Che la realtà stia cambiando pochi hanno il coraggio di negarlo. Siamo dentro un mutamento epocale: parte dalla fine conclamata del paradigma economico e sociale che ci ha confortati per oltre due secoli, passa attraverso nuove consapevolezze e responsabilità, approda su una griglia forse non del tutto inedita ma certamente solida, costruita su relazioni, qualità, molteplicità.
Non mancano i nostalgici di un ordine che era certo, appagante e carico di promesse etiche, grazie al quale la borghesia si è autodefinita illuminata anche quando cominciava a non capire granché dell’evoluzione della propria specie. E poi, a ben guardare, i nostalgici più accaniti sono coloro che giocano in difesa di posizioni protette e garantite: i professionisti del settore culturale.
Con buona pace di tutti, il mondo percorre una strada nuova e la direzione è indicata da prodotti creativi, beni di conoscenza, valori culturali; ma non possiamo appigliarci alle cose già successe: nessuno sviene più al cospetto dei dipinti antichi, e mentre musei e teatri continuano a battere cassa con l’amministrazione pubblica, si sviluppa una discussione su dove stiamo andando.
Discussione estesa a tutto il mondo, che vuole reinterpretare le etichette. Come funziona la cultura “no-brow” (ossia né elevata né popolana)? Se ne parla su LinkedIn, un social network orientato alla professione e al mercato, che vuole capire la nuova catena di creazione del valore culturale. Che fine sta facendo il romanzo come categoria di prodotto letterario? In epoca di e-book, bookcrossing e festival della letteratura non tutti sono pronti a scommettere che il genere rimanga com’era.
Accanto alla discussione, dubbi profondi intaccano i pilastri sui quali la produzione e la diffusione della cultura si sono rette finora; leggendo in trasparenza i contributi di Alessandra Puglisi e di Antoine Leonetti si percepisce con chiarezza il guado su cui la cultura oscilla in questi anni; è un guado carico di rischi e di opportunità, che spinge a guardare avanti e plasmare idee e progetti che rispondano alle nuove aspettative delle persone e della società.
Basta celebrazioni, capitali culturali, questua presso le imprese, proclami velleitari. Non possiamo più pretendere un sostegno cieco e smarrito da parte dello Stato (o di Regioni, Province e Comuni, la sostanza non cambia) perché “la Traviata è un bene culturale”. Le vecchie, romantiche motivazioni dei sussidi alla cultura sono cessate. Ne erano responsabili anche gli economisti, spesso attratti da un mercato competitivo creato in laboratorio ma sempre meno capace di fotografare la realtà. In quella pretesa “età dell’oro” la cultura svolgeva il ruolo di bel fronzolo decorativo; nei prossimi anni diventerà il paio d’occhiali attraverso il quale formulare le domande giuste: ormai nessuno compie scelte determinate dalla funzione degli oggetti, che è necessaria ma non più sufficiente; acquistiamo automobili in base alla possibilità di personalizzarle, cibi in base al rispetto della natura e del territorio, abiti in base alla carica simbolica che segnala la nostra personalità al resto del mondo.
I rapporti si sono invertiti, adesso è la cultura a dettare l’agenda, a informare di sé relazioni, scelte e comportamenti. Magari non in modo pienamente consapevole, ma certo con grande efficacia. Ciò impone un mutamento profondo dell’approccio e delle strategie, e richiede che la società nel suo complesso si faccia carico, attraverso la pubblica amministrazione, di un solido e sistematico investimento in spazi urbani, infrastrutture materiali, opzioni tecnologiche, formazione ed educazione; e che al tempo stesso chi crea, produce e diffonde cultura deponga le fastidiose armi della lamentela e costruisca nuove relazioni fondate sulla credibilità, sull’ascolto reciproco, sul gioco condiviso. Come tutti gli ecosistemi, anche quello culturale sarà capace, se vogliamo, di attivare processi, reazioni e cascate di effetti che portano un contributo infungibile e forte al perseguimento della felicità.
Ecosistemi culturali emergenti
Che la realtà stia cambiando pochi hanno il coraggio di negarlo. Siamo dentro un mutamento epocale: parte dalla fine conclamata del paradigma economico e sociale che ci ha confortati per oltre due secoli, passa attraverso nuove consapevolezze e responsabilità, approda su una griglia forse non del tutto inedita ma certamente solida, costruita su relazioni, qualità, molteplicità.
Non mancano i nostalgici di un ordine che era certo, appagante e carico di promesse etiche, grazie al quale la borghesia si è autodefinita illuminata anche quando cominciava a non capire granché dell’evoluzione della propria specie. E poi, a ben guardare, i nostalgici più accaniti sono coloro che giocano in difesa di posizioni protette e garantite: i professionisti del settore culturale.
Con buona pace di tutti, il mondo percorre una strada nuova e la direzione è indicata da prodotti creativi, beni di conoscenza, valori culturali; ma non possiamo appigliarci alle cose già successe.