Diversity and critical sense – Diversità e senso critico

Diversity, including cultural diversity, is intrinsic to human beings. It’s not to be confused, however, with the need for belonging, which can become identity and which is declined in different ways – national, tribal, religious, sports, etc. -, and which, in turn, must not be confused with nationality or citizenship, that is belonging to a territorial entity, the modern State for example, which confers on a person the status of a citizen, with rights and duties. Diversity has always existed; as has always existed, in eternal dichotomy with it, the need for belonging. Probably, the most “modern” example in our western world of the resolution of this dichotomy is the roman world: perhaps there isn’t example of greater tolerance for diversity in all its forms despite the recognition of belonging to a collective entity. The necessity felt today, strongly, to theorize on cultural diversity and on the need for public policies to recognize or integrate it, could almost sometimes seem like a theoretical exercise in style.

La diversità, anche culturale, è intrinseca all’essere umano. Non è da confondersi però con il bisogno di appartenenza, che può diventare identità e che si declina in modi diversi – nazionale, tribale, religiosa, sportiva, ecc. -, e che, a sua volta, non deve neanche confondersi con la nazionalità o la cittadinanza, cioè quell’appartenere a una entità territoriale, lo Stato moderno per esempio, che conferisce a una persona la qualità di cittadino, con diritti e doveri. La diversità è sempre esistita; com’è sempre esistito, in eterna dicotomia con essa, il bisogno di appartenenza. L’esempio forse più “moderno” nel nostro mondo occidentale di risoluzione di tale dicotomia è il mondo romano: non vi è, forse, esempio di maggiore tolleranza per la diversità in tutte le sue forme pur nel riconoscimento di un’appartenenza ad un’entità collettiva.

 

Il bisogno che oggi si sente, prepotente, di teorizzare sulla diversità anche culturale e sulla necessità che le politiche pubbliche la riconoscano o la integrino, potrebbe quindi quasi sembrare alle volte un teorico esercizio di stile. È in parte il senso che mi lascia l’articolo, per altro molto interessante, di Stephanie Stallings. L’analisi proposta è sistematica ed è fatta in chiave molto attuale ma ho il dubbio se la domanda di fondo non debba essere posta in altro modo. Da una parte, non si tratta di definire se la diversità culturale sia “buona o cattiva” per la società moderna: la diversità è, semplicemente; al massimo, semmai, va gestita in positivo.

 

Piuttosto, credo, andrebbe capito se il concetto di cittadinanza moderno possa essere limitato o non debba essere modificato, tenendo conto della complessità e diversità, anche culturale, del nostro mondo moderno. Dall’altra, l’opera culturale ha sempre avuto un “valore”: estetico, mercantilistico, ideologico, ecc. Non è mai stata scevra di scopo: nella storia dell’umanità, pochi sono gli esempi di opere prive di un “senso” o di un messaggio. Infatti, l’arte è stata sempre, o quasi, uno strumento, con un valore aggiunto al di là del suo valore intrinseco: è solo nell’ottocento che sorge, impellente, l’idea che l’arte sia arte per sé; che l’artista sia solo ed esclusivamente artista. Credo quindi che sarebbe importante impostare il dibattito in chiave più moderna liberandoci, definitivamente, di un approccio che, a mio intendere, è ancora troppo intriso di “romanticismo”.

 

Su un’altro fronte, la questione posta da Martha Friel sull’opportunità di prevedere politiche culturali anche per i più giovani, è anch’essa interessante. Il discorso mi sembra, purtroppo però, proprio di una società, per certi versi in “involuzione”, che orienta molte (forse troppe!) delle sue risorse creative a scoprire come e quando si possano produrre ancora maggiori benefici per certi settori corporativi.

 

In fondo, la domanda non è se servano politiche culturali per i bambini da 0 a 6 anni, quanto invece se sia diventato, oggi, necessario frenare un nostro consumismo esacerbato che permette un certo tipo di lusso sfrenato di cui, alle volte, stento a vedere il senso pedagogico proprio perché incapace di gettare le basi essenziali per la formazione dei cittadini di domani, maturi e responsabili ma anche capaci di scelte critiche. Se la cultura serve a formare il cittadino, anche nella sua diversità intrinseca, lo deve però fare fornendo un senso di divertimento, certamente, ma anche veicolando valori e principi, gusto estetico, senso della storia ed, evidentemente, sviluppandone il senso critico costruttivo.