L’articolo di Laura Cataldi ed Enrico Gargiulo ci porta dentro i cosiddetti “processi partecipativi”, con lo svelarne alcuni aspetti più problematici sui quali spesso si “scorre”, consapevolmente, per non inficiare la presunta portata politica di alcune operazioni, o inconsapevolmente, perché, in modo banale per inerzia o per troppo enfasi “democratica”, non si pone mente alle difficoltà e ai limiti che tali processi incontrano per una loro piena esplicazione.
A detta di molti, i Piani di Zona e la connessa attività di programmazione, di cui alla Legge 328/2000 sulla socio-assistenza, hanno sviluppato fin dai primi momenti della loro applicazione, in linea generale, un notevole fervore partecipativo, che forse è andato man mano scemando sia in rapporto alle difficoltà organizzative e di gestione dei Piani, sia in rapporto alla dotazione di risorse che, negli ultimi anni, è diventata sempre più scarsa.
Se i tavoli di partecipazione, nell’esperienza dei Piani di Zona della Provincia di Torino, vedono la presenza di un mondo di attori “ridotto” che non arriva a coinvolgere nella programmazione la comunità in senso ampio, vale a dire i singoli individui (o loro gruppi), che pure potenzialmente potrebbero essere interessati, ci sono motivi “di base”, oltre a quelli ben indicati nell’articolo (il target d’inclusione ristretto; la scarsa articolazione degli strumenti comunicativi utilizzati; le rappresentanze formali; l’ambiguità tra consultazione e codecisione; il trade-off tra governabilità e democraticità).
La realtà è che, nei fatti, in tutti questi processi, è molto difficile creare un efficace radicamento sul territorio perché, nonostante si tratti di democratizzazione e decentramento delle strutture istituzionali, riesce sempre a essere piuttosto profondo, ormai da anni, il distacco tra le istituzioni stesse e la società civile. I soggetti della comunità locale stentano ad andare oltre la loro vita strettamente quotidiana, coinvolti dal lavoro, dalla famiglia e dall’impiego del tempo libero, spesso indotto dai media, a cui non ci può sottrarre senza perdere l’apparente diritto di far parte a tutti gli effetti di una “determinata società”. Tutto quello che resta, ritagli frangibili di tempo, possono essere attratti dai processi partecipativi, nella misura in cui:
– le istituzioni riescano, attraverso formule varie, a stimolare un vero interesse della comunità sui temi in oggetto in grado di coinvolgere anche i più pigri, i più stanchi , i più disincantati e i meno raggiungibili dagli strumenti di comunicazione e di informazione;
– la politica e la società civile lavorino, all’unisono, sull’individuo, fin dalle prime età scolastiche e dai primi momenti di socializzazione del bambino, a sviluppare sentimenti di appartenenza nel quadro di valori preziosi e irrepetibili della vita di comunità e di condivisione di obiettivi.
Dal canto suo, Valentina Montalto scrive di “creatività”. E’ un termine su cui occorre riflettere; la creatività nella cultura, le città creative, tutto poggia spesso su mode, anche se nuclei di attività veramente significativi e innovativi si stanno sviluppando, nel tentativo di superare le barriere delle piatte omologazioni. Si può essere creativi non solo negli ambiti della “cultura” (intesa, spesso, come qualcosa di immateriale immerso in un’aurea superiore) ma anche al tavolo di un Piano di Zona, toccando con mano i problemi quotidiani della gente e provando a dare risposte “originali”. Si può essere creativi non solo lavorando con le nuove tecnologie o essendo geni sregolati e fortunatamente dotati di specifici DNA, ma anche avendo l’intelligenza di cercare nel fondo dei territori e delle rispettive comunità i germi per l’immaginazione del futuro, là dove la creatività è qualcosa che va “coltivato”, alimentato, fatta crescere e diffuso in modo condiviso. E’ solo così che essa può produrre effetti duraturi, andando al di là della labilità di una cultura stereotipata.
Se la Cina, oggi, si accorge e sente la necessità di qualificare l’offerta nel campo culturale, sviluppando significativi processi di implementazione della creatività; se il nostro Paese, anche a fronte della crisi che non ci abbandonerà troppo presto, reclama un ritorno a essere “ Cittadini”, vuol dire, forse, che i tempi sono maturi perché creatività/innovazione e partecipazione possano coniugarsi in un processo unitario di democratizzazione, in grado di portare nuovo valore alla società civile, in cui i processi di empowerment non vengano repressi o costantemente banalizzati, in cui la cultura può diventare veicolo di democratizzazione.
Sulla creatività culturale, l’Europa, e noi italiani, possiamo certo insegnare qualcosa alla Cina, soprattutto rispetto ai modelli messi a punto – ad es. incentivi economici, rapporto di cooperazione tra pubblico e privato, ecc. -. Così come la Cina può insegnarci l’impegno nella forte capacità di produrre e di assorbire l’offerta. Allora un’adeguata e radicata qualificazione dell’offerta – attraverso l’articolazione dei modelli alle diverse scale e a fronte di una domanda più consapevole e in grado di “entrare” dall’interno nel processo produttivo della cultura – potrà svolgere un’efficace azione di promozione della diversità, del dialogo interculturale e della comprensione reciproca su cui basare quelle che potrebbero essere le ragioni di scambio tra i due paesi.
Esercizi di democrazia tra partecipazione e creatività
L’articolo di Laura Cataldi ed Enrico Gargiulo ci porta dentro i cosiddetti “processi partecipativi”, con lo svelarne alcuni aspetti più problematici sui quali spesso si “scorre”, consapevolmente, per non inficiare la presunta portata politica di alcune operazioni, o inconsapevolmente, perché, in modo banale per inerzia o per troppo enfasi “democratica”, non si pone mente alle difficoltà e ai limiti che tali processi incontrano per una loro piena esplicazione. Dal canto suo, Valentina Montalto scrive di “creatività”. E’ un termine su cui occorre riflettere; la creatività nella cultura, le città creative, tutto poggia spesso su mode, anche se nuclei di attività veramente significativi e innovativi si stanno sviluppando, nel tentativo di superare le barriere delle piatte omologazioni. Si può essere creativi non solo negli ambiti della “cultura” (intesa, spesso, come qualcosa di immateriale immerso in un’aurea superiore) ma anche al tavolo di un Piano di Zona, toccando con mano i problemi quotidiani della gente e provando a dare risposte “originali”.