A che serve la cultura? La questione non è da poco, e se c’è un momento in cui è opportuno porla è proprio questo scomposto e bizzarro presente. Siamo cresciuti sotto il riparo di una cultura che – nella vulgata – fa del bene all’umanità, e adesso la ritroviamo claudicante, meticcia, contraddittoria. Ma non vale la pena spendere energie all’inseguimento dei laudatores temporis acti. Non c’è mai stata una società così tanto alfabetizzata come la nostra. Piuttosto, prendiamo atto che il ruolo della cultura cambia radicalmente, e che molti dei punti fermi del passato anche recente vanno quanto meno verificati, se non direttamente revocati in dubbio.
Il discorso si può affrontare da molteplici prospettive. Ma appare del tutto logico porne in evidenza gli estremi: da una parte la lirica con tutte le sue meravigliose zavorre; dall’altra il design e l’arte contemporanea, disinvolti e leggeri, talvolta inquietanti, certamente incisivi. I contributi di Marzia Ravenna e di Marina Parente, schierati su fronti apparentemente contrapposti, di fatto prendono in esame le due sfaccettature estreme della questione, suggerendone una versione meno brutale: che relazione può avere la cultura con la società nel suo complesso? in quali modi l’isolamento eburneo dell’arte può essere superato, magari attivando benefici per la comunità?
E’ intorno a questo snodo che si gioca la partita della cultura nei prossimi anni. La lirica, manifesto e simbolo dell’Ottocento bacchettone, affascina i pubblicitari – segno di una sua indiscussa efficacia – ma non riesce a sedurre il grande pubblico; l’arte contemporanea, complessa e controversa come si addice a ogni manifestazione del ‘qui e ora’, aspira un po’ troppo alla certificazione museale e rischia la deriva cerebrale. Entrambi i campi soffrono, di norma, di uno statuto caratterizzato da specialità ed estraneità, quanto meno nella percezione di una società che si consola del proprio smarrimento. Anche se poi ne ritrova i segni potenti tra le pieghe di mille occasioni quotidiane.
Atmosfere rituali e iniziatiche pervadono tanto i luoghi dell’opera quanto quelli dell’arte contemporanea; il design stesso, propaggine funzionale di quest’ultima, è visto ma non guardato, noto ai pochi e indifferente ai molti. L’urgenza culturale, percepita da schiere crescenti e talvolta insospettabili di individui e di gruppi, si manifesta attaverso canali inediti che consentono nuovi avvicinamenti e che finalmente mostrano di voler superare il solipsismo otto- e novecentesco. Tra vent’anni la cultura sarà interamente tornata sulla terra, ossia nella vita quotidiana di tutti noi; comprarla sarà quasi indifferente ma fruirne sarà fondamentale, crescerà la proporzione di quelli che la producono oltre a consumarla, e la regola sarà imbattersi in occasioni di esperienza culturale senza doversele andare a cercare con il lanternino.
Se immaginiamo per un istante la scena, comprendiamo come la questione della lirica sia ben più profonda e cronica di qualche problema di bilancio; non è con pietose iniezioni fnanziarie che si possa affrontare la sopravvivenza stessa delle fondazioni liriche, che andrebbero centrifugate sul piano istituzionale, su quello organizzativo e su quello produttivo, per poi accorgersi che esiste il mercato. Allo stesso modo, la presenza di segni contemporanei nel territorio rivela uno dei canali più efficaci di scambio culturale, e induce a riflettere sulle opportunità che l’intera comunità potrebbe trarre da una visione radicalmente nuova del territorio stesso, che diventa in prospettiva segno d’arte quotidiana.
Al fondo della questione, il concetto stesso di qualità. Che passa, finalmente, da gerarchia convenzionale delle eccellenze a capacità dialogica e cognitiva dell’offerta culturale. Richiedendo ragionevolezza, equilibrio e pertinenza linguistica. E rivolgendosi a noi contemporanei tenendo conto delle nostre percezioni capillari, del nostro modo ipertestuale di argomentare, della nostra versatilità giocosa. Così, finalmente, saremo traghettati dal mondo delle icone a quello della conoscenza.