Quando organizzavo il viaggio dall’Italia, mi imbattei in un servizio giornalistico di Al Jazeera sulla città fantasma di Kangbashi, Ordos, Inner Mongolia e la cosa mi ricordò il racconto “Il continuum di Gernsback” di William Gibson, ma non mi chiesi il perché.
Affascinata dalla scoperta, però, inclusi Kangbashi nell’itinerario, o meglio, decisi coscientemente di compiere una bella deviazione verso Ordos (quattordici ore di treno notturno da Beijing), perché volevo assolutamente vederla, camminare per le sue strade chilometriche, asfaltate di semafori, vuote; aggirarmi tra le centinaia di grattacieli dai 30 piani, disabitati, riuscire magari anche a salire ed entrare in uno di quegli appartamenti che stanno lì, in attesa di cosa?
– contenitori, contenitori vuoti –
Avrei percorso la Gengis Kahn Square e la fontana, fotografato i due cavalli rampanti nella Linyinlu Square, sarei entrata nell’Oros Museum di arte Contemporanea, la gigantesca goccia di mercurio antigravitazionale vuota. Non una città fantasma abbandonata come quelle vecchie cittadine minerarie, ma una città moderna, costruita negli ultimi sette anni per una popolazione che non esiste, e non si è mai trasferita qui, una città mai abitata.
Una città di fondazione, in altri termini, pensata per circa due milioni di abitanti, ma contente solo circa trenta mila, tutta gente impiegata nella sua costruzione o che le fa da guardia, che vive alcuni chilometri più in là e che non potrà mai permettersi di comprare un appartamento qui, perché i prezzi sono astronomici.
Kangbashi è stata pensata come distretto per il business, edificata a questo scopo su terreni lottizzati, venduti dai piccoli proprietari terrieri, che poi reinvestono nelle società finanziarie gestite dagli stessi palazzinari, in quanto garantiscono ritorni più elevati delle banche, perché con quei soldi finanziano a tassi da usura la gente che poi acquista gli appartamenti. Una folta schiera di investitori cinesi hanno poi acquistato questi appartamenti, senza occuparli, ma aspettando tempi migliori per venderli. Kangbashi affascina ed è frutto della grande bolla speculativa cinese, economica, immobiliare, sociale, altrove già definito “modello di tempesta finanziaria”.
Durante il tragitto in autobus dal Wutai Shan a Kangbashi, però qualcosa è balenato. Andare a Kangbashi si è rivelato non indispensabile, perché tutto quello che è attorno a me è Kangbashi. Le cose mi cadono dentro e nella testa permangono, un enorme disastro ambientale e demografico, scavata la terra hanno creato montagne da riporto. Noi, veniamo dal futuro, veniamo qui in questo sogno di benessere consumistico dei loro anni cinquanta. Dove nulla è reale. Una infilata di billboard mastodontici disegnano valli incantate, ricche di corsi d’acqua e verde rigoglioso, montagne come dimore di dei, pace e calma, tranquillità. Enormi billboard nascondono slum impolverati a perdita d’occhio, gente seduta sulla terra scavata, centinaia di tir muovono la terra in fila indiana su una strada minuscola, come formiche. Polvere, polvere ovunque. Le scatole basse degli slam si perdono nella polvere, più basse dei tir.
La strada è quella verso il nord, verso una delle città industriali più inquinate della Cina, una delle città che ricorderò come la più brutta in assoluto che abbia mai visto, il suo nome è Datong; da li sceglieremo se proseguire per Ordos, per la Mongolia, o chissà. Con il passare delle settimane ciò che ci è sempre più chiaro è di navigare a vista, di non fare troppi progetti. Inoltre, siamo malati.
Decidiamo così di dormire in un albergo internazionale, qui dove non c’è davvero nulla per le strade, se non ancora polvere e traffico.
Svengo più che addormentarmi. Dal sesto piano tutta la notte è un suono della città che sale, esplosioni e bagliori lontani nel buio, che continueranno il giorno. Non riesco a capire da dove vengano, che cosa sono. Mi dirò che si tratta di esplosioni nelle cave, e nel mio sonno febbricitante mi chiamo Dialta Downes e cerco di fotografare quello che non c’è del sogno futuro della Cina, il futuro che sarebbe dovuto essere adesso, ma non c’è. Ha preso forma in quartieri vuoti di palazzine a guardia di una civiltà scomparsa, moai sotto un sole nucleare che non guardano mai verso il lato giusto, l’orizzonte del domani, e voltano le spalle al passato, alle identità sacrificate. Attraverso i quartieri in auto, e capisco che Kangbashi è nient’altro che questo, non vale la pena andarci, perché ciò che ho cercato, ho scoperto, è ovunque.
Cosa succede però se non c’è la cultura dietro l’immaginario del futuro, ma solo la fame di denaro?
Datong è una città piena di edifici vuoti, edifici distrutti prima ancora di essere abitati, distrutti per venire ricostruiti, Datong sta tirando giù le sue mura medievali e i suoi quartieri antichi, per costruire ancora e ancora.
Bisognerebbe “trarre piacere dal malmenare il senso comune”, parafrasando F.Jullien. Nel suo libro, Elogio all’Insapore, quest’ultimo si eleva a fondamentale categoria estetica della cultura cinese, visto come topos del “centro” o della “base”, qualità che annulla tutte le forme di eccesso pur senza eliminarne i semi e, anzi, luogo dove queste co-esisitono e possono essere apprezzate. Equilibrio e panopticum, per le aberrazioni, insomma.
Quel che rende difficile riflettere sulla Cina è proprio questa netta incongruenza tra testi critici e realtà, nulla di quello che vedo è equilibrato, è semmai brutto.
Ancora qualcosa invece si ritrova nelle poche vestigia superstiti. Facciamo una gita fuori, per vedere lo straordinario spettacolo del sito archeologico delle Yungang Caves, tra i più imponenti della statuaria buddista rupestre e templi ipogei. Il sito è ben gestito e i restauri coscienziosi, si respira una dimensione nettamente internazionale, rispetto il Wutai Shan. Le sculture scavate nella roccia, imponenti ed eleganti, mi fanno capire qualcosa di quell’ “Insapore” così svalutato dalla nostra cultura. Già O.Siren, esponente massimo nella storia dell’arte cinese, di fronte a queste statue scrisse che offrono a malapena un modello, e ” le impressioni che si ricevono sono naturalmente fugaci e dipendono molto dagli effetti di luce”.
Torniamo a Datong nel crepuscolo rosa e viola delle nubi di smog. In un attimo, capisco.
Fantasmi semiotici, ecco cosa vedono i cinesi, e che io non vedo. Un fantasma semiotico si forma con frammenti del sogno di massa su come doveva essere il futuro, ma che non si è espresso, non si è concretizzato. Loro vedono i fantasmi semiotici del 2000, secondo come lo sognavano negli anni ‘50; come un velo di maya questi fantasmi sono lì, attaccati agli edifici che io vedo vuoti, e li dipingono sfavillanti e meravigliosi agli occhi dei cinesi. Dove io vedo un cartellone pubblicitario menzognero loro vedono acque e cascate cristalline. Per davvero, è lì che vivono con la testa.
Più di un miliardo di persone ha perforato la membrana probabilistica del continuum di Gernsback, e la loro percezione di futuro è spaventosa in quanto ha dimenticato il suo passato. E crea intanto spazzatura che intasa, si ammassa, sporca; che noi vediamo, ma che loro non vedono.