L’anno 2013 sta volgendo al termine e sull’ambito culturale nel nostro malandato paese si registrano segnali contraddittori e una discreta confusione, mentre altrove si lavora su ampi e assai impegnativi orizzonti e scenari.
Gli articoli proposti in questo numero, e di cui si dirà più avanti, suscitano infatti un’istintiva riflessione sugli strumenti di analisi di cui (non) si dota il nostro legislatore e, di contro, evocano allo spirito l’encomiabile impegno di ricerca e metodologico che un organismo internazionale come l’Unesco sta portando avanti in questo periodo sul tema della relazione tra cultura e sviluppo sostenibile.
La scadenza sulla quale l’Unesco sta lavorando, infatti, è quella della revisione/aggiornamento degli “obiettivi di sviluppo del millennio” (MDSGs), che avrà luogo nel corso del 2015 e in cui si sta cercando di inserirne uno in cui venga esplicitamente dichiarato il ruolo della cultura come elemento essenziale di sviluppo sostenibile. Si collocano in questo ambito l’incontro animato dal Direttore Generale dell’Unesco, Irina Bokov, il 12 giugno di quest’anno a New York, in una sessione preparatoria della 67ma Assemblea Generale dell’ONU, i lavori della Conferenza di Hangzhou, ai quali ha partecipato per l’Italia il compianto Walter Santagata, e l’ampio e molto interessante spazio che sul sito web dell’Unesco viene dato a studi, ricerche e organizzazioni che stanno elaborando metodologie di analisi e ricerche empiriche per la valutazione dell’impatto delle filiere culturali nelle dinamiche di sviluppo, identificandone le grandi potenzialità ai fini della sostenibilità dello sviluppo stesso.
Basta una veloce ricognizione su queste come su altre risorse web per rendersi conto della serietà e della profondità di quanto si sta affrontando e per dimensionare modestia e autoreferenzialità del dibattito prevalente nel nostro paese e delle misure che ne conseguono. Interessante e condivisibile è stato, in tal senso un recente intervento di Michele Trimarchi, che ha ricordato che non è questione di sapere se con la cultura si “mangi o meno”, ma di riflettere su come con la cultura si possa o meno “cucinare”, sempre che ci si voglia riferire a metafore gastronomiche.
Si è ben coscienti che gli elementi in gioco sono sempre più complessi e legati a variabili quali l’assetto e le competenze istituzionali e normative, le diversità di ambiti settoriali (patrimonio culturale, industrie culturali, spettacolo dal vivo, nuovi media, creatività, … ) ciascuno con proprie specificità e, d’altra parte, sempre più interconnessi. Ampie sono, inoltre le differenze socio-economiche tra le aree geografiche del paese, il peso delle interrelazioni con altre culture del mondo e di quelle degli immigrati, che costituiscono una realtà sempre più consistente, così come complesse sono le dinamiche della produzione, diffusione e consumo di cultura condizionate dal web. Gli elementi a cui si è appena accennato imporrebbero, quindi, l’elaborazione di una Strategia nazionale per la cultura e lo sviluppo sostenibile, di cui siamo ben lungi dal disporre. I nostri Governi, dal corto respiro e prospettiva, sempre in bilico per dinamiche mediamente di basso profilo (e, sicuramente, lontane dai reali interessi dei cittadini, questi ultimi sempre più disaffezionati alla prassi pseudo-democratica imposta da leggi elettorali usualmente definite “porcate” – sic! … ci si permetta di continuare a provare sincera vergogna!), non riescono a produrre atti normativi e regolamentari che possano definire una volta per tutte il quadro di riferimento in cui situare la cultura, di cui tutti, a parole, richiamano oggi il “valore” come strumento competitivo nazionale nel mercato globalizzato.
In tale temperie e in tale approccio definitorio si può situare anche il Decreto del Governo di quest’estate, recentemente convertito in legge (L.7 ottobre 2013, n.112, G.U. N, 236 dell’8.10.2013), ai più noto come “valore cultura”, con il quale, da un lato si è voluto dare un importante (e condivisibile) segnale di attenzione dell’Esecutivo per l’ambito culturale, dall’altro si è prodotto l’ennesimo “minestrone” legislativo, disorganico, disomogeneo, di non facile lettura e comprensione e, soprattutto, i cui esiti effettivi “sul campo” sono assai difficilmente valutabili (in alcuni casi, probabilmente, addirittura controproducenti). In attesa dei numerosi decreti ministeriali attuativi previsti e senza entrare nel merito dei tre Capi e dei sedici articoli (e innumerevoli commi e sotto-commi) in cui è suddiviso, si vuole qui richiamare l’attenzione sulla sensazione che quanto prodotto sia il frutto di scelte effettuate senza una doverosa analisi d’impatto e con il difetto di sempre di tamponare emergenze piuttosto che elaborare terapie risolutive. Si è stanchi di dover ricorrere alla consueta consolazione del “sempre meglio di niente”, perché a furia di “rammendi”, ora, il tessuto è comunque logoro. E da parte di chi ha speso una vita professionale nell’elaborare ricerche, studi, analisi, proiezioni sistemiche da sempre disattese nella produzione legislativa e regolamentare, salvo qualche caso isolato, la soglia di tolleranza verso leggi “tampone” si è, ormai, drasticamente abbassata.
Un paese come l’Italia avrebbe bisogno di un Osservatorio nazionale per la cultura e lo sviluppo sostenibile, in cui far confluire i dati prodotti dai molteplici soggetti che si interessano a materie di diretta competenza o a beni e servizi delle filiere collegate, in cui elaborare metodologie di analisi condivise e in cui produrre previsioni strategiche complessive e settoriali, da far valere in ambito nazionale e internazionale. È quest’ultimo, tra l’altro, un ulteriore dolente ambito in cui si trova a operare chi rappresenta l’Italia in istanze internazionali, dove paesi assai meno guarniti di noi in capacità creativa e substrato culturale riescono a produrre a far valere le loro posizioni, per il semplice fatto di essersi dotate di strutture di ricerca, amministrative e rappresentative capaci di “fare sistema”. Tra otto mesi, inoltre, l’Italia assumerà la Presidenza del Consiglio dell’Unione europea e si ha la sensazione che anche per tale importante appuntamento ci si troverà sprovvisti di proposte e strumenti di “sistema” sul fronte culturale e il tutto sarà giocato sulla buona volontà dei singoli che si troveranno coinvolti nell’esercizio e di parti isolate di amministrazioni pubbliche e istituzioni private, che eserciteranno l’arte, quella sì condivisa e trasversale, di arrangiarsi e di salvare situazioni altrimenti compromesse, con inventiva e genialità estemporanee.
In tale contesto, Tafter Journal, prova comunque a fornire il suo modesto ma costante contributo di idee, metodologie e strumenti di analisi sulla capacità del sistema culturale di produrre valore e sui modi più efficaci per renderlo efficiente. In questo numero si presenta un interessante e ben strutturato studio sulle forme gestionali dei teatri tedeschi (Marta Zieba) e un’indagine condotta sulle criticità delle start-up di imprese culturali in Italia (Maria Matilde Albanese). I due testi, assai diversi per approccio metodologico e ambiti analizzati, ci confortano nella convinzione che sia possibile studiare i fenomeni connessi all’economia della cultura con strumenti efficaci, ma anche che la consapevolezza del “valore della cultura” dovrebbe generare azioni di sistema (economiche-finanziarie-sociali), nazionali e territoriali che possono essere concepite solo in ben strutturati laboratorî di idee. I professionisti, le metodologie, gli strumenti e alcune basi di dati da utilizzare a questo fine ci sarebbero anche, qualora se ne sentisse un’esigenza “politica” indifferibile. Ma stiamo verosimilmente parlando di tempi e temperie ancora lontani rispetto agli attuali.
Prevedere e prevenire sarebbe il modo migliore per rispondere alle esigenze di un periodo in cui, secondo Nicholas Carr, “stiamo cominciando a vivere nel prima di ora e le cose succedono prima di succedere”. Il giornalista e scrittore statunitense parla della “realtà ambientale”, ragionando sugli sviluppi delle applicazioni pratiche delle nuove tecnologie, pubblicato nell’ultimo numero di Internazionale e nello stesso numero della rivista (1-7.11.2013, n.1024) leggiamo altri autorevoli interventi di corrispondenti stranieri che si rammaricano per lo spreco di bellezza e risorse che osservano nel nostro paese. Il Governo di Enrico Letta ha dato un segnale di attenzione importante, che conforta gli addetti ai lavori, ma da parte dell’animatore del laboratorio politico che si chiama”veDrò” ci si può aspettare anche un passo in più, nella direzione di cui si è detto. Sempre che sopravviva agli ultimi sussulti della temperie politica del “ventennio” appena trascorso, che piuttosto che occuparsi dello spettacolo ha fatto di quest’ultimo (e nella sua forma più deteriore e retriva, fatta essenzialmente di improvvisazione e dilettantismo) il suo modo di essere sulla scena nazionale e internazionale.