Dal reset al franchising: ultime tendenze nel campo della creazione museale

Rinnovarsi o morire, un clichè che non è mai stato così attuale nel campo del management culturale come in questo momento. Per la prima volta il mondo delle arti dal vivo e delle arti visive, spinto dal crollo dei mercati, dai conseguenti e drastici tagli di bilancio della sponsorizzazione privata, e in più dalla disgregazione dei finanziamenti pubblici alla cultura, ha iniziato a pensare a se stesso in termini di evoluzione e di radicale riorganizzazione per poter sopravvivere. Un fenomeno particolarmente evidente nel caso della profonda trasformazione subita dai musei tradizionali e degli spazi dedicati alla cultura contemporanea che hanno sperimentato una profonda ristrutturazione concettuale.

1. Introduzione

Rinnovarsi o morire, un clichè che non è mai stato così attuale nel campo del management culturale come in questo momento. Per la prima volta il mondo delle arti dal vivo e delle arti visive, spinto dal crollo dei mercati, dai conseguenti e drastici tagli di bilancio della sponsorizzazione privata, e in più dalla disgregazione dei finanziamenti pubblici alla cultura, ha iniziato a pensare a se stesso in termini di evoluzione, oppure di radicale riorganizzazione per poter sopravvivere. Un fenomeno particolarmente evidente nel caso della profonda trasformazione subita dai musei tradizionali e degli spazi dedicati alla cultura contemporanea che hanno sperimentato, prima del “miracolo” Guggenheim, una profonda ristrutturazione concettuale, attraverso l’adozione di strategie architettoniche radicalmente innovative, l’uso di singolari canali di trasmissione, e la ricerca di sorprendenti formule programmatiche, e che hanno modellato, al contempo, dei comportamenti di consumo tra il pubblico del tutto senza precedenti. Nessuno poteva intravedere trent’anni fa la possibilità di visitare un museo online e di beneficiare di una rete museale virtuale, un Hub concettuale dove si assiste non solo alla semplice cooperazione tra musei, ma anche alla possibilità di relazionarsi direttamente con altri visitatori o perfino con gli stessi artisti, fino a influenzare i processi creativi e a partecipare, pur senza alcuna preparazione, ai complessi processi di ricerca e di macro-diffusione di una scuola estetica o di un progetto multidisciplinare, suscettibili di combinare all’infinito tutte le discipline artistiche con ogni altra disciplina cognitiva, dalla sociologia alla medicina, alla fisica quantistica, alla filosofia. Essendo gli esempi molto numerosi, questo articolo si propone di esaminare solo alcune delle formule adottate da tali rara avis – che a volte sono i musei -, quando decidono di sorprendere, cambiando pelle oppure riproducendosi.

Questi fenomeni di trasformazione sembrano in qualche modo ciclici. Le trasformazioni vissute oggi da questi spazi sono in linea con altri importanti cambiamenti sviluppatisi sull’onda delle fluttuazioni socio-economiche e socio-culturali del momento. E’ il caso, ad esempio, del grande boom dell’arte contemporanea iniziato dopo la Seconda Guerra Mondiale da parte dei venditori e delle gallerie d’arte newyorchesi, che hanno istigato la creazione quasi ex nihilo di un vasto mercato nel senso moderno e capitalista del termine, fondato sulla ricerca attiva di nuovi stili e artisti per alimentarsi, e non solo sulla comparsa casuale di nuovi talenti. È anche il caso del boom incredibile dei festival di musica e concerti dal vivo, che ha avuto inizio nei primi anni ’80 con il “ritorno” di competenze culturali in molti paesi occidentali, e che è stato spronato durante gli anni ‘90 dal crollo inarrestabile del settore fonografico. Oggi, al di là delle incertezze finanziarie che pendono sul settore e sui programmi culturali, nuovi fattori alimentano i cambiamenti sperimentati dagli spazi della cultura contemporanea. La digitalizzazione dei modelli di consumo culturale sembra essere la forza trainante di queste transizioni. Un fenomeno che rappresenta senza dubbio una radicale rivoluzione, ma a cui non bisogna attribuire più effetti del necessario, dimenticando di prendere in considerazione un altro fattore altrettanto importante, che affonda le sue radici in un movimento di molto anteriore all’era digitale: un profondo riorientamento educativo del modo di vivere una visita culturale. Una riforma che deriva certamente dall’emergere di nuove generazioni, influenzate dalla cultura digitale, ma soprattutto abituate a porsi in maniera differente rispetto ai loro antenati di fronte alla lettura di un’opera d’arte. Delle nuove generazioni anche molto più permeabili rispetto a prima, alle potenti strategie di marketing culturale elaborate dagli attuali programmatori culturali, sia privati che pubblici. L’atto di visitare un museo soffre oggi di una trasmutazione reale dall’ordine dell’individuo verso il sociale e, a volte, verso il puramente mondano. Questo è ciò di cui ci occuperemo prima di concentrare la nostra attenzione su alcune delle forme “esotiche” scelte in diversi paesi per la creazione di nuovi musei e spazi culturali. Due fenomeni che sembrano alimentarsi a vicenda e che ci conducono verso una domanda nuova e fondamentale: cosa vogliamo che sia realmente la visita a un museo?

2. La visita al museo: atto individuale, sociale o mondano?

Rivoluzione del mercato e rivoluzione educativa, due fattori di cambiamento sociale seguiti da parte degli stessi musei

Il godimento dell’offerta museale è entrato a far parte da oltre quarant’anni delle nostre più profonde abitudini culturali, seguendo un processo spesso tacciato di conformismo, passando da un atto prevalentemente individuale e volontario a un atto sempre più sociale e guidato dalle mode. Questo fenomeno è radicato nella comparsa dei saloni artistici e delle prime importanti mostre d’arte internazionali già nel secolo XIX, seguendo lo sviluppo della società industriale stessa. Ma la percezione dell’arte contemporanea che abbiamo oggi è principalmente il risultato della potente politica delle gallerie d’arte moderna degli anni cinquanta, a cominciare dalle gallerie newyorchesi. E’ questo il momento in cui cominciano a plasmarsi i modelli di consumo culturale che conosciamo oggi. Momento che coincide, in effetti, con il sorgere del fenomeno della creazione ex nihilo delle mode estetiche, con la conseguente volontà pro-attiva di trovare nuovi prodotti e nuovi artisti per rinnovare i fondi delle gallerie d’arte, e per trovare nuovi pubblici e nuovi mercati. La maggior parte dei collezionisti, in particolare quelli degli anni ‘80 arricchitisi grazie all’abbondanza dei mercati e desiderosi di rafforzare il loro nuovo status sociale attraverso delle collezioni nuove e ben consigliate – come anche i musei di nuova apertura – hanno seguito l’andamento imposto da queste gallerie, creando una dinamica – non senza polemiche – su ciò che è veramente arte e su ciò che non lo è.

Altro fattore di cambiamento radicale, che abbiamo già segnalato, è l’abbandono – forse affrettato e temerario – della visione marcatamente accademica dell’interpretazione di un’opera d’arte da parte dell’istruzione pubblica, a vantaggio di un approccio più libero, basato sul rapporto diretto tra l’individuo e l’opera d’arte, al fine di “sentirsi” più vicini al processo creativo. Questa nuova visione dell’educazione artistica, nata a seguito della rivoluzione socio-culturale della fine degli anni ’60, vissuta in molti paesi occidentali, ha determinato il modo in cui i giovani d’oggi affrontano l’arte, facendo volentieri a meno dell’incentivo che prima era fornito da una conoscenza più approfondita dei canoni artistici ed estetici, ambito dell’oggetto d’arte studiato.

Partecipando a questa doppia rivoluzione, in lotta per guadagnare da un lato l’interesse dei cittadini basato principalmente sui sensi, dove prima c’era anche un maggiore interesse accademico, e contribuendo dall’altro a confondere i confini tra l’arte e la vita stessa degli artisti, gli spazi d’arte contemporanea hanno anche sperimentato una rivoluzione concettuale e architettonica, che ci fa sperimentare il godimento dell’arte contemporanea molto più al di là delle tradizionali linee guida stabilite dai musei di ieri, con i loro obiettivi iniziali di conservazione e formazione.

Fin dall’inizio degli anni ’80, i grandi musei hanno lavorato duramente per offrirci delle esperienze sempre nuove, delle mostre ampiamente pubblicizzate capaci di richiamare con successo la nostra curiosità, e di offrire alla nostra vista degli imballaggi architettonici sempre più spettacolari. Come risultato, sentiamo oggi come un must quello di visitare l’ultima esposizione, siamo affascinati dai recenti spazi architettonici in cui tali mostre si sviluppano e desideriamo viaggiare semplicemente per essere partecipi del glamour che viene rilasciato dal MOMA, dal Louvre di “Pei”, o dal Guggenheim, e per poterci vantare con gli amici della nostra visita una volta tornati a casa. Visitare un museo non è più come leggere un libro, un’esperienza che poteva essere felicemente solitaria e semplicemente epicurea. Molto tempo fa, la maggior parte delle persone preferiva il semplice godimento personale fornito dal passeggio in sale non affollate di gente ma riempite solo di opere d’arte, gestite da enti interessati più all’educazione e alla conservazione, e meno al marketing. Il visitatore d’oggi, modellato da energiche strategie d’immagine, è entrato in una pratica sociale quasi obbligata, un “atteggiamento” in cui prevale il desiderio di non essere lasciato indietro, e di essere al passo con i tempi dell’arte e del design.

Come risultato di questo attaccamento collettivo, è sorta una vera cava di hobbies sociali molto sensibili alle tendenze museali più spettacolari, motori di un circolo apparentemente virtuoso di creazione di nuovi spazi, alimentati dal desiderio di vivere a livello locale quanto sperimentato su scala globale, in prima persona o attraverso gli occhi degli altri. Sfruttando questo instabile filone, ogni amministrazione pubblica fa tutto il possibile per riuscire a possedere uno di questi luoghi mitici, capaci di generare molteplici benefici in termini di ristrutturazione del tessuto urbano, di integrazione sociale, di immagine del luogo “in cui devi essere”, di marketing turistico.

Inserire un museo nel piano di ristrutturazione urbana, seguendo l’archi-famoso esempio di Bilbao, è oggi non solo il must dei piani culturali delle grandi città, ma semplicemente l’elemento fondamentale senza il quale tutta la vicenda sembra destinata al fallimento. È il caso, per esempio, della futura “Isola delle arti” prevista a Parigi nell’Isola Seguin, destinata a prendere il posto dell’ex fabbrica Renault, sotto la direzione – ovviamente – di Jean Nouvel. Nel caso dell’Isola Seguin, o anche del nuovo Museo nazionale delle arti del XXI secolo di Roma (MAXXI, 2009), progettato dall’archistar Zaha Hadid, si tratta di includere degli spazi d’arte all’interno del tessuto urbano. Ma un altro effetto si ottiene quando un piano di sviluppo mira ad “importare” un museo esistente altrove e a raccogliere i frutti della sua “aura” mediatica. Parliamo delle già numerose antenne della Fondazione Solomon R. Guggenheim, ma anche del progetto di sviluppo dell’isola Saadiyat ad Abu Dhabi, su cui torneremo in seguito. Rischiosa scommessa, questo progetto di creazione di un enorme complesso museale in mezzo al nulla, il cui futuro successo è basato sul possibile snobismo di potenziali turisti extra-lusso, sembra essere il risultato del processo di evoluzione descritto prima, attraverso tre stadi più o meno chiari. Visitare un museo è passato dall’essere un atto di godimento individuale, guidato dalla presenza tangibile di una cultura locale e dall’interesse educativo acquisito durante il periodo scolastico, ad un atto sociale collettivo guidato dalle mode urbane ed estetiche, fino a diventare un atto mondano guidato da semplici evocazioni museali, dove il potere dei soldi esige delle esperienze ogni volta più esclusive (vacanze sull’isola di Saadiyat, creata dal nulla, e visita ai suoi Louvre / British Museum / Museo del Mar / Guggenheim, anch’essi creati dal nulla).

Forse si tratta del culmine dell’evoluzione? Oppure di un’inflessione dopo la quale sarà difficile seguire la tendenza del gigantismo? O più che il culmine, possiamo sperare che sia il fondo che ci permetterà finalmente di risollevarci per tornare a dare la giusta attenzione ad un’autentica educazione artistica e culturale? Questa materia così determinante nel creare pubblici colti e critici, una materia che ha suscitato uno scarso interesse a partire dalla fine degli anni ’60, a causa delle misure a lungo termine di cui necessita e del basso rendimento politico conseguente, si allontana dall’ostentazione perseguita attraverso le improvvise realizzazioni di nuovi musei, o i vistosi ampliamenti di quelli più antichi. Sono proprio queste formule di rivisitazione che esamineremo adesso.

3. Il museo 2.0.: estensione e reset

Decentramento, moltiplicazione, starification

Con il decentramento amministrativo vissuto da molti paesi occidentali all’inizio degli anni ’80, assistiamo ad una proliferazione museale a livello locale. Ogni amministrazione regionale, esistente o di nuova creazione, recentemente fornita di competenze culturali, fa della cultura una vetrina per stabilire la sua immagine e la sua identità, con l’aiuto di musei più moderni, più adatti ai tempi e ai gusti, e di programmazioni più dinamiche e interdisciplinari. Un fenomeno amplificato dalla volontà di rivitalizzare grandi spazi urbani deteriorati, colpiti dagli ultimi effetti della crisi del petrolio e dal crollo dei grandi settori industriali, avvenuti nei paesi occidentali durante gli anni settanta.

Il caso francese è emblematico: qui, dopo le leggi sul decentramento del 1982-83, sono sorti numerosi musei d’arte contemporanea. La Francia possiede oggi 85 musei o centri dedicati, in maniera esclusiva o parziale, all’arte contemporanea, dai primi come quelli di Bordeaux o Lione, fino al recente Centre Pompidou a Metz (2010). Tra il 1981 e il 1983, ogni regione, inoltre, ha istituito un Fondo Regionale per l’Arte Contemporanea (FRAC) – 22 in totale-, per promuovere l’arte contemporanea, contribuendo a formare un immenso patrimonio legato a questo tipo di espressione artistica all’interno di ogni singola regione.

Il tema della riconversione del tessuto urbano, seguendo l’esempio di Bilbao, è visibile anche oggi in Francia. E’ il caso dell’Isola Seguin, per 80 anni sede della famosa fabbrica Renault, divenuta ora un enorme spazio vuoto di 74 ettari sulle rive della Senna, alle porte di Parigi. Oggetto per molti anni di una inverosimile lista di progetti (tra cui la proposta di François Pinault di istituirci la sede della sua collezione, accompagnata da 7 anni di lotta con l’amministrazione, prima di decidere di spostarla a Venezia), il master plan generale è stato infine assegnato a Jean Nouvel nel 2009. Il progetto combina un complesso culturale ultra-moderno, con degli spazi per l’arte contemporanea, la musica, il cinema. Obiettivo: fare di questo spazio, entro il 2014, “l’isola delle arti” ed eventualmente estendere questo processo di riconversione a tutta una vasta area lungo i margini della Senna, e fare del complesso una “Valle delle arti”.
Qualcosa di simile accadrà a Marsiglia con il MUCEM, il futuro Museo delle Civiltà d’Europa e del Mediterraneo previsto per il 2012, che pretende con un’enorme “casbah verticale” (nelle parole del suo architetto, Rudy Ricciotti), di rivitalizzare il lungomare della città, e di farla diventare come Barcellona o Genova, un “incrocio del Mediterraneo”.

In Spagna, questa tendenza segue la formazione delle Comunità Autonome (Regione), dopo l’impulso fondamentale dato della creazione di ARCO nel 1982. Inizialmente creata per incoraggiare le collezioni private in Spagna, questa fiera è stata velocemente consacrata come una grande mostra internazionale d’arte contemporanea e un grande fenomeno per il pubblico non acquirente. Soprattutto, ha esercitato una profonda influenza sui giovani amministratori culturali delle Comunità Autonome, accelerando fortemente il processo di creazione di nuovi spazi per l’arte contemporanea. Dopo alcune iniziative locali (Fondazione Mirò di Barcellona, 1975, Museo d’arte astratta di Cuenca, 1980), assistiamo a un susseguirsi vertiginoso di nuovi centri: Reina Sofía (Madrid, 1988), Centre d’Art Santa Monica (Barcellona, 1988), IVAM (Valencia, 1989), CGAC (Santiago de Compostela, 1989), CCCB (Barcellona, 1994), MACBA (Barcellona, 1995), Guggenheim (Bilbao, 1997), Centro Andaluz de Arte Contemporáneo (Siviglia, 1997), ARTIUM (Vitoria, 2002), MARCO (Vigo, 2002), MUSAC (León, 2005) o il TEA (Tenerife, 2007).

Questi spazi evidenziano, ciascuno con più o meno grazia, l’importanza di conseguire alcuni simboli architettonici, dopo gli incredibili risultati di alcuni musei che sono stati fondamentali per l’evoluzione dell’arte contemporanea, a causa del loro aspetto esteriore rivoluzionario o della loro vocazione interdisciplinare. È soprattutto il caso del Centre Pompidou che nel 1977 trasfigurò letteralmente il profilo urbano di un intero quartiere di Parigi. Poi il Guggenheim di Bilbao nel 1997, con le conseguenze ben note sul tessuto urbano di Bilbao, l’immagine dei Paesi Baschi e la reputazione della Spagna nel mondo. E poi la Tate Modern nel 2000, diventata subito un’icona dell’arte contemporanea in Gran Bretagna, trasformando magicamente una zona decadente di Londra nell’epicentro delle avanguardie artistiche. Diretta conseguenza, il fenomeno dei grandi architetti (gli starchitects) è più che mai presente. Vale la pena di visitare almeno una volta i siti web dei grandi studi d’architettura, per vedere l’enorme quantità di centri d’arte che tutti hanno realizzato o programmato di realizzare. Solo nel caso di Jean Nouvel, ci turbano non solo i progetti (Louvre, 2012 ad Abu Dhabi; Isola Seguin, 2014), ma anche le realizzazioni (Institut du Monde Arabe, 1987; Musée Gallo Romain de Périgueux, 1993; Fondation Cartier, 1994; Musée de la Publicité, 1998; Estensione del Reina Sofia, 1999; Musée du Quai Branly, 1999; Centro di Cultura e Congressi di Lucerna in Svizzera, 2000; Musée Cité Nature d’Aras; 2002; Museo Leeum a Seoul; 2002 , etc.). Stessa cosa per Norman Foster (ampliamento del Museum of Fine Arts, Boston 2009; Lenbachhaus, Monaco di Baviera, 2012; New Holland Island, St Petersburg, 2010), o Zaha Hadid, Frank Gehry, Dominique Perault, Herzog e de Meuron, Richard Rogers, ecc.

Accrescimento del settore privato

Con la crescita inarrestabile del mercato dell’arte contemporanea, abbiamo assistito alla nascita di grandi collezioni private, per mano di collezionisti privati o banche d’investimento, secondo la tradizione anglosassone del non-intervento negli affari culturali e di re-investimento delle plusvalenze in opere d’arte. Approfittando di un mercato in forte espansione, queste grandi collezioni private fanno la loro comparsa negli anni ’80 e ’90, contribuendo alla crescita smisurata del mercato dell’arte contemporanea, e rendendo difficile gli acquisti da parte dei musei pubblici. Un fenomeno che ha toccato il vecchio continente molto tempo fa, con la creazione di potenti fondazioni, sia nel settore bancario che industriale, e la costruzione di spazi spettacolari per il godimento pubblico.

Nel settore bancario, il caso della Spagna è significativo, con quasi tutte le casse di risparmio proprietarie di un centro culturale (il Caixa Forum della Caixa; la Casa Encendida di Caja Madrid, etc.) Nel settore industriale è sufficiente citare il Museo Punta della Dogana promosso da François Pinault, la Fondation Cartier, o la Fondation Louis Vuitton attualmente in costruzione – enorme nuvola di vetro progettata da Frank Gehry nel Bois de Boulogne a Parigi – per il settore del lusso. O la Fondazione Vila Casas in Catalogna, per l’industria farmaceutica, o la Fondazione Würth a Logroño (metallurgia). Per quanto riguardo il collezionismo privato, le fondazioni poi sono quasi infinite (Museo Brandhorst di Monaco di Baviera; Fondazione Godia o Fondazione Suñol a Barcellona, etc.)

Tali fondazioni private riprendono la filosofia e l’immagine dei musei pubblici, e anche fisicamente cercano di collocarsi al loro fianco, per beneficiare dell’aura sprigionata dai loro fratelli maggiori (Caixa Forum di Madrid e Barcellona, Museo Brandhorst, Fondation Cartier, Punta della Dogana…). Le fondazioni, inoltre, sono altamente rispettate come attori privilegiati della vita culturale anche a livello istituzionale, come dimostra la Fondation Cartier pour l’Art Contemporain, incaricata di preparare la legge francese sul patronato nel 1986.

La proliferazione di nuovi musei e la vitalità del settore privato, insieme ad altri fattori, impongono alle istituzioni più antiche una revisione dei loro modelli di gestione e delle loro strutture architettoniche, per crescere in volume e adeguare la loro programmazione. L’ampliamento dei vecchi musei è una modalità particolarmente utilizzata nel caso dei musei d’arte contemporanea. Oltre alla pura necessità dettata dall’inflazione volumetrica, il lifting architettonico tende letteralmente a fare un reset dell’immagine del museo, per provocare un update del suo profilo estetico e concettuale. L’operazione presumibilmente darà un’aura di assoluta modernità indispensabile per provocare uno scontro di valori estetici volto a stimolare la mente e disturbare lo spettatore, a spingerlo nella polemica dell’arte contemporanea, a scandalizzarlo anche, e a indurre la creatività, incoraggiando l’arte.

Gli esempi di tali ampliamenti sono molteplici, e seguono strategie diverse che vanno dal rispetto verso l’edificio originale, fino a tattiche d’approccio – come se si trattasse di una lotta tra due animali -, che possono concludersi con l’accoppiamento, la totale depredazione, o la riproduzione con la conseguente espulsione verso altri territori . Vediamo alcuni casi.

– Rispetto delle posizioni: estensione della costruzione originale (National Gallery di Washington, Pei, 1978; El Prado, Moneo, 2007; progetto di ampliamento della Tate Modern, Herzog e de Meuron, 2012).

– L’estensione che è posizionata tra le braccia dell’altro (Piramide del Louvre, Pei, 1989), anche se l’intera estensione si sviluppa per lo più al di sotto.

– L’espansione che ruota elegantemente intorno alla costruzione madre (Nelson-Atkins Museum, Kansas City, Steven Holl, 2007).

– L’espansione che continua il vecchio edificio (Reina Sofía, Nouvel, 2005, Thyssen, 2004), o che si poggia su di esso (cupola del British Museum, Forster, 2000; tetto nuovo dell’Opéra de Lyon, Nouvel, 1993).

– L’estensione che si trova in cima, come un cacciatore sull’animale vinto (Pinacoteca Giovanni e Marella Agnelli, Torino, Renzo Piano, 2002).

– L’espansione che divora letteralmente il vecchio edificio (Caixa Forum di Madrid, Herzog et De Meuron, 2008). Specialista in questa tattica è senza dubbio Daniel Libeskind con il Museo di storia militare di Dresda (in costruzione), il Museo Ebraico di Berlino (2001), il Contemporary Jewish Museum (2008) di San Francisco, e soprattutto il Royal Ontario Museum di Toronto (2007), la cui vista aerea evoca l’immagine di un edificio che divora l’altro, come se fosse un cancro.

– Il fenomeno della digestione totale come il nuovo IVAM (2011) a Valencia, per Sanaa, con una pelle che copre tutto, come il serpente del Piccolo Principe .

– Fino all’ultimo grido, quando si tratta di usare il vecchio per estendere l’ultra-moderno (New Museum, New York, 2008, che ha acquistato posteriormente il vecchio edificio adiacente al proprio stabilimento ultramoderno).

Per non parlare del nuovo concetto di riproduzione in altre aree, che esamineremo alla fine.

4. Il franchising museale, una sfida insostenibile?

Il fenomeno dell'”esportazione” di un successo culturale non è nuovo, e avviene in particolare nel caso dei festival musicali di grandi dimensioni, che spesso organizzano delle manifestazioni simili altrove (Sonar di Barcellona ora a Chicago, in Giappone, In Brasile, etc. Il Festival di Benicassim a Madrid, Rock in Rio, Womad, etc.)

Il fenomeno è però particolarmente interessante nel caso dei musei, in quanto ricreare un festival musicale in un altro luogo non è tutto sommato molto complesso, poiché si tratta di riproporre un format di concerti abbastanza classico. Per i musei, la sfida è molto più complessa: né il design né i contenuti possono essere riprodotti come nel caso dei festival. Ricreare un museo, con tutto quello che comporta per quanto riguarda le caratteristiche locali in termini di storia e di costituzione delle collezioni, significa trasportare in un altro luogo uno smisurato corpus d’identità, di estetica, e di storia, con l’obiettivo di sfruttare tutta la forza concettuale che emana dall’edificio stesso, in qualità di contenitore unico. Detto altrimenti si tratta di utilizzare la forza evocativa delle sue collezioni, che in ogni caso non possono essere trasportate, una forza evocativa tuttavia necessaria per identificare il nuovo “prodotto” e pretendere che l’ipotetico futuro pubblico si senta abbastanza motivato a visitare il nuovo museo. Ricreare un Louvre o un Pompidou, equivale ad aspettarsi che delle persone, magari completamente estranee a delle radici culturali molto specifiche, si sentano sufficientemente attratte dalla magia sprigionata dalla “casa madre”, per prendere seriamente in considerazione la visita alle sue “figlie”. E si cerca di farlo senza ricreare esattamente lo stesso museo, perché sarebbe assolutamente impossibile, e assurdo, ricreare un edificio identico all’originale.

Inoltre, al di là della semplice novità che può rappresentare l’apertura di un nuovo museo, dobbiamo considerare che ciò che verrà offerto sarà con molta probabilità totalmente estraneo al substrato socio-culturale in cui la nuova istituzione si stabilirà. Sappiamo che cosa può evocare il Louvre o il British Museum in un parigino o in un londinese, in quanto fanno parte del loro bagaglio emozionale e della loro mappa urbano-affettiva. Ma che cosa possono evocare quegli stessi edifici in un cittadino di Abu Dhabi?

Pertanto, queste “riproduzioni museali” si trovano di fronte a molteplici sfide: trasmettere la magia della costruzione originale, senza essere in grado di ricreare l’originale; trasmettere la magia delle collezioni originali, senza poterle trasportare in tutto o in parte; catturare l’attenzione di pubblici molto diversi, e forse molto lontani dalla cultura d’origine del museo; avviare, dove possibile, la nuova attività in una zona scarsamente popolata (antiche aree industriali in via di riconversione, o perfino deserto totale) con l’obiettivo diretto di attirare un maggior numero di visitatori; e forse la più pericolosa, non cadere in una moda stupida, che equivale, per tutti i principali musei ad avere dei cloni ovunque incapaci di suscitare interesse nel pubblico. Ossia, dei musei con gli stessi nomi, ma senza nessuna significazione concettuale particolare, dopo che la “magia” derivata dalla novità del fenomeno è completamente sfumata.

Il fenomeno è cominciato con la politica della Fondazione Solomon R. Guggenheim, che dopo New York, ha costruito nuovi musei a Venezia, Berlino, Bilbao, e ne costruirà presto degli altri a Bucarest, Abu Dhabi e Vilnius, per proiettarsi di nuovo ad Urdaibai, nei Paesi Baschi. Ma il progetto attuale più imponente è certamente il piano di sviluppo dell’Isola di Saadiyat, ad Abu Dhabi. A differenza di Bilbao e Parigi, qui non si tratta del recupero di uno spazio urbano degradato o post-industriale. Lì non c’era quasi nulla, solo sabbia, e oggi quello stesso spazio corrisponde al progetto di sviluppo museale più grande del mondo. I 4 musei previsti sull’isola pretendono di essere il motore d’attrazione di un turismo d’ultra lusso, sorto dal nulla. I nomi delle istituzioni, e dei loro costruttori, parlano da soli: il Louvre di Jean Nouvel, il Guggenheim di Frank Gehry, il Museo Marittimo di Tadao Ando e il British Museum di Norman Foster, per non parlare del gigantesco Centro delle Arti dal Vivo di Zaha Hadid. Il piano di sviluppo dell’isola è impressionante, traboccante di immagini idilliache , che ci fanno riflettere soprattutto sull’essenza stessa del museo. Dal luogo tradizionale della memoria di una cultura o di una popolazione pre-esistente, il museo rischia oggi di essere considerato come una semplice marca, uno spazio di puro consumo creato ex nihilo, senza il substrato socioculturale di una popolazione, né passata, né presente, né futura, poiché il pubblico sarà teoricamente composto di un turismo d’elite, di passaggio per quella zona.

E davvero questo il must in materia di musei? Passata l’illusione estetica causata dai rendering e dalle ambiziose dichiarazioni d’intenti, non possiamo non rimanere perplessi di fronte agli effetti che queste proposte, apparentemente riservate a pochi eletti situati ai confini del deserto, potrebbero avere sulle istituzioni europee e, ancora, sulla modalità di fruizione di un museo da parte del pubblico.

5. Conclusione: un tandem fondamentale, arte immediata e didattica dell’arte

Di fronte a quest’iniziativa così lontana non solo dalla nostra concezione tradizionale dei musei, ma anche da tutte le proposte più audaci realizzate in Europa o Nord America, una domanda s’impone quasi da sola: cosa vogliamo che sia veramente una visita a un museo, ed in particolare a un museo d’arte contemporanea? Due idee emergono dalle considerazioni di cui sopra.

Da un lato, non bisogna disprezzare i musei più innovativi che cercano di concentrarsi, con audacia e ragione, sul concetto di arte immediata, seguendo gli antichi passi del Centre Pompidou, che era stato rivoluzionario per il suo tempo per quanto riguarda i sui obiettivi. Ossia, non essere solo un museo, ma anche un vasto complesso culturale che comprende le arti visive, la video arte, il teatro, il cinema o la musica sperimentale. Una vocazione multidisciplinare che appare oggi come classica, anche se estremamente moderna nel 1977. La preoccupazione di catturare gli impulsi più attuali dell’arte è divenuta oggi l’obiettivo di molti musei d’arte contemporanea, come il MUSAC, la cui mission ricca di modernità (“Il MUSAC sta lavorando esclusivamente nella zona temporanea del presente, segnato dalla più vicina memoria” ) ci ricorda il New Museum di New York, creato da Marcia Tucker nel 1977. La filosofia di quest’ultima è sempre stata quella di rispecchiare le palpitazioni artistiche più radicali e ribelli, armata di uno slogan che da solo diceva tutto: “Dobbiamo agire prima e poi pensare. Così si ha motivo di pensare“. Anche se non è stata in grado di conoscere l’esito della recente ristrutturazione (è morta nel 2006 poco prima dell’inaugurazione della sede del Museo in Bowery Street), il risultato – dei grandi volumi bianchi sovrapposti come se fossero delle scatole di cartone pronte per essere spacchettate – rispecchia perfettamente quest’idea di voler catturare, con sincerità, l’ultimo grido che esce dal suo imballaggio. Queste ultime due proposte, che fuggono dal gigantismo, suscitano senza dubbio la nostra ammirazione, a causa dell’approccio educativo e della qualità della programmazione espositiva, che si dovrebbero sempre tenere a mente quando si progetta un nuovo museo d’arte contemporanea, non solo in termini di spettacolarità dell’aspetto esteriore, ma anche di ragionamento della sua proposta programmatica.

Dall’altro – e seguendo quest’aspirazione pedagogica – la volontà di rispecchiare la cultura più attuale non può che farci affermare con ancora più forza la necessità di una chiara volontà da parte delle politiche pubbliche volta a migliorare l’educazione artistica e culturale dei giovani. La comprensione della natura meravigliosa della creazione contemporanea, missione semplice eppure così essenziale, non può essere separata da una educazione generale impregnata di cultura, da un’istruzione che non considera l’arte come una questione secondaria che si da “in più”, ma come il motore stesso di tutte le altre materie scolastiche. Questa esigenza, richiesta ad alta voce da una larga maggioranza di pedagoghi in tutti i paesi occidentali, rappresenta una drammatica mancanza nel curriculum scolastico di quasi tutti gli studenti di questi paesi, seppur con notevoli eccezioni, come nel caso dei Paesi Bassi. Negli altri paesi, anche se in teoria si comprende che l’istruzione e le pratiche artistiche dovrebbero servire come base per l’apprendimento da parte dei bambini di tutte le altre materie, nella pratica si trovano soltanto dei piani scolastici frammentati, che relegano queste pratiche a dei concetti meramente incidentali, senza mezzi, in ritardo, e senza continuità né logica. L’assenza di un dibattito molto più pro-attivo in tal senso è, a nostro parere, la sfida più grande che le politiche culturali devono affrontare oggi, in un contesto dominato dalle nuove pratiche culturali nate durante l’era digitale, che rischiano di lasciare sempre più indietro gli insegnanti per quanto riguarda le modalità di consumo culturale dei giovani. Recuperando la metafora utilizzata da una brillante collega (Angela Spizig, vice-sindaco di Colonia), la cultura in materia d’istruzione non può essere solo la ciliegina sulla torta scolastica, ma deve essere il lievito stesso, che deve far crescere tutto, e con armonia. Per questa ragione rivendichiamo una formazione artistica sistematizzata, guidata con perspicacia dai responsabili pubblici, senza lasciarsi accecare dalle formule a breve termine e dall’illusione generata dall’installazione di “un computer per ogni studente presente in aula”. Rivendichiamo degli educatori che siano in grado di anteporre la lunghezza dell’apprendimento artistico e culturale alla semplice manipolazione degli artefatti digitali – con i rischi ben conosciuti sulla dispersione d’attenzione e di memoria – e che siano capaci di aprire, senza ricorre obbligatoriamente ad uno schermo, gli occhi delle generazioni più giovani. Le quali, più che mai, dovranno proteggersi dagli eccessi del consumo con più pratiche artistiche, imparando a giudicare da soli ciò che nascondono gli imballaggi museali più esotici, o gli Hubs cibernetici, ultime – e complesse – tendenze nella creazione di musei virtuali.

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