Abstract
Is there really a Tuscan landscape? Maybe, it is better to say the Tuscan landscapes, since the variety of situations makes difficult the reduction to a unified framework, although the landscape of the region is commonly identified with the settlement spread and the mixed-culture of an urbanized countryside, built on the basis of a close and special relationship between the town and country, actualized through the sharecropping. This long local agricultural organization has produced the scattered settlement of farmsteads, a widespread network of rural roads connected to the main roads, the presence of woody and herbaceous crop on the same land, with vineyards and olive trees interspersed in arable land, a continuous and coherent territorial maintenance.
Rossano Pazzagli interprets landscape as a common good, indicating the ways this interpretation should guide the actions affecting regional landscape. The article proposes this approach by analysing recent regulations that introduce social participation in the construction of a shared vision of the Tuscany landscape.
Ascesa e declino del Paesaggio Toscano
Esiste davvero un paesaggio toscano? Magari sarebbe meglio dire i paesaggi toscani, poiché la varietà di situazioni rende difficile la riduzione ad un quadro unitario, sebbene il paesaggio della regione si identifichi comunemente con quello dell’insediamento sparso e della cultura promiscua, di una campagna urbanizzata, costruita sulla base di uno stretto e particolare rapporto tra città e campagna, concretizzatosi nella mezzadria. Questa duratura organizzazione agricola del territorio ha prodotto l’insediamento sparso delle case coloniche, una rete diffusa di viabilità rurale collegata alle strade principali, la compresenza di colture legnose ed erbacee sugli stessi terreni, con la vite e l’olivo intercalati ai seminativi, una continua e coerente manutenzione territoriale.
Per secoli in buona parte della Toscana, ma anche in altre zone dell’Italia centrale dove prevaleva il contratto di mezzadria, case, olivi, viti e in certe aree anche gelsi e alberi da frutto, hanno così impresso al paesaggio una configurazione verticale, che si è andata a sommare a quella orizzontale degli arativi o seminativi. Tutto ciò deve essere considerato il frutto di un lungo processo di costruzione della campagna, intesa non come mondo a parte, ma piuttosto integrata con il reticolo delle città e dei centri urbani di minori dimensioni, che era giunto a produrre – proprio attraverso l’organizzazione mezzadrile dell’agricoltura – quell’“insediamento resistente”, che ha rappresentato a lungo un efficace sistema di produzione agricola e di compatibilità ambientale.
Forse questo paesaggio prodotto dall’agricoltura è stato fin troppo celebrato per poter essere guardato senza sfuggire alla sindrome del bel paesaggio (poetico, pittorico, urbano, agrario…), conseguenza delle descrizioni dei viaggiatori e della considerazione di storici e geografi, da Braudel che inquadrava le colline della Toscana come “la più commovente campagna che esista”, a Desplanques, secondo cui la “la campagna toscana è stata costruita come un’opera d’arte”.
La forza del mito, la capacità evocativa della campagna toscana, la diffusa sindrome del bel paesaggio, che contribuiscono ad alimentare l’orgoglio e la presunzione di ogni abitante della regione, si stanno alla fine rivelando un male per le colline della Toscana, messe sotto pressione dal turismo e dagli appetiti residenziali (sia pure di una popolazione che non cresce), dal cemento e dagli interessi edilizi, aggredite nella loro più recondita e duratura trama storica: quella dei mille borghi (castelli, terre murate, villaggi) e delle campagne organizzate attorno ai poderi, nodi di una rete coerente di piantagioni, filari, strade bianche, siepi e argini. È entrato in crisi l’equilibrio secolare fatto di una percepibile distinzione tra città e campagna, e al tempo stesso di una prudente integrazione di questi due elementi: l’urbano e il rurale che compongono da secoli l’identità profonda di questa regione. Le insidie al paesaggio non nascono oggi e riguardano purtroppo l’Italia intera; ma oggi richiedono una nuova consapevolezza e un impegno comune, come ha sintetizzato il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che nel consueto messaggio di fine anno ha richiamato la necessità dell’impegno per la “salvaguardia dell’ambiente, la tutela del territorio e del paesaggio, insidiati da nuove spinte speculative” [il corsivo è mio]. È un monito autorevole, che dà forza e speranza a quanti negli ultimi anni hanno denunciato e contrastato progetti edilizi, lottizzazioni e interventi sul territorio, non di rado frutto di pressioni lobbystiche nei confronti della politica e delle istituzioni. Se questa situazione di crisi riguarda tutta l’Italia, la Toscana, come è ormai noto, non ne è immune, non è un’isola felice sul piano urbanistico.
Siamo in presenza di un’aggressione che non nasce oggi, ma che comincia ad avere una profondità storica. A parte i precedenti di fine ‘800 – inizio ‘900, con l’abbattimento delle porte e delle mura di molti paesi per ragioni igieniche e viarie, il processo si è avviato concretamente negli anni ’60, in concomitanza con il boom economico. All’inizio ha preso la forma della costruzione di nuovi edifici, all’interno e intorno ai centri urbani, anche di piccole e medie dimensioni, snaturando la loro immagine urbanistica e sfumando il confine classico tra urbano e rurale, solitamente rappresentato dalla cinta muraria; spesso si è costruito sulle stesse mura, appoggiandosi su di esse, riutilizzando le antiche e grosse pietre, inglobando torrioni e difese storiche nelle nuove case. La pianificazione urbanistica è arrivata tardi, troppo tardi a regolare e contrastare questo fenomeno. Tuttavia va detto che esso avveniva sulla base di esigenze di modernizzazione delle strutture tradizionali, in un contesto di sviluppo economico e di crescita demografica.
Nei decenni successivi, si è passati dall’espansione/ammodernamento dei centri storici all’idea delle lottizzazioni fuori dai centri abitati, poi alle zone artigianali/industriali e commerciali, anch’esse collocate in zone rurali, infine alla comparsa di una inedita tipologia di insediamento: il villaggio turistico, a cui si sono trovate anche corrispondenti definizioni legislative, tra cui quella della cosiddetta “residenza turistico-alberghiera” (RTA). Dopo aver modificato pesantemente l’immagine dell’antico reticolo urbano, alterando irrimediabilmente i suoi contorni, si è cominciato così ad infrangere anche la funzionalità dei centri storici e le loro consolidate relazioni col territorio circostante. A differenza del primo, questo processo intensificatosi a cavallo del 2000 si è svolto essenzialmente entro un quadro di stasi o declino demografico e di rallentamento della crescita economica. È come dire che si è consumato più suolo quando ce n’era meno bisogno. Sarebbe necessario interrogarsi a fondo sulle cause di questa contraddizione storica e sulle sue conseguenze.
Il consumo di suolo ha significato in primo luogo alterazione del paesaggio, frattura del consolidato equilibrio tra città e campagna, nuovi costi ambientali in termini di uso delle risorse naturali, ridefinizione delle identità sociali. Ci sarebbe voluto prima uno strumento come lo “statuto del territorio”, introdotto dalla legge urbanistica regionale nel 2005, che individua preliminarmente le risorse, i beni e le regole relative all’uso del territorio, definendole come invarianti strutturali, cioè gli “elementi cardine dell’identità dei luoghi, consentendo in tal modo l’individuazione, ad ogni livello di pianificazione, dei percorsi di democrazia partecipata delle regole di insediamento e di trasformazione nel territorio.” (art. 5 L.R. 1/2005).
In questo concetto, più che nell’ossimoro della “conservazione attiva” ossessivamente ripetuto nei convegni sul paesaggio, risiede la chiave per rispondere realmente all’emergenza paesaggio, che si è manifestata in Toscana negli ultimi anni. All’insidia portata ai paesaggi regionali dagli interessi della rendita e del profitto si deve reagire, non con qualche vincolo straordinario di ispirazione centralistica, ma facendo diventare il paesaggio e il governo del territorio una questione di tutti, con la riscoperta di una politica vera e democratica fondata sul valore della partecipazione. Occorre incoraggiare, da questo punto di vista, il protagonismo delle comunità locali, siano esse rappresentate dai parchi, dai singoli comuni o da comuni associati (circondari, comunità montane, distretti rurali). I comuni, in particolare, devono essere aiutati a resistere alle pressioni degli interessi forti. Non è soltanto un problema di bello e brutto, che sono concetti relativi, ma di democrazia e di trasparenza delle scelte. Non è un caso che la “questione paesaggio” si sia manifestata in modo più diffuso negli ultimi vent’anni, in concomitanza con la profonda crisi della politica e l’involuzione dei soggetti politici tradizionali che hanno aperto maggiori spazi per l’organizzazione degli interessi privati e l’insorgere di metodi lobbistici al posto della normale dialettica democratica. Attualmente anche quando le leggi ci sono (e ce ne sono anche di buone), esse non bastano perché è peggiorata la politica, sempre meno legata alla elaborazione dal basso e alla partecipazione e sempre più sensibile ad interessi forti o particolari, che sembrano oggi ben più rappresentati di quelli generali. Si tratta di una tendenza non facilmente invertibile, se non si riparte dalla consapevolezza della storia toscana, del territorio e dell’ambiente di questa regione, e della necessità di un nuovo rapporto tra sviluppo e risorse disponibili.
La domanda principale deve essere quella relativa a chi e come decide, a quali interessi corrispondono le scelte di trasformazione del territorio. La risposta non può che essere il primato dell’interesse collettivo, il principio – peraltro chiaramente espresso dalla legge urbanistica toscana – che l’utilizzazione delle risorse territoriali ed ambientali deve avvenire garantendo la salvaguardia e il mantenimento dei beni comuni. Il paesaggio è un bene comune. Purtroppo dobbiamo constatare che statuto del territorio e paesaggio come bene comune, sebbene inseriti nella legislazione regionale, non sono ancora tenuti nella dovuta considerazione durante l’elaborazione dei piani urbanistici comunali e provinciali.
Intanto sarebbe già molto, oggi, evitare trasformazioni irreversibili e riflettere più compiutamente sui dati del consumo di suolo, tenendo conto che non si può aggiungere sempre; è come se in casa volessimo mettere continuamente mobili, alla fine ci troveremmo fuor di casa perché non abbiamo più spazio, oppure ci vivremmo molto peggio. Bisogna avere la forza di riqualificare l’esistente. Le colline toscane hanno già strutture a sufficienza per praticare la cultura e il turismo, oltre alla fondamentale attività agricola, senza la quale ogni sforzo di riqualificazione paesaggistica risulterebbe vano.
Un puzzle di paesaggi costruito nei secoli ha conosciuto nel giro di pochi decenni una crisi profonda, alla quale occorre far fronte con regole chiare; ma le regole urbanistiche non bastano. Serve soprattutto una presa di coscienza del valore culturale dei quadri paesistici della Toscana, una rinnovata consapevolezza del paesaggio come bene comune. Appare incoraggiante, in questo senso, che la Regione Toscana abbia recentemente approvato una legge regionale sulla partecipazione come strumento per rivitalizzare il governo e la democrazia, a tutti i livelli dell’amministrazione pubblica, per promuovere una feconda combinazione tra programmazione regionale e soggettività locale. Non è mai troppo tardi. Forse è anche necessario smitizzare un po’ il paesaggio toscano per salvarlo, per tutelarlo meglio, per sottrarlo al peso crescente degli interessi economici. Le sue ferite rappresentano in qualche misura anche il degrado della politica e della democrazia.