Cultura bene comune? Una riflessione retrospettiva

Che cosa vuol dire “bene comune” per i cittadini che nella cultura trovano ed elaborano la propria identità? E quali princìpi, regole e strumenti possono riuscire a proteggerne, consolidarne e diffondere il valore?

Turbolenze
“La conoscenza, il sapere, gli affetti e i prodotti dell’espressione umana sono un bene comune in senso stretto, e non merci. Quanto più si ‘consuma’ sapere, tanto più questo si moltiplica e si diffonde. E’ un bene generativo ed epidemico”. Così il sito web del Teatro Valle Occupato. E’ una risposta morbida alla provocazione di Giulio Tremonti, allora Ministro dell’Economia, che aveva dichiarato: “Con la cultura non si mangia”, generando una diffusa indignazione. Si tratta di una questione complessa, che rivela profili atmosferici quanto tecnici. Che cosa vuol dire “bene comune” per i cittadini che nella cultura trovano ed elaborano la propria identità? E quali princìpi, regole e strumenti possono riuscire a proteggerne, consolidarne e diffondere il valore?

 

In prima battuta, e senza bisogno di avventurarsi in strettoie filosofiche, è necessario comprendere in che modo la realtà potrebbe risultare disegnata senza cultura. Lo sottolinea Umberto Eco, reagendo alla provocazione di Tremonti: dopo aver offerto svariati esempi virtuosi di istituzioni culturali internazionali dice semplicemente: “Certo che se in quel poco non ci crediamo abbiamo perso in partenza. Non si mangia con l’anoressia culturale”. E lo ribadiscono i firmatari di un appello al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e ai Ministri per l’Istruzione e la Ricerca, e per i Beni e le Attività Culturali, indignati per le nomine alla Direzione del Castello di Rivoli, importantissimo museo d’arte contemporanea del nostro Paese.

 

E’ un appello inviato il 3 ottobre 2009, Giornata del Contemporaneo: “Ci rivolgiamo a Lei, signor Presidente, perché abbiamo la certezza che, come noi, senta la necessità di dare nuovo slancio culturale a un paese che ha bisogno, più di altri, di pensare la cultura come strumento di democrazia, come patrimonio collettivo e diritto di tutti; in particolare per le nuove generazioni e per le nuove cittadine e i nuovi cittadini italiani”.

 

Il bene comune non è esattamente un bene pubblico, poiché quest’ultimo è in qualche modo subordinato agli orientamenti economici e sociali del governo in carica e della sua maggioranza di riferimento, e in alcuni casi può addirittura essere alienato o modificato nei vincoli e nelle funzioni. Il bene comune rientra tra i diritti fondamentali di ciascuno e di tutti, e dovrebbe risultare indiscutibile, accessibile a tutti nelle generazioni, immodificabile, come l’aria, l’acqua, i paesaggi, la cultura.

 

Ugo Mattei, docente di Diritto Civile ed estensore dei quesiti referendari sull’acqua, pubblica il manifesto sui beni comuni e sostiene: “ I beni comuni, una volta alienati o distrutti non esistono più, e non sono riproducibili o facilmente recuperabili né per la generazione presente […], né per quella futura […]. Ecco perché la questione dei beni comuni non può non avere valenza costituzionale: è nelle Costituzioni, infatti, che i si-stemi politici collocano le scelte di lungo periodo sottratte al rischio di arbitrio del governo in carica”.

 

Che il potere nutritivo della cultura venga messo in discussione e revocato in dubbio non può stupire in un contesto contraddittorio come quello italiano. Da molti anni i fondi destinati alla cultura (dalla dotazione dei musei al Fondo Unico dello Spettacolo) subiscono un costante stillicidio che ne drena la dimensione aggravandone in misura crescente l’inadeguatezza strutturale e operativa; tagli privi di costrutto, accettazione passiva di non pochi sprechi e privilegi e al tempo stesso indifferenza disinvolta nei confronti di debolezze gestionali e fragilità finanziarie. Non è considerato un settore strategico di crescita, quindi si può ridurre.

 

Il 24 febbraio 2009, a commento dell’ennesimo intervento di riduzione del Fondo Unico dello Spettacolo, Alessandro Baricco lancia una pesante provocazione al mondo della cultura dalle colonne di Repubblica: “Basta fondi pubblici al teatro, meglio puntare su scuola e tv”. La catena di polemiche che si addensa su questo intervento mette chiaramente in luce che il sistema culturale manca di una politica chiara e lungimirante, di incentivi orientati strategicamente, nonché di capacità imprenditoriale: molti fondi vengono dispersi nel mantenimento di eventi o enti di limitata valenza culturale e di scarso impatto sul pubblico.

 

Baricco punta il dito anche sul sistema dell’istruzione, abbandonato a sé stesso, incapace di educare alle arti e alla cultura come approccio critico e creativo. Il richiamo alla televisione non viene per caso: negli ultimi vent’anni il nostro Paese ha subito una ‘mediatizzazione’ massiccia e impressionante in ogni settore. Il peso della televisione orienta l’opinione pubblica: è lì che si intercettano i pubblici. Quale spazio migliore allora per comunicare cultura?

 

La questione della cultura bene comune è cruciale e può offrire la prospettiva del valore delle risorse culturali dei prossimi anni. L’articolo 9 della Costituzione italiana, pur nella sua generica forza enunciativa, va interpretato attraverso i profili fondanti della società contemporanea e delle sue aspettative. Certamente, se la cultura viene ridotta a mera proprietà il rischio è che sia messa in vendita quando occorre fare cassa. E comunque le regole del gioco risultano del tutto obsolete, in quanto disegnate su un mondo chiaramente superato dai fatti e dalla loro evoluzione.

 

Mentre il governo della cultura continua a segnare il passo perdendo progressivamente il contatto con la realtà crolla la Casa dei Gladiatori a Pompei. Lo stato di conservazione e gestione del sito, affidato spesso a commissari di diretta nomina ministeriale, restituisce l’immagine della chiara incapacità di tutela del proprio patrimonio di fronte alla comunità internazionale. Salvatore Settis interviene con tutta la forza della propria competenza e sottolinea come il valore comune di questi beni e paesaggi sia sacrosanto e sancito dalla Costituzione. Gli fa eco il Presidente della Repubblica, denunciando la vergogna di tutta l’Italia.

 

Il Ministro Bondi subisce una mozione di sfiducia e rassegna le dimissioni nel marzo del 2011. Parallelamente e con costanza, grandi nomi dell’economia entrano sempre più nel dibattito a difesa della cultura in tempi di austerity, mossi da reale indignazione ma avanzando anche proposte concrete di azione, da valutare con attenzione per la loro opportuna competenza e che mettono in discussione i meccanismi della gestione pubblica ma anche la capacità, la competenza e l’affidabilità degli operatori.

 

Imprese
Più di un anno fa, dalle pagine del Giornale di Civita, Emma Marcegaglia dichiara programmaticamente che la cultura è fondamentale per la stabilità, l’economia di un Paese, oltre ad essere strategica per le aziende grazie al suo elevato tasso di creatività e innovazione, elementi fondamentali per superare la crisi. E prosegue affermando che i privati non possono esimersi da una sostanziale partecipazione attiva, anche per colmare il vuoto di sostegno da parte del sistema pubblico. Nello stesso numero, Civita pubblica anche i risultati della ricerca “Il Valore della Cultura” dove viene ritratta la situazione dell’impegno in termini di investimento di risorse nel settore su un campione di circa 1.500 aziende di piccole e grandi dimensioni, fra i 2.500 e 3.000 milioni di euro. Le aziende più attive sono quelle medio-grandi concentrate nel Nord Italia.

 

Alcuni recenti esempi sono il  progetto “Gallerie d’Italia” di Intesa San Paolo, con l’apertura della prima sede in Piazza della Scala a Milano, chiamata Museo dell’Ottocento, in diretto dialogo con il civico Museo del Novecento (con la banca Meryll Lynch come main partner); le iniziative culturali di UniCredit, che da circa due anni promuove mo-stre internazionali della sua collezione per l’Europa, così come lancia giovani artisti emergenti col programma UniCredit Studio nelle proprie agenzie; Diana Bracco, che ha promosso la riapertura della Galleria di Alessandro VII al Quirinale, realizza presso la sua giovane Fondazione una conferenza sul tema “La cultura fa bene alla salute”, citando studi scientifici che dimostrano come la frequentazione assidua e costante della cultura aiuti a fronteggiare momenti difficili, a guardare avanti senza dimenticare la storia e le tradizioni da cui veniamo; la sempre maggiore diffusione di Musei d’impresa che con la logica dello storytelling, ovvero del racconto della propria immagine aziendale, costruisce intorno al proprio brand contenuti e contenitori culturali offrendo i propri valori alla comunità.  

 

Le Aziende colgono la vitalità e il potenziale comunicativo della cultura per costruire una propria nuova immagine più vicina ai propri clienti, ma diventano anche sempre più opinion leader del settore culturale, auspicando una transizione dalla logica del fund rai-sing alla concretezza del project funding, pretendendo più protagonismo, a ragion veduta, condividendo know how, ma anche aggiungendosi all’offerta culturale come altri enti, quasi in competizione. Della cultura le aziende si nutrono. Fra l’altro, sembra ci sia una corsa al contemporaneo con una rete diffusissima di azioni di ibridazione fra mondi dell’arte, del design, della pubblicità: tutti vogliono il proprio progetto, che sia un premio, una residenza, una campagna pubblicitaria o un gadget firmati da un artista, che sia il pattern di un tessuto o l’impugnatura di una borsa. L’anno scorso ad esempio, sotto il periodo delle festività natalizie, Rinascente a Milano presentava il progetto Contemporary Christmas Art ospitando produzioni d’ artista per le sue vetrine su Piazza Duomo. Qualche mese dopo, uno fra gli artisti invitati attraversava la Piazza per proporre alcuni workshop con il pubblico del Museo del Novecento.

 

Poi accadono eventi spontanei dal basso, dal mondo stesso degli operatori culturali che si trovano di fronte a una situazione di precarietà assoluta ma non smettono di sostenere che con la cultura si mangia. Si tratta di ridisegnare il coagulo di diritti che dalla cultura scaturisce e che ne permetterebbe il consolidamento e la sostenibilità. Dal 14 giugno 2011 il Teatro Valle di Roma è occupato: a seguito dei tagli decisi dalla legge finanziaria l’ETI (ente teatrale italiano) è stato soppresso e sono stati abbandonati i teatri che esso gestiva. Tra questi rientra anche il Teatro Valle. Roma Capitale si offre di reggerlo in attesa di lanciare un bando pubblico per la sua gestione, ma i lavoratori temendo la sua privatizzazione non ci stanno e occupano il teatro.

 

Da quella data esso è diventato simbolo e luogo di scambio e confronto sullo stato dell’arte, una nuova agorà dove una ricca comunità di artisti, attori e drammaturghi quotidianamente lavora e anima un palinsesto alternativo offerto al pubblico per sensibilizzare su tematiche calde. La lotta si basa sulla definizione di cultura come bene comune, appunto, primario diritto della collettività che permette di uscire dalla trita logica dicotomica pubblico-privato, che oscilla tra i luoghi comuni del carattere burocratico, assi-stenziale e governativo del primo e della logica mercantile e del profitto del secondo. Il bene comune non ha alcun elemento di trascendenza, ma emerge dal momento in cui una collettività a cui era stato sottratto lotta per riaffermarlo. Dunque ha carattere eminentemente performativo e conflittuale.

 

Il Teatro Valle diventa in questo modo lo spazio materiale e simbolico in cui la cultura concepita e percepita come bene da condividere diventa la base dello Statuto di auto-governo della Fondazione Teatro Valle Bene Comune, redatto in forma di bozza dagli occupanti e proposto pubblicamente il 20 ottobre 2011. Il testo rimane a disposizione on line con uno speciale tool informatico, che sfruttando l’interazione web 2.0 permette a tutti di commentare e proporre delle modifiche, per costruire realmente un ente culturale compartecipato da tutti. La spiegazione è affidata a un video tutorial che rimanda direttamente a quelli promossi dal Ministero degli Interni prima delle elezioni. L’obiettivo del Teatro Valle Occupato è quello di formare alla drammaturgia intesa come racconto, per rispondere all’involuzione comunicativa che il nostro Paese ha subito negli ultimi 15 anni per una manipolazione sistematica dei media, con un forte desiderio di riappropriazione dei linguaggi. Si propone anche come luogo di formazione per tecnici di scena.

 

Dopo circa quattro mesi il sindaco di Roma Gianni Alemanno, in una lettera aperta pubblicata su Repubblica il 19 ottobre, riconosce nell’occupazione effettuata “un’azione condotta in un modo che rappresenta un esempio costruttivo di impegno per il bene pubblico” e propone una soluzione che garantisce che il Valle resterà pubblico e che sarà gestito da una fondazione con Roma Capitale come fondatore e con la partecipazione del MiBAC a cui potranno aderire altri soggetti pubblici e privati in base a procedura di evidenza pubblica. Sottolinea inoltre che il direttore del teatro verrà assunto tramite concorso pubblico e che i rappresentanti dell’occupazione potranno partecipare alla fondazione se si costituiranno in una forma che attribuisca loro personalità giuridica. L’atto di riconoscimento ha un che di miracoloso.

 

Il Teatro Valle vuole però continuare il suo percorso di sperimentazione gestionale ver-so la cosiddetta formula della Fondazione Pubblica, dunque declina l’invito del suo Sindaco e procede per la sua strada. E a questo proposito si avvale di due maestri del Diritto come Ugo Mattei e Stefano Rodotà. La direzione artistica è affidata a un turn over di registi, per coinvolgere e responsabilizzare tutti, ma ancora una volta mantenendo un’apertura alle proposte pubbliche con una pagina del sito dove si possono postare i “consigli degli artisti” con candidature e motivazioni. Costanti aggiornamenti sulla programmazione, con post di video e possibilità di accesso a un archivio in streaming, permettono anche a coloro che sono lontani di fruire dell’offerta del teatro.

 

Percorsi
Dal 22 luglio 2011 Milano risponde al movimento catalizzato intorno all’occupazione del Teatro Valle, lanciando un documento programmatico dal titolo “I lavoratori dell’arte”, firmato da una lunga lista di operatori, nel quale si denunciano a chiare lettere la mancanza di diritti in capo ai lavoratori della conoscenza, la precarietà ricorrente, l’insufficiente tutela della contrattualistica. Questo movimento segue un percorso di manifestazioni nate in occasione della giornata del 10 giugno 2009 chiamata Falso Oreste: un tentativo di turbolenza nella stasi del dibattito italiano sulla cultura, promosso dall’Associazione Artepubblica con il supporto dell’Ufficio Promozione Giovani Artisti di Bologna, nel quale si lancia un appello al Presidente Napolitano, citato prima.

 

Il tema della frequente contrapposizione tra diritti e doveri nel sistema culturale è al centro di discussioni e iniziative; spesso professionisti forti di percorsi formativi d’eccellenza sono costretti a ripiegare su lavori surrettizi o comunque su posizioni inadeguate. Tra incontri e dibattiti viene redatto il Manifesto per i Diritti dell’Arte Contemporanea nel quale confluiscono le visioni di giuristi e artisti. E’ una reazione in qualche misura progettuale, per quanto non ancora strategica, che punta alla coesione e alla solidarietà per rispondere in modo autonomo al rischio che uno Stato assente e un mercato invadente producano derive irreversibili.

 

Lo Stato deve tornare a essere legislatore e amministratore, più che produttore. I tagli sono dovuti, sia per compensare gli sprechi e tamponare la crisi sia per responsabilizzare e modernizzare gli enti, sia infine per tornare alla funzione pubblica di protettore del bene comune. Mattei sottolinea, nel suo manifesto, che qui sta la rivoluzione culturale: la presa di coscienza di ciò che è fondamentale e nel diritto di tutti con la dovuta creazione di normative in sua difesa, protetto dalla collettività sovrana rappresentata dallo Stato. E’ finito il tempo del demiurgo benevolo che si mostra sensibile nei confronti della cultura. Serve una strategia condivisa.

 

I tempi sono durissimi per tutto il Sistema Paese ma le aziende sono pronte sempre più al dialogo e sono aperte alle sinergie, purché ci sia coinvolgimento e crescita comune.  Le aziende cominciano ad agire da opinion leaders e da protagoniste del settore, con autoproduzioni che entrano in concorrenza con il bisogno di fondi che il settore richiede: non possiamo prescinderne e storcere il naso.

 

Sta nella responsabilità di uno Stato legiferare a difesa del bene comune e ai professionisti della cultura indirizzare le attività culturali perché costituiscano il patrimonio dell’intera comunità e ne sia libero e aperto l’accesso. Gli addetti ai lavori devono da una parte vedere riconosciuti i propri diritti, nell’ambito di strumenti contrattuali adeguati e dignitosi, dall’altra devono basare le proprie opzioni strategiche e operative sulle proprie competenze di networking, mobilità, flessibilità, capacità di creare community, accesso alle nuove piattaforme di comunicazione per fare sistema.

 

E’ in questo percorso che va inquadrata la presentazione dei più importanti collettivi artistici italiani nella cornice istituzionale di Artissima 18 che li ha ospitati in spazi di cultura underground nel quadrilatero di Torino. Sono best practices finalmente emerse dall’anonimato, lezioni esemplari che incoraggiano la compartecipazione creativa.