzione economica è generalmente positiva: S.COOP ben si integra con i meccanismi del mercato, coinvolgendo i venditori come parte attiva del progetto e stimolando i visitatori di The Street a fare acquisti nel Petticoat Lane Market per ottenere i gettoni e partecipare alla nuova forma di scambio commerciale. L’intervento di Cuevas rappresenta inoltre un successo in termini di continuità e rimando tra le attività “in esterna” della Galleria e quelle ancora in corso all’interno, negli spazi di Whitechapel non toccati in quel momento dai lavori di ampliamento: nel periodo di svolgimento di S.COOP, meno di due mesi, la personale di Minerva Cuevas allestita nella Galleria viene visitata da circa ottantamila persone.
Dialoghi
The Street si è rivelato un progetto curatoriale aperto: gli artisti sono stati invitati a lavorare con un approccio attento al contesto e in funzione di esso, ma senza essere obbligati a confrontarsi forzatamente con una comunità o con un target predefinito né tantomeno con finalità esclusivamente educative. Questo paradossalmente si spiega con la natura stessa del finanziamento del progetto: non un sostegno pubblico bensì un contributo esclusivamente proveniente dal mondo privato, grazie al quale è stato possibile slegarsi dalle severe logiche di risultato, abbondanti di obiettivi educativi e sociali, tipiche delle amministrazioni pubbliche, lasciando invece liberi curatori e artisti di essere tali.
Per un anno la presenza quotidiana e regolare degli artisti nel contesto urbano ha dato luogo a una relazione continuativa con un nuovo pubblico, indipendentemente dalla provenienza. La presenza del team della Galleria e degli artisti invitati, le comunicazioni via lettera ai commercianti e ai residenti della zona hanno di giorno in giorno assicurato una cornice che ha garantito la riconoscibilità e la condivisione dei diversi interventi: il dialogo è stato infatti una variabile fondamentale del successo di The Street. Il progetto nel suo complesso può rientrare a pieno titolo nella definizione di collective artistic praxis, una “projective enterprise” (M. Kwon, “One place after another: site–specific art and locational identity”, 2002) che ha coinvolto in maniera temporanea gruppi di persone, che si sono creati in funzione delle specifiche circostanze definite dall’artista, che a sua volta ha dato vita ad un terreno d’incontro con il pubblico non intenzionale.
In conclusione, l’esperienza di The Street, seppur circoscritta, pone sul tavolo della discussione numerosi elementi e criticità, che ci aiutano a dare concretezza alle premesse iniziali. Dimostra di fatto come nel momento in cui si sposta l’accento dal prodotto al processo la figura dell’artista inevitabilmente cambia, perché chiamata a relazionarsi con nuovi pubblici ed esigenze, nonché a rapportarsi con una nuova molteplicità di attori ed interlocutori, divenendo così più flessibile e permeabile rispetto al contesto in cui si trova ad operare. Gli esiti del progetto londinese stimolano altresì una riflessione più ampia sul ruolo e sull’approccio passato, presente e futuro degli attori che compongono la filiera culturale e, preso atto di ciò, sulle scelte a livello di politica culturale da mettere in campo.
Il progetto The Street infatti si muove nel solco del cambiamento su due ulteriori livelli: coloro che sono “inciampati” nel progetto The Street si sono rivelati parte attiva del processo innescato dall’artista e dall’istituzione museale, contribuendo alla creazione di significati rispetto all’intervento stesso e superando così la condizione di spettatori passivi di un prodotto; l’istituzione culturale promotrice del progetto d’altro canto si è snaturata nel momento in cui ha deciso di agire al di fuori della sua sede fisica per creare nuovi spazi di interazione, invertendo in questo modo le rotte abituali che portano il pubblico dall’esterno all’interno dell’istituzione, e mai il contrario. Un’ inversione di tendenza sicuramente da non sottovalutare.