Dalla parte di Jean Vilar: il Festival di Avignone e il mito fondativo del “teatro popolare”

L’evoluzione di una tradizione teatrale che poggia le basi nelle idee della rivoluzione francese; la genesi avventurosa di una poetica innovativa diventata “mito fondativo” e espressione di una politica culturale; il manifestarsi di una tradizione teatrale e il radicarsi di una poetica nella cultura organizzativa di una istituzione: le vicende del Festival di Avignone sono tutto questo, collegate indissolubilmente al nome del fondatore, Jean Vilar, e inestricabilmente connesse con una espressione, “teatro popolare”, che costituisce il senso di una esperienza collettiva solo parzialmente compiuta ma con pochi precedenti nella storia dei processi di produzione culturale moderni.

Introduzione

«In definitiva, il miglior riconoscimento per Avignone è quello di avere aiutato, con l’esempio e la pratica, attraverso la perseveranza e, per dio, attraverso la creazione, a trasformare la nozione stessa di spettacolo, facendo in modo di agevolare la nascita e quindi l’espansione disinteressata, a gettare le basi stesse, di una cultura al servizio di tutti o, almeno, a disposizione di tutti. Forse – e non si dovrebbe temere di chiederselo – forse la creazione di una autentica cultura popolare costituisce una illusione romantica. Essa è mai esistita? Questo teatro comunitario che tutti o quasi tutti sogniamo, intendo dire questo teatro non a tutti i costi rivoluzionario o impulsivo, ma che naviga con sicurezza controcorrente rispetto alle abitudini, alle tradizioni comode ed ecumeniche, alle politiche correttamente fissate, ai diritti acquisiti, il teatro per il popolo, per il popolare, per il lavoratore delle città così come per quello delle periferie più isolate, questo teatro non è altro che una utopia necessaria? Non è che un ideale? Come l’uguaglianza? O la libertà? Nonostante questa visione apparentemente pessimista della nostra impresa noi non ci siamo mai arresi nel nostro agire di sempre. Noi continuiamo e continueremo».
(Conferenza stampa di Jean Vilar, marzo 1969 tratto da Le Théâtre, service public).

I processi organizzativi di una saga teatrale con pochi procedenti nella storia dei processi di produzione culturali moderni gravitano attorno ad uno spazio urbano alquanto ristretto della città di Avignone: la Corte d’onore del Palazzo dei Papi; la piazza antistante; la vicina piazza dell’Orologio. Tre stradine collegano le due piazze: rue Jean Vilar (1912-1971); rue Gérard Philipe (1922-1959); rue de Mons. Imboccando quest’ultima, si incrocia l’Hôtel de Crochans, storica sede di una associazione culturale: la Maison Jean Vilar (MJV).
Jean Vilar fu il fondatore del Festival di Avignone (FdA) e direttore dal 1947 al 1971; e tra il 1951 e il 1963 fu contemporaneamente responsabile del Théâtre National Populaire (TNP), centro d’arte drammatica con sede all’epoca presso il Palazzo di Chaillot del Trocadéro, a Parigi. Gérard Philipe, anche lui prematuramente scomparso, fu l’attore emblema di quella estetica del “teatro popolare” la cui missione, ad Avignone coma a Parigi o nelle memorabili tournée internazionali del TNP, lo stesso Vilar descrive nella citazione precedente. La MJV costituisce, infine, qualcosa di più di un centro di documentazione: dal 1979 rappresenta “un luogo della memoria”, come lo definì il suo stesso artefice principale, Paul Puaux, braccio destro e successore di Jean Vilar tra il 1972 e il 1979.
Solo due altri direttori si succedettero prima dell’attuale fase, a testimoniare la continuità gestionale che caratterizza questa istituzione culturale: Bernard Faivre d’Arcier (1980-1984 e 1993-2003) e Alain Crombecque, recentemente scomparso (1985-1992). Dal 2004 i direttori responsabili sono Hortence Archambault e Vincent Baudriller, giovane coppia di manager formatisi all’interno del FdA durante il secondo mandato di Faivre d’Arcier: il loro progetto prevede inoltre di farsi affiancare ogni anno da un “artista associato” chiamato a co-progettare il programma ufficiale.
Nell’aprile del 1947, in un incontro in rue du Bac a Parigi, l’editore e mercante d’arte Christian Zervos, con la mediazione del poeta René Char, propose a Vilar di realizzare una rappresentazione di Morte nella cattedrale di Strindberg, all’interno del Palazzo dei Papi. Zervos stava preparando una mostra d’arte: cercando tra i bouquiniste di Parigi o nei musei di Avignone si trova ancora qualche copia del piccolo catalogo, con opere di Braque, Chagall, Giacometti, Klee, Léger, Matisse, Picasso. Intimorito e in parte sorpreso dalla proposta, in un primo momento il giovane Vilar, appena affacciatosi al successo, rifiutò l’offerta. Dopo qualche giorno Vilar stesso propose a Zervos tre creazioni: il Richard II, di Shakespeare, mai proposto prima di allora in Francia; e due opere francesi, una di un autore in vita, Claudel, Tobie et Sara; l’altra, l’opera inedita di un giovane scrittore e drammaturgo, Maurice Clavel, ovvero Le Terrasse de midi.
“A voler rischiare, tanto valeva andare fino in fondo”: così la pensava Vilar. In effetti il progetto si presentava piuttosto audace (Festival d’Avignon 1986, 1996). Ma è da quel rischio, legato ad un gesto d’arte, che nacque il FdA (Loyer, de Baecque 2007): oggi è una delle più importanti istituzioni culturali a livello internazionale con un budget che oscilla attorno ai dieci milioni di euro; una programmazione ufficiale di quaranta/cinquanta spettacoli, con una parte significativa dedicata alla produzione, in collaborazione con alcuni dei centri di produzione e delle compagnie teatrali più importanti della scena contemporanea. Nel mese di luglio Avignone diventa una delle capitali mondiali delle performing arts, dividendosi l’attestato con Edimburgo che in agosto presenta lo sterminato calendario del “Festival Fringe” accanto al cartellone “istituzionale” dell’Edinburgh International Festival-EIF: tremila tra artisti, tecnici e organizzatori; più di cinquanta fotografi e quattrocento giornalisti accreditati; tra i 100 e i 150mila biglietti venduti dal solo Festival “In”, di cui oltre 20mila ingressi per le compagnie e i professionisti. Inoltre, dal 1963 il Festival “Off”, modello di auto-organizzazione proposto dagli operatori teatrali locali, costituisce una “fiera” capace di attirare oltre un milione di presenze, più di un migliaio di spettacoli messi in scena in un centinaio di location sparse in tutta la città (anche negli spazi più impensati), per un totale di quasi un migliaio di rappresentazioni al giorno in circa un mese di repliche. Un cronista degli anni Ottanta, nell’accostare Festival “In” e “Off” li definì come “due ruote della stessa bicicletta” (Faivre d’Arcier 2007).
Dopo un breve inquadramento teorico e qualche nota metodologica che introducono l’oggetto del presente lavoro; il paragrafo successivo mira a descrivere i processi di sensemaking e le logiche che hanno prodotto la cultura organizzativa del FdA. Attraverso alcuni “episodi rivelatori” (Belk et al. 1989; Arnould, in Stern 1998; Latour 2005), vengono ricostruite le tracce di “reti d’azioni collettive” (Czarniawska 1999) che di fatto sono assimilabili ai confini di Avignone come “fenomeno organizzativo”. Nel paragrafo interpretativo, i processi organizzativi del FdA sono analizzati attraverso la logica dei processi evolutivi riconducibili alle teorie di Karl Weick sul sensemaking/organizing (Weick 1979, 1995), considerando la poetica del “teatro popolare” come espressione di un progetto culturale “collettivo” che ha cittadinanza ad Avignone. Le conclusioni, infine, cercano di mettere in luce le implicazioni manageriali derivanti dall’analisi svolta.

Quadro teorico e note metodologiche

La ricerca sul FdA è uno studio pilota di stampo etnografico (Garfinkel 1967; Geertz 1973; Latour 2005) condotto, nella sua fase di lavoro sul campo, tra il 2005 e il 2009 utilizzando tecniche multiple e differenti procedure di raccolta del materiale (Van Maanen 1988).
Storie e episodi raccolti “di prima mano”, racconti “in terza persona” e note etnografiche (testimonianze audio/video e materiale fotografico, interviste, racconti del pubblico, incontri tra artisti e spettatori, conferenze stampa ufficiali e colloqui personali con diversi protagonisti del Festival) costituiscono materiale in forma testuale sulle vicende organizzative del FdA, sulle esperienze vissute dagli informatori e dal ricercatore-testimone (Stern 1998; Czarniawska 1999; Marcus, Fisher 1999; Latour 2005).
Inoltre, la raccolta del materiale ha beneficiato dell’archivio del FdA, costituito dal patrimonio documentario della MJV: una videoteca con testimonianze audio/video e materiale fotografico di personaggi chiave del FdA, riprese di messe in scena di spettacoli storici del repertorio del Festival e del TNP e di eventi significativi della sua storia. Il materiale librario (sulla storia del teatro, la storia del FdA, sulla vita di Vilar, monografie e ricerche di stampo storico, di critica letteraria e teatrale, di sociologia dell’arte, ecc.), i documenti amministrativi del FdA e del TNP, le raccolte di riviste (ad es.: “Bref”, storica rivista del TNP; i “Cahiers” della MJV), la rassegna stampa (diversi metri lineari di dossier dal 1947) sono gestiti dal personale della Biblioteca, antenna avignonese del Dipartimento dello Spettacolo della Biblioteca Nazionale di Francia, a Parigi.
L’analisi organizzativa del/sul FdA è tutta racchiusa in una formula apparentemente bizzarra: “Come posso dire quello che penso fino a che non vedo quello che dico?” (Weick 1979). Per una organizzazione artistica il bisogno di “parlare a se stessa per scoprire cosa pensa” è connaturato con l’oggetto del suo agire: l’obiettivo è di affidare agli artefatti che produce la propagazione di un “discorso culturale” a cui poi una comunità di riferimento attribuisce retrospettivamente un significato. Questa conoscenza non resta “inerte”: in un primo momento la comunità stessa se ne appropria, la storicizza e la stratificazione culturale che ne consegue diventa materiale ulteriore da cui l’organizzazione artistica attinge, riattivando il processo di produzione artistica. La figura 1 fornisce una rappresentazione di questo processo circolare di tipo evolutivo basato sulla formula dell’organizzare.

Figura 1

Pretendere che l’ambiente determini il comportamento organizzativo costituisce una ipotesi di lavoro piuttosto restrittiva. Quando si approccia in modo non deterministico la relazione tra i concetti di adattabilità e adattamento, diventa logico domandarsi: fino a che punto, una organizzazione adattata all’ambiente sia in grado poi di adattarsi quando l’ambiente cambia? Per affrontare la questione Weick propone questa definizione dell’organizzare:

«una grammatica convalidata consensualmente per la riduzione dell’ambiguità attraverso comportamenti interdipendenti dotati di senso. Organizzare significa mettere assieme azioni interdipendenti entro sequenze sensate che generano risultati sensati» (1979: 14).

Tutti gli attori che ad Avignone sono coinvolti nei processi circolari di produzione culturale, partecipano a questo apparente gioco linguistico: vedono quello dicono e in quel modo riescono a sapere quello che pensano. Ad esempio (Collodi et al. 2009): il pubblico mette continuamente alla prova la sua “partecipazione” proprio attraverso l’idea che solo “vedendo” potrà produrre il senso della sua futura esperienza estetica; l’organizzazione del FdA dice quel che pensa attraverso la programmazione artistica, ma solo dopo averla vista sarà in grado di apprezzare l’effetto “culturale” dei suoi discorsi; ancora, le esperienze di Avignone sono il frutto di un processo di “stratificazione artistica” che solo una volta andate in scena e discusse si sedimenteranno nella storia del FdA, tanto che qualcuno le possa, in futuro, riscoprire. Una poetica in continuo cambiamento come quella del “teatro popolare” non è altro che il frutto della spinta, quasi mai simultanea, delle forze rappresentate nella figura 1, riconducibili alla evoluzione socioculturale.

Processi organizzativi e genesi di una istituzione culturale: il “teatro popolare” al FdA

La struttura del presente paragrafo ricalca i contenuti di un appuntamento organizzato dal FdA e dalla MJV tra il 13 e il 15 luglio del 2006, in occasione della 60^ edizione del Festival: tre giornate di incontri sulla storia del Festival, interventi, testimonianze e dibattiti, distinti in tre grandi tematiche: la storia estetica, sociale e politica del Festival.
L’evoluzione delle forme estetiche teatrali. Nei suoi resoconti di viaggio Victor Hugo scrisse: «Da lontano, Avignone somiglia ad Atene, e ha avuto anche qualcosa del destino di Roma». In effetti, giungendo ad Avignone il calcare del Rocher des Doms e il chiarore delle alte mura del Palazzo dei Papi si stagliano come un’acropoli della Grecia antica. Bruno Tackels, filosofo e critico teatrale, animatore di diversi dibattiti al FdA, riprese questa immagine:

«[…] Un secolo più tardi, egli [Hugo] avrebbe potuto aggiungere: “Avignone è diventata La Mecca di tutti i Festival di Francia e di Navarra, luogo magico in cui è stata inventata una politica culturale. Avignone ha i suoi santi, i suoi apostoli, la sua vulgata, e ogni anno richiama ad un doveroso pellegrinaggio”» (2007: p. 247).

L’estetica di Jean Vilar da subito divenne indissociabile dalle radici che l’avevano così profondamente segnata: l’incontro di un uomo con un luogo e una città (Cahiers MJV, n° 102). Con le parole di Vilar: «quando si entra nella nuda Corte [si trova] un luogo informe. Non mi riferisco alle mura, ma al suolo. Tecnicamente, è uno spazio teatrale impossibile. Ed è anche un pessimo luogo di teatro perché c’è troppa Storia presente tra quelle mura» (AA.VV. 2003). In quello spazio en plein air, spesso battuto dal Mistral, Vilar inventò una macchina teatrale capace di costruire un “mondo drammatico” (Elam 1980) che divenne presto mito:

«Invano riuscirete a strapparmi una teoria, una formula espressa in qualche aforisma, una logica razionale che possano spiegare quello che fu il nostro modo di lavorare. Se ce ne fu uno, non sono capace di esplicitarne le leggi, di redigerne i principi. […] A cosa serve la messa in scena? [Ad Avignone come al TNP] ho sempre cercato e cercherò sempre di assassinarla. Attraverso quali armi segrete o convenzionali? Ma nella maniera più semplice: rendendo una totale libertà all’attore nella ricerca del suo personaggio. […] Libertà di ricerca, libertà di creazione all’interprete, dunque, ma anche al maestro delle luci. Il quale assiste a tutte le prove sul palcoscenico ma anche a quelle sulla “lettura” del testo. Libertà al disegnatore dei costumi o al decoratore delle scene, al costruttore delle stesse, ma anche all’assistente alla regia che dirige le comparse e i figuranti. Libertà, infine, al compositore delle musiche. Libertà a chi ancora? All’autore? Al traduttore, o all’adattatore (se l’autore è morto)? Ebbene, per quanto concerne la costruzione dell’opera, e dunque la costruzione del testo drammatico, del testo per il teatro noi siamo tenuti a delle leggi ferree ma sconosciute: la libertà non esiste più. L’autore e il suo servitore (il regista) non possono e non devono agire in libertà. L’opera comanda ed è alle sue oscure costrizioni, comunque tutte da scoprire, che bisogna rispondere. La legge inevitabile del teatro è: “Essere compresi”. E comprendere la lezione d’insieme [del testo drammatico e spettacolare] è più importante del senso letterale». (“Bref”, n. 46, maggio 1961).

Gli antichi luoghi di Avignone rappresentano una sorta di “stratificazione archeologica”: come nella Atene del V secolo e nel rapporto tra i cittadini attici e la tragedia (Meier 2000); la Avignone di Vilar fu il prodotto non già di una specie di “istinto del gregge”, ma di “uomini interamente presenti nella loro integrità”, individui esposti ad una communitas (Turner 1969: 144). In determinate condizioni, ciò permette di produrre miti, simboli, rituali, sistemi filosofici e opere d’arte. Con le parole di Turner: “queste forme culturali forniscono  riclassificazioni periodiche della realtà e del rapporto tra l’uomo e la società, la natura e la cultura” (ibidem: 145).
Nel tempo fu la stessa geografia urbana del Festival ad evolversi, integrando altri luoghi carichi di storia come: il giardino di Urbano V; il chiostro dei Carmelitani o la chiesa e il chiostro dei Celestini; la Cappella dei Penitenti Bianchi; la Cava di Boulbon, considerata dagli artisti, per le sue caratteristiche fisiche, tanto epica quanto la Corte d’onore; o ancora, la Certosa di Villeneuve-lez-Avignon (Festival d’Avignon 1986).
La Corte d’onore e l’intera Avignone diventano per lo spettatore una zona “liminale”, la zona del passaggio, la soglia che sta tra due sistemi culturali definiti (Turner 1969). Come ogni rito di passaggio il pubblico del Festival riconfigura lo “spazio-tempo” delle proprie esperienze sacrali (Belk et al. 1989): categorie logiche che costituiscono l’essenza stessa del teatro e che, differentemente declinate, generano poetiche nuove (Elam 1980). Nel mese di luglio è nel nome di quella poetica che Avignone fonda una libertà sconosciuta altrove. Una “utopia teatrale”, come fu definita da molti commentatori.
Il pubblico incontra l’arte. Nelle performing arts, ricordava Jean Vilar, c’è un attore che gioca stabilmente un ruolo determinante e dialettico con la proposta scenica: il pubblico.
Vilar sperava che gli spettatori diventassero dei “partecipanti”: la comunità di spettatori immaginata da Vilar è alla base delle “utopie” necessarie a ripensare, anno dopo anno, il progetto del Festival (Tackels 2007).
Ma in che modo si realizza questo senso del sacro nel consumo d’arte (Belk et al. 1989)? In quale modo l’organizzazione di questo rito di passaggio permette la transizione verso una “autonomia culturale” (Ethis et al. 2008) che Vilar considerava tanto importante quanto gli ideali di uguaglianza e libertà?
Avignone diviene luogo in cui si mettono alla prova quei complessi processi interpretativi che riguardano gli aspetti socioculturali, esperienziali, simbolici e ideologici del consumo d’arte (Collodi et al. 2009). I festival “maturi” comprendono quanto importante sia questo processo di “cooperazione interpretativa” tra organizzazione artistica e pubblico, sono in grado di perpetuare nel tempo il senso della propria tradizione e di rinnovare i linguaggi mettendo costantemente alla prova il dialogo con lo spettatore e le proprietà della sua esperienza estetica (Belk et al. 1989).
In questo modo il FdA ha saputo captare e formare un pubblico che, attraverso un processo che Ethis definisce di “rinnovamento nostalgico” (Ethis 2002), diventa un “pubblico mediatore”, capace di trasferire nel quotidiano i messaggi che il Festival mette in scena attraverso il “palinsesto” del suo programma artistico. Il pubblico di Avignone non è composto da spettatori “ordinari”. Come per la tragedia ad Atene, la “città-festival” si riconfigura nel nome del teatro, si trasfigura diventando la mimesi del pubblico; e gli spettatori si appropriano di quel vasto spazio pubblico facendolo diventare luogo della propria catarsi (Collodi et al. 2009).
Ethis et al. (2008), nei loro studi sul pubblico del Festival, confermano questo aspetto: «Avignone […] è un luogo privilegiato in cui si è costituito un dispositivo di presa di coscienza collettiva sul concetto di cultura in generale; un luogo in cui si è costruito, spesso nello scontro, un modo particolare di articolare il collegamento tra politica e cultura». In ciò si esprime questa tensione permanente da parte del pubblico sugli obiettivi stessi dell’istituzione culturale. Questo accadeva negli incontri con gli spettatori, al giardino di Urbano V; e in quelli più istituzionali che, tra il 1964 e il 1970, videro impegnati tutti gli attori della politica culturale francese dell’epoca. Ed è ciò che accade tuttora: è sufficiente partecipare ai quotidiani e animatissimi incontri con gli artisti o all’attesa conferenza stampa di chiusura del FdA per osservare il pubblico “in azione”.
Evocare, ad esempio, la “profezia apocalittica” della morte del “vero teatro” o la minaccia che pesa sulla natura del Festival, esprimere il disaccordo sui mezzi che il Festival utilizza per raggiungere i propri obiettivi è condizione necessaria per la sua stessa riuscita. Esiste un “patto fondativo” ad Avignone:

«tutto porta a credere che non sia stato radicalmente modificato nel corso del tempo: esprimere inquietudine sulla continuità del patto costituisce, per un paradosso solo apparente, un modo per riattivare il patto stesso. Avignone è lo spettacolo che si associa al dibattito: parlare dello spettacolo è parte integrante dello spettacolo stesso. Ma se l’espressione pubblica ad Avignone ha subito, nel corso del tempo, delle modifiche; ebbene queste sono state più congiunturali che strutturali. Talvolta gli organizzatori del Festival hanno preso le distanze dallo spazio di discussione che lo stesso Vilar aveva aperto; ma gli stessi organizzatori difficilmente esitano a mobilitare l’opinione del pubblico del Festival, anche la più critica, quando sentono che ve n’è necessità» (Banu, Tackels 2005).

Nel passato recente ciò è avvenuto di frequente (AA.VV. 2003): resta il fatto che il pubblico del Festival si sente investito di un ruolo di “porta parola” che si attiva in modo pressoché automatico, anche nei confronti della critica teatrale e giornalistica.
Il Festival attore sociale e culturale. Il FdA costituisce un caso eclatante di impresa culturale che è stata in grado ci creare una base organizzativa e di indirizzo strategico non solo per il caso specifico delle performing arts, ma per l’intero settore culturale in Francia e in Europa (DiMaggio 2009). Le riflessioni di Vilar sulla contemporaneità, sul teatro popolare e sulle esperienze di democratizzazione/decentramento culturale richiamavano valori per i quali diversi altri uomini di teatro si stavano battendo (Fleury 2006; Loyer, de Baecque 2007). La formula originaria del TNP in Francia risaliva agli anni Venti (oggi il TNP è localizzato a Villeurbanne, vicino Lione), benché fu solo grazie all’opera di Vilar che essa fu definitivamente rilanciata; così come l’esperienza del Volksbühne a Berlino prese forma proprio attorno al 1920. Più di recente, il Piccolo Teatro di Strehler e Grassi, fondamento del modello del “teatro stabile” in Italia, nasce proprio nel 1947 (i contatti con Strehler furono sempre molto frequenti); mentre l’esperienza del Schaubühne di Berlino, sotto forma di teatro privato, comincia circa un decennio dopo (Thomas Ostermeier, direttore artistico dell’istituzione berlinese dal 1999, è stato artista associato al FdA nel 2004).
Attraverso il Festival chi produce le politiche culturali (uomini di teatro, funzionari pubblici, studiosi, politici), si ritrova a fare i conti con quella potentissima rete sociale o “cassa di risonanza civile” costituita dal pubblico che ha “cittadinanza” ad Avignone (DiMaggio 2009; Latour 2005). Di converso, il pubblico si aspetta di trovare ad Avignone i protagonisti delle politiche pubbliche consacrate all’arte, al patrimonio culturale, alla storia, alla creazione contemporanea, in un momento di sintesi in cui quel “progetto sociale” può essere condiviso con una collettività presente lì proprio per dare un senso al loro lavoro (Urfalino 2004; Fleury 2006). In una nota di lavoro di Jean Vilar si legge (Vilar 1971, 1981):

«Molti hanno confuso la missione di Avignone e la missione del TNP, e naturalmente hanno unito a questa confusione le idee politiche che essi stessi mi attribuivano – conservatrici o rivoluzionarie – o che avrei espresso più o meno chiaramente. Che cosa è il TNP? E’ un teatro politico o, invero, un teatro impegnato in tutti i tipi di querelle, dal 1951 al 1963. E questo, al di là di quali fossero le opere scelte, siano esse le più antiche, siano esse le più classiche e certamente non meno politicamente attuali […] rispetto alle più moderne […].
Cos’è e cos’era, al contrario, Avignone? Un luogo di incontri pacifici, di riflessione, di ricerca di un pubblico unito in una società evidentemente divisa. Un luogo di confronto tanto di idee quanto di stili, di ideologie e di morali.
Da quindici anni dico che la teoria fondamentale consistente a lasciare intendere che la rivoluzione efficace arrivi attraverso il teatro non è solamente falsa, non solo è una sciocchezza, ma è una ipocrisia. La mia teoria, la mia ideologia, il mio lavoro erano, lo confesso, più modesti, ma anche molto più efficaci. L’ho già formulato in modo simile: svegliare, provocare, sviluppare, aguzzare la riflessione degli spettatori delle classi lavorative
» (Vilar 1971, ripreso in Théâtre Service Public).

Queste parole di Vilar suonano come un amaro testamento o un richiamo a quanti non riuscirono o non vollero intendere la portata della sfida, strumentalizzando le rilevanti questioni che Vilar poneva sul tappeto o confondendo l’idea del “teatro popolare”, il luogo della sua nascita ed evoluzione e quello della sua espressione. In tal senso, l’esperienza del 1968 colpì molto Vilar, lasciando un segno indelebile nell’animo di colui che, morendo a soli 59 anni, lasciava la Francia priva dell’uomo che aveva rappresentato la coscienza stessa di un intero sistema in una cruciale fase della sua evoluzione.


Il “teatro popolare”: una esperienza di democratizzazione culturale come processo evolutivo


Trasformare lo spettatore in partecipante: attivare l’ambiente culturale
. I flussi di esperienza collegati al FdA mostrano continuamente delle discontinuità di cui i protagonisti delle vicende non hanno piena coscienza se non quando li osservano retrospettivamente (Weick 1993, 1995).
Le discontinuità sono momenti in cui l’attenzione delle persone si risveglia: nelle organizzazioni accade spesso che un flusso di eventi scorra come un fiume senza che nessuno agisca. Se nessuno “resta sensibile alle attività in corso” (Weick 1995; Weick, Sutcliffe 2010), nessun ambiente ha bisogno di essere “attivato”, nessuna esperienza “caotica” ha bisogno di essere ricondotta ad ordine. Soggettivamente la realtà organizzativa è costituita da “gente [che] ripetutamente impone quello che poi afferma di sentire gravare su se stessa” (Weick 1979, 215): in altre parole, l’esperienza è la conseguenza dell’attività.
Il periodo di coabitazione di Vilar alla direzione del TNP e del FdA, tra il 1951 e il 1963, viene ricordato come “l’età d’oro”, o “gli anni gloriosi” del Festival (AA.VV. 2003). Nel 1964 l’esigenza di Vilar è di “rilanciare” il dibattito nazionale e internazionale sull’arte e sul teatro come “servizio pubblico”. Affidato il TNP a Georges Wilson nel segno della continuità, Vilar precorre ancora una volta i tempi sostenendo l’apertura del Festival: i) ad altre estetiche (ad esempio, il Living Theatre di Julian Beck e Judith Malina fino al Théâtre du Soleil di Ariane Mnouchkine); ii) ad altre forme artistiche, a cominciare dalla danza contemporanea (in passato Maurice Béjart, Merce Cunningham, Pina Bausch; oggi Marina Abramovic, Jan Fabre o Josef Nadj) (Faivre d’Arcier 2007).
Il 1968 fu un anno di cesura di grande importanza (Loyer, de Baecque 2007), ricordato nell’immaginario dei frequentatori storici del Festival con la stessa tristezza con cui viene raccontato il 2003. Mentre nel 2003 la crisi fu di “sistema” e non intaccò le strutture portanti, in termini di sensemaking, di Avignone (per una analisi puntuale del fenomeno degli “intermittenti dello spettacolo”: Menger 2005); la crisi del 1968 rischiò di segnare profondamente l’essenza stessa del Festival, di far collassare la propria realtà organizzativa (Weick 1993) e la “piena consapevolezza” del proprio agire (Weick, Sutcliffe 1993; 2010).
Tutta una serie di eventi tra loro interconnessi portarono agli avvenimenti dell’estate del 1968. Di ritorno da Mosca, dove si era recato per studiare il funzionamento del Teatro Bolchoï, il 30 maggio Vilar ascoltò con tristezza e profondo rammarico il modo in cui il Generale de Gaulle ricostruiva, in un discorso radiofonico ufficiale, gli avvenimenti di quelle settimane, “le origini della crisi […] e le misure annunciate per farvi fronte”. Poco dopo Vilar telefonò al competente Direttore del Ministero anticipandogli quanto avrebbe scritto il giorno dopo al Ministro della cultura. Vilar rinunciava ad accettare qualunque ulteriore impegno ufficiale che potesse seguire al completamento della missione che gli era stata affidata mesi prima: la realizzazione di uno studio preliminare per la riforma del sistema della lirica e della danza in Francia. Vilar era candidato alla direzione del nuovo organismo pubblico che sarebbe nato proprio in seguito all’indagine che regolarmente completò e trasmise nel successivo mese di luglio.
Inoltre, da mesi era in corso uno sciopero massiccio di artisti e lavoratori dello spettacolo; fin da marzo, con la presentazione del programma definitivo del Festival, era noto che il Living Theatre, leggendaria compagnia americana, era sta invitata dallo stesso Vilar per rappresentare quello che divenne una delle loro performance storiche, Paradise Now; fin dal 13 maggio, il Living si era trasferito ad Avignone alimentando, con i propri atteggiamenti spontaneamente ribelli e stravaganti le ansie e la curiosità della popolazione locale; fin dalla sera del 17 luglio, ci furono le prime manifestazioni in Piazza dell’Orologio; il 18 luglio, apparvero sul Palazzo dei Papi, il manifesto con le “13 domande poste al Festival” e la scritta “Supermercato della cultura”; poco dopo, nel primo pomeriggio, giunse notizia che un anonimo spettacolo, in una cittadina sulla sponda opposta del Rodano, venne proibito dalle forze dell’ordine per “attentato al pudore”. Infine, proprio una di quelle misure annunciate da de Gaulle e che fecero temere il peggio a Jean Vilar, vale a dire l’intervento della CRS (corpo d’élite della polizia francese, addestrato alle tecniche anti guerriglia), rese ulteriormente vibrante l’atmosfera nelle piazze di Avignone (Festival d’Avignon 1996).
Il periodo di incubazione della crisi durò settimane e forse mesi, durante il quale montò l’aspettativa e l’insicurezza; una serie di piccoli “eventi precipitanti” predisposero ad una situazione di isteria collettiva; e l’effettivo innesco degli eventi non fece altro che beneficiare di quella fase preparatoria che rese la crisi difficile da controllare: di tutto ciò Vilar fu sempre lucidamente consapevole (nel Cahiers della MJV n° 105 è ampiamente documentato il punto di vista di Vilar). Ciò che Vilar non accetterà e non dimenticherà nei pochi anni che gli restarono da vivere fu l’idea che quel luogo del dibattito e dell’ascolto e espressione dei valori del “teatro popolare”, potesse così facilmente essere “manipolato” per diventare falso simbolo di mercificazione della cultura (Vilar 1971, 1981; Fleury 2006). A livello organizzativo, quella crisi mise in discussione quella che Weick e Sutcliffe (1993, 2010) definiscono come “resilienza”: la capacità del “sistema sociale-Avignone” (Latour 2005) di conservare la propria struttura e le proprie funzioni di indirizzo culturale attraverso la capacità della poetica del “teatro popolare” di far fronte ai cambiamenti “usurandosi” solo quanto necessario per rinnovarsi (Weick, Sutcliffe 2010: p. 73).
“Questo era il FdA: cosa di aspetti?”. Pensare al futuro anteriore. “Avignone fa parlare di sé”, “ognuno pensa qualcosa di Avignone”, “Avignone dà sempre qualcosa da pensare a ognuno”: costituiscono altrettante espressioni che forniscono una idea di come il senso del conflitto, del combattimento, del disaccordo, della disapprovazione, dell’opposizione costituiscano altrettante facce della mitografia del Festival.
“L’azione che prepara il campo all’attribuzione di significato” (Weick 1993): questa felice espressione di Weick permette di comprendere in quale modo il succedersi di episodi “critici” lungo la storia del FdA altro non sono che il risultato di uno sforzo collettivo per riaffermare un ordine parzialmente sconvolto. Ciò che è particolare ad Avignone è che spesso la costruzione dell’ambiente organizzativo del Festival agisce con la logica del sasso lanciato nello stagno: non importa quanto piccolo sia l’evento che accade ad Avignone, esso viene immediatamente “amplificato” o “esasperato”; per trasmettersi come un’onda all’intero settore delle performing arts riaffermando un cambiamento evidente nella costruzione collettiva del significato delle politiche culturali in un dato momento.
Ambiguità, confusione, incertezza interpretativa costituiscono l’essenza dei processi che attivano la “cornice” all’interno della quale una nuova esperienza assume senso (Weick 1979). I processi di selezione rispondono a una domanda che è spesso drammatica per le organizzazioni culturali: “che cosa succede qui, che senso ha tutto questo?”. Interpretare l’ambiente attivato significa “vedere ciò che si fa”, operare retrospettivamente sul materiale che permette alle persone di fare chiarezza, di creare un ordine mentale e organizzativo: questo è fondamentale in quanto qualunque “decisione efficace si basa proprio sulla eliminazione dei margini di ambiguità nell’interpretare l’ambiente in cui si colloca la decisione stessa” (Weick 1979, 1993).
La situazione organizzativa più eclatante in tal senso è data dalla programmazione artistica del FdA (Faivre d’Arcier 2007): ogni scelta in tal senso si trova a dover “fare i conti con la storia” in modo molto meno ovvio di quanto questa espressione possa lasciare intendere. Se si pensa al programma artistico come ad una “storia”, ad una sorta di “palinsesto”, cioè di testo che evoca altri testi, questa affermazione di Weick risulta particolarmente calzante:

quando si immagina il passo di una storia che produrrà un risultato, allora è più probabile che uno o più di questi passi saranno rappresentati prima e che evocheranno esperienze passate simili all’esperienza immaginata al futuro anteriore” (1979: 274-275).

Cosa significa “pensare al future anteriore”? In quale modo il presente non ancora visto del programma artistico si specchia nel passato per essere attualizzato in un contesto in cui diventa più o meno familiare e sensato? La programmazione artistica non è un atto di pianificazione: pianificare significherebbe inventare letteralmente il futuro, rendendo possibile qualunque risultato in una logica di “futuro semplice” (Weick 1993). Per comprendere come il programma artistico del FdA possa essere pensato in una logica di “futuro anteriore” è possibile utilizzare questa semplice tecnica: i direttori e gli artisti associati dovrebbero scrivere il programma pensando a ciò che vorrebbero sentirsi dire da un futuro commentatore chiamato a scrivere su ciò che quest’ultimo non può ancora aver visto. La metafora di una “recensione auto-inviata” su fatti non ancora avvenuti è particolarmente evocativa in quanto costituisce un esempio di “risultati che chiariscono quanto li ha preceduti” (Weick 1979: 278). In questo caso il concetto di “aspettativa” assume un significato molto preciso: è una continua ricerca di conferme basate sull’immaginare “che qualcosa che è ragionevole certamente si realizzerà” (Weick, Sutcliffe 2010: p. 31). Il paragrafo successivo, oltre ad introdurre il processo di ritenzione, richiama un episodio che può essere letto anche in termini di mindfulness e di relazione tra selezione e ritenzione (Weick, Sutcliffe 1993, 2010): come è possibile utilizzare le aspettative in modo “pienamente consapevole”?
“Un sogno che facciamo noi tutti”: il FdA come memoria collettiva. “Avignone: un sogno che facciamo noi tutti!” era il titolo della mostra annuale che la MJV realizzò nel 2003, dedicata alle crisi che la manifestazione aveva attraversato lungo la propria esaltante storia.
Nell’estate del 2005, edizione in cui Jan Fabre fu invitato dalla direzione in qualità di artista associato, alcuni episodi meritano attenzione rivelando il funzionamento dei processi di ritenzione. La disputa ricostruita di seguito riguarda un’altra mostra allestita presso la MJV e organizzata in collaborazione con il FdA: l’esposizione “For Intérieur-Exposition Jan Fabre” che avrebbe accompagnato l’artista fiammingo lungo tutta la sua permanenza ad Avignone. Jacques Téphany, direttore della MJV, nel numero primaverile dei Cahiers della MJV così presentò la mostra:

«[…] Nel dicembre scorso [nel 2004], Vincent Baudriller ci ha reso partecipi di una sua inquietudine: non trovava alcun luogo corrispondente al progetto espositivo consacrato all’opera plastica di Jan Fabre. In quella occasione gli proponemmo che quella esposizione si facesse tra le mura della MJV.
Ben presto abbiamo compreso tutte le difficoltà della proposta, misurato il suo paradosso, considerati i rischi. Non erano l’arte e la persona di Jan Fabre in discussione, quanto piuttosto ciò che entrambi rappresentano dell’arte contemporanea, l’immagine che essi ne danno. Sapevamo che alcuni dei più familiari frequentatori della Maison avrebbero avuto delle reticenze su questo progetto: “Pas de ça chez Vilar!”. Ma “questo” cosa? Non avvicinarsi all’artista associato del Festival, non sarebbe come rinunciare ad una collaborazione ancora più produttiva tra le nostre due organizzazioni […]?
[…] Senza rinunciare ad essere ciò che essenzialmente siamo, un centro di fonti documentarie, di riflessione, la [MJV] oggi sostiene un dibattito attorno ad un artista considerevole e discusso. Un dibattito, quindi, al centro del quale l’opera di Jan Fabre ha il ruolo di una leva, di uno strumento e non di un fine. Una disputa senza dubbio attorno alle imposture e alle aberrazioni ma anche ai colpi di genio di cui l’arte contemporanea è capace. Un invito, più che una provocazione, a incontrarci attorno ad un fenomeno sociale in cui si affrontano il guardiano del tempio e le perversità commerciali, sincerità artistica e “impiccagioni” [il riferimento è ad alcune installazione di Jan Fabre].
In breve, collocando l’opera di un artista come Jan Fabre al centro della Maison, noi possiamo sia scioccare che stupire positivamente, e aprire la riflessione comune sulle questioni pressanti di oggi attorno all’arte di essere contemporanei
»

Quello stesso numero ospitava una lettera di Sonia Debeauvais, vice presidente dell’Associazione e storica collaboratrice di Jean Vilar al TNP e al FdA, decisa a prendere posizione su quel progetto, al volere affermare, ancora una volta, singolarità e problematicità della MJV.

«Mi pongo molte domande circa il progetto di esposizione consacrata al Jan Fabre.
[…] Quali che siano le mie prevenzioni a riguardo dell’artista associato dell’edizione 2005, questa forma di collaborazione con il Festival mi sembra fruttuosa e non pregiudica la posizione specifica della Maison, così come percepita dal pubblico.
Ma il progetto che sembra svilupparsi al momento con Jan Fabre mi appare molto chiaramente come di altra natura: facendone il soggetto della grande esposizione annuale della MJV noi ci schiereremmo sotto il gonfalone di un’altra famiglia di pensiero. Ci metteremmo a seguire una moda elitaria, che è contraria ai valori che noi difendiamo. Siamo – e almeno io lo credo – assolutamente d’accordo sui nostri obiettivi: trasmettere, con gli strumenti che ci sono propri, ciò che costituisce il valore del nostro patrimonio; aprirsi parallelamente al mondo contemporaneo e, quello che ai miei occhi e fondamentale, tentare di occupare un posto specifico nel mondo culturale in cui, attualmente, tutti i valori si mischiano in una gerarchia fabbricata dai media.
Sono persuasa del fatto che siamo in grado di occupare questa posizione, anche se difficilmente. […] Ma se rincorriamo lo snobismo regnante, perderemo su tutti i fronti. Il pubblico non ci capirà più nulla, gli amici della Maison resteranno confusi, la nostra identità si perderà nella nebbia.
[…] So bene che il tempo scorre veloce, che non siamo ricchi, che una coproduzione con il FdA è di interesse per una sana gestione, aggiunta all’amicizia che ci lega all’équipe del Festival… Ma continuo a pensare fermamente che, per la prima volta, con Jan Fabre ci allontaneremo dalla nostra ragion d’essere. Tu troverai delle argomentazioni assolutamente giuste e esatte da oppormi. E farai probabilmente ciò che avrai deciso di fare. Ma era necessario almeno che ti scrivessi questa lettera, tutta d’un tratto e senza calcoli
».

I dubbi di Jacques Téphany e le riflessioni di Sonia Debeauvais ricalcano uno dei processi evolutivi più complessi (Weick 1979). La ritenzione si manifesta come una sorta di pellicola fotografica che registra ciò che le viene esposto: in questo caso la mostra di Jan Fabre rappresenta una immagine che rischia di alterare l’affidabilità con cui l’organizzazione “pensa a ciò che ha detto” per prepararsi a “registrarlo”. In sostanza: come archiviare in modo “non sfocato” il “caso Jan Fabre” tale da lasciare una traccia corretta nella memoria organizzativa e che l’esperienza possa essere rappresentata in modo “pienamente consapevole”? (Weick, Sutcliffe 1993).
La qualità dell’immagine “memorizzata” dipende molto anche dalla qualità della superficie di registrazione e le distorsioni sono spesso molto utili in quanto mostrano come si manifesta un ambiente costruito in precedenza (in una fase di attivazione). La metafora richiamata dovrebbe tornare utile per chiarire il concetto di ritenzione così come lo propone Weick: “Se una organizzazione deve imparare qualcosa, allora la distribuzione della memoria, la precisione di quella memoria e le condizioni in cui viene trattata come un vincolo diventano caratteristiche cruciali dell’organizzazione” (1979: 285).
A proposito di come la memoria possa essere utilizzata senza diventare un vincolo, Roland Monod, presidente della MJV, intervenne nel dibattito in questi termini:

«Non so se un dio nel rinnovamento si manifesti in Jan Fabre e se questo rinnovamento possa rispondere alle mie intime attese. D’altronde, la domanda non mi sembra tanto “perché Jan Fabre nella Corte d’onore?” quanto “perché non del teatro (di testo)?”. Il solo precedente: l’estate del 1968… La storia torna indietro o il teatro non sa più cosa dire, mentre si esauriscono le varianti sul come dirlo? Programmare uno spettacolo nella Corte d’onore è oggi come ieri una vera sfida per i direttori del Festival e per gli artisti. Vilar per primo, dal 1966, aveva previsto che il teatro era più del teatro. E aprì la Corte a Béjart.
[…] Vilar oggi farebbe appello a Jan Fabre? E cosa penserebbe di una esposizione dedicata all’opera plastica di questo creatore proteiforme nella Maison che porta il suo nome? Forse egli stesso ricorderebbe quanto ha lavorato con i pittori, che certamente la moda è il più inflessibile nemico dell’arte, ma anche che una ricerca creatrice affermata da più di venti anni (come nel caso di Jan Fabre) affonda senza dubbio le sue radici più in profondità della moda e non può essere semplice snobismo. La trasgressione non è sempre provocazione. Certi giorni, bisogna osare di dire sì. L’Arte non ha per vocazione di suscitare uno spirito di consenso. “Non sono venuto per portare la pace ma la spada”. La spada che taglia e obbliga a scegliere da che parte stare […].
La [MJV] non è né un museo né un luogo di creazione, è un legame tra un passato non così lontano in cui il teatro si faceva con e per il pubblico e un presente di dubbi e di intimidazioni in cui il teatro prende a prestito troppo spesso dal poker le sue regole del gioco. Anche quella dello spettatore è una attività da preservare
».

Per inciso, la mostra di Jan Fabre ebbe un successo di pubblico notevole. Ma soprattutto fu un successo in termini di sensemaking in quanto ebbe il merito, attraverso questa sorta di “imperfezione nel riflesso” generata dalla controversa figura di Jan Fabre, di rendere disponibile il materiale della memoria per una ulteriore riflessione. Un ammonimento, una piccola disputa interna all’organizzazione su cosa significa dare senso alle esperienze che passano, rispondere cioè alla tormentata questione di “cosa fare con quello che si sa?”. Un modo per esorcizzare un problema emblematico e di difficile soluzione quando si presenta: “sapere cosa si pensa quando si dimentica ciò che si è detto” (Weick 1979).

Conclusioni

Il destino delle organizzazioni culturali è in buona parte scritto nelle norme specifiche con cui tali “collettivi” si assemblano (Latour 2005). Con le parole di Weick: “un analista può inserire le proprie idee sull’azione organizzativa nella categoria dell’enactement [attivazione], e quelle sulla percezione nella categoria della selezione. Il processo di ritenzione porta l’analista a rendere esplicite le sue ipotesi sulla memoria organizzativa e quelle sul come e dove la memoria costituisca un vincolo” (Weick 1979: 323).
Questo genere di analisi sul cambiamento organizzativo e sui processi strategici sono piuttosto trascurate in letteratura (Czarniawska 1999; Laotur 2005); e nel caso delle organizzazioni artistiche ciò genera un uso a volte scorretto o improprio delle teorie e delle pratiche di management. Le attenzioni alle problematiche di ordine gestionale di amministratori o di analisti sembrano in buona parte rivolte: i) al risultato finale, quindi al marketing del prodotto culturale; ii) e/o all’accesso al finanziamento (per lo più pubblico) che dovrebbe automaticamente garantire che il prodotto culturale venga “comunicato” ad un pubblico indistinto. Ma, come sottolinea Luca Zan, non di sola comunicazione e fund raising vivono le organizzazioni culturali (Zan 2003; Rispoli, Brunetti 2009).
Il presente contributo è una sorta di guida per la progettazione organizzativa basata su strumenti che avrebbero il compito di rendere più utili e produttive le “conversazioni” tra i soggetti di una organizzazione (Czarniawska 1999). Una organizzazione culturale è un aggregato i cui membri, con una certa dose di realismo, convergono inizialmente sui mezzi comuni (Weick 1979: 132). Ciò ha reso possibile osservare i comportamenti organizzativi che permettono la nascita e la realizzazione del FdA, considerando l’evoluzione della struttura collettiva della “comunità” che da oltre sessanta anni va letteralmente “in scena” ad Avignone, tenuta assieme dall’utopia del “teatro popolare”. Le organizzazioni attivano ambienti che poi letteralmente si impongono a loro stesse: ma la circolarità tra adattabilità e adattamento porta a pensare che le stesse organizzazioni condizionano l’attività del sensemaking, in quanto esse “generano ciò che poi interpretano” (Weick 1995).
Costruire una cultura organizzativa nel nome del “teatro popolare” presuppone un livello di partecipazione elevato da parte di tutti gli attori della “comunità teatrale” di Avignone. Ciò in parte chiarisce perché i confini organizzativi del FdA presi in considerazione in questo contributo possano apparire piuttosto sfocati in quanto sono stati “osservati” tenendo conto del fatto che (Weick 1993, 1995; Latour 2005): i processi organizzativi contengono comportamenti che sono concatenati; le relazioni tra attori emergono nel momento in cui si “disfano”, si creano incomprensioni, ambiguità, “controversie”; i processi inattesi e la sospensione momentanea di questo processo continuo permettono di captare i legami sociali mentre si (ri)formano; nel momento in cui questi legami sociali si addensano attorno ad una forma di stabilità di lungo termine e su vasta scala, il sensemaking lascia il posto all’interpretazione; in questo modo si crea una “identità” sufficientemente forte e dai confini sufficientemente solidi tanto che una “collettività” si trova a condividere quello che pensa dopo aver visto ciò che  i membri dicono.
Le organizzazioni culturali sono “macchine interattive” le cui “strutture collettive” si costituiscono sulla base di una convergenza sui mezzi che, per chi produce cultura, vanno continuamente negoziati con i membri della propria comunità di riferimento. Il concetto di “teatro popolare”, in sostanza, è una espressione dietro la quale si nasconde la costruzione di un progetto culturale, un “mondo possibile” che, come un qualunque testo, qualcuno ha scritto e continua a scrivere e a interpretare; e qualcuno d’altro è stato chiamato, ed è tuttora chiamato, a leggere e a co-produrre diventandone egli stesso artefice. De te fabula narratur.

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