“Earth, seen as a territory reserved for life, is a closed space, limited by the boundaries of life systems (the biosphere). Therefore, it is a garden” (Gilles Clément, 2004).
1. Introduzione
Il tema del design per il territorio è oramai prossimo a storicizzarsi attraverso processi consolidati di pratiche di progetto, e non è più solamente un tema di “stringente attualità”.
Tuttavia sembra mancare, a livello internazionale, una letteratura specifica in grado di restituire in maniera sistematica e puntuale, un’ampia fenomenologia di questi interventi e di perimetrare quindi le specificità del design rispetto ai contenuti generali del “progetto territoriale”.
Si moltiplicano invece progetti, ricerche, esperienze formative a vari livelli, che hanno come oggetto di sperimentazione di design i valori e le filiere che insistono su un contesto specifico o sul territorio come dimensione metodologica e che vanno ad indagare e proporre soluzioni per processi comunicativi, produttivi e di servizio localizzati. Una di queste è sicuramente l’International Summer School “Designing Connected Places”, promossa nel 2008 come uno dei progetti speciali di Torino 2008 World Design Capital e coordinata dai Politecnici di Milano e Torino, di cui daremo a seguire descrizione.
Parafrasando Gilles Clément, le trasformazioni territoriali vanno registrate e trasmesse, alle future generazioni, attraverso un progetto di “giardinaggio planetario”: “Nel corso della sua vita, l’essere- sia esso vegetale, animale, umano- (per proprio desiderio o per pressione esterna) si trasforma. Questa trasformazione, una volta registrata, viene trasmessa alle generazioni successive. Nel caso dell’uomo, animale cosciente, ciò dà vita a un progetto, un territorio mentale di speranza. Un giardino”(Clement, 2004).
L’occasione di raccontare l’esperienza di una scuola estiva sul design per lo sviluppo locale diventa quindi pretesto per un ulteriore inquadramento disciplinare, un’azione puntuale di decodifica e traduzione della conoscenza di design prodotta, per consentire di accumulare esperienza e di renderla distinguibile e replicabile.
Per raggiungere tale obiettivo è opportuno iniziare indagando brevemente, con approccio critico, la dimensione territoriale, sia come oggetto di studio, sia come ambito di progetto, affinché attraverso tale excursus (“un giro in giardino”, per dirla alla Gilles Clément, tra “giardinieri, amatori, dilettanti”, che non è cronologico quanto fenomenologico) sia possibile evidenziare alcuni degli elementi di riconoscibilità dell’operato dei designer rispetto ad architetti, pianificatori e paesaggisti.
2. Un “giro in giardino” con il “giardiniere planetario”
In questo saggio la dimensione territoriale è vista nella sua definizione di spazio antropico, in cui la significazione è istituita dall’uomo a partire dalla nascita della sua stanzialità. Come costrutto simbolico, la concezione di territorio si sostituisce a quella di terra, spazio indistinto e fluido, e a quella di paesaggio, rappresentazione mentale (Dematteis, 1985) e volto visibile (Turri, 2002) del territorio, definendo invece e quindi delimitando uno spazio antropologico dove si sviluppano, tramite relazioni, la cultura e l’identità di un gruppo sociale (Levy, 1995).
Una delle prime azioni consiste nell’esplicitare la differenza tra territorio come oggetto e territorio come contesto, sia di studio che di progetto, delle varie discipline citate. Le due categorie di oggetto e contesto si intrecciano quindi alle attività generando una molteplicità di approcci e modus operandi.
Nostra intenzione è dimostrare che per il design contemporaneo il territorio significa primariamente contesto di progetto di filiere transazionali, relazionali e produttive, distribuite in uno spazio ibrido, tra locale e globale, di merci e conoscenza.
2.1 Dallo studio al progetto
Per esplorare l’asse studio-progetto del territorio, non appaia lontano dal nostro fine fare partire l’excursus dall’approccio geografico, che ha costituito per millenni, attraverso diversi paradigmi (ad esempio di tipo esplorativo, positivista, storicista, comportamentale, culturale… cfr. Farinelli, 2003), ed è probabilmente ancora oggi, lo studio del territorio per antonomasia. Il geografo, “disegnatore della terra”, ne osserva e analizza la dimensione fisica, orografica, idrografica, geomorfologica etc., ma con un intento sostanzialmente “conoscitivo”, finalizzato alla sua osservazione e monitoraggio, e quindi sostanzialmente classificabile come studio sistematico delle caratteristiche della terra, per una comunità specialistica.
Un altro esperto che considera il territorio come oggetto del suo studio è il cartografo. Il “disegnatore di mappe” si avvale però già di una componente progettuale nel momento in cui progetta le retoriche della rappresentazione per organizzare la riduzione cartografica del mondo al di fuori dell’omologia, attraverso gli strumenti delle mappe. In questo caso la sua è dunque una azione interpretativa e di astrazione/ restituzione sintetico-segnico, nella quale il territorio diventa oggetto di progetto con finalità di tipo informativo e comunicativo per una comunità più ampia, seppur non generalista.
Anche il paesaggista, nel tracciare la descrizione del paesaggio come storicizzazione del mutamento (Turri, 2002), come farsi di una società in un dato territorio (Dematteis, 1985), opera una azione progettuale di primo livello, che è sostanzialmente una costruzione simbolica di una maniera di vedere e rappresentare mondi possibili, e quindi, in alcuni casi, una descrizione intenzionale del mondo che può diventare modello per la sua trasformazione. Da una parte quindi i paesaggisti “progettano il senso” del paesaggio dentro la storia di una comunità e ne fanno un’icona/visione rappresentativa della cultura di un luogo, come il concetto romantico del vedutismo e quello contemporaneo del sightseeing (MacCannel, 2005) e della cartolina, ovvero “scena spettacolare del turismo” (Lanzani, 2003); dall’altro mettono in evidenza quelle specificità dei luoghi che hanno in sé i germi di un cambiamento, ma che tuttavia non avviene in modo automatico, né progettabile, anzi sfugge al controllo umano per la sua naturale disposizione all’indecisione, all’incompiuto (Gilles Clement, 2005).
In questa progettualità immaginifica (nel senso di creazione di una immagine) si possono ascrivere anche tutte quelle esperienze e pratiche artistiche di land art (ad esempio Richard Long) che contribuiscono al “disegno del paesaggio”, ove l’azione performativa ha una componente progettuale che segue tuttavia le logiche proprie dell’integrazione nell’ambiente e non quelle della antropizzazione tecnologica di quest’ultimo.
Il progetto di modelli di trasformazione del territorio diventa invece concreto strumento operativo dei pianificatori territoriali e degli urbanisti, orientati verso progetti di sviluppo e rigenerazione, a varie scale (dalla città al territorio) e piani: da quello infrastrutturale materiale (tecnologie) e immateriale (policies), a quello della “produzione di località” in opposizione ai localismi, in uno sviluppo che sia locale nelle risorse e globale nelle relazioni ed auto-sostenibile nelle modalità (Carta, 2009). In questa ultima accezione il concetto “autostenibile” fa riferimento al modello di “sviluppo locale” che fa della ri-territorializzazione di attività e funzioni economiche coerenti con le qualità ambientali, culturali, identitarie del luogo, il suo presupposto (Magnaghi, 2000).
Anche per l’architetto il fare progettuale si misura sempre con il territorio come contesto d’azione e collocazione del suo intervento, seppur in modo puntuale, nel momento in cui il progetto dialoga con l’esistente, sia tale genius loci inteso come la stratificazione storica del costruito in cui si va a inserire il nuovo (in particolare il tema forse più emblematico della scuola italiana dell’intervento sull’esistente, in un territorio densamente e culturalmente antropizzato, ove il nuovo si relaziona sempre giocoforza col passato, per dialettica o per opposizione) o la dimensione della natura, come specificità di in un sito in cui operare in maniera rispettosa ma egualmente efficiente (capacità tutta ascrivibile alla scuola nordica, tutta tesa a integrare la relazione tra natura e architettura).
2.2 Tra oggetto e contesto
Sull’asse oggetto- contesto la distinzione si fa più sottile e sfumata man mano che ci si sposta verso il progetto. Mentre rispetto all’attività di studio è più probabile che il territorio sia l’oggetto da analizzare e conoscere (anche se esistono studi, come la geografia umana, che si contestualizzano nel territorio avendo come oggetto ad esempio sue comunità o gruppi culturali), nell’attività progettuale oggetto e contesto tendono a sovrapporsi. Da una parte, il territorio come oggetto di progetto è inteso come insieme di risorse, capitale territoriale e ambientale la cui identità è da preservare e valorizzare, dall’altra il territorio come contesto (e contemporaneamente vincolo) di progetto è la dimensione spaziale (o la scala) dove si localizza il progetto, il suo processo, i suoi risultati. Si vede facilmente come sia probabile che un’azione di progetto e valorizzazione delle risorse del territorio sia spesso anche diffusa nel territorio.
Le discriminanti diventano quindi la possibilità di specificare le tipologie di azione progettuale ma soprattutto la capacità di scomporre quegli elementi del territorio che sono oggetto di progetto, cioè, in altri termini, gli obiettivi stessi dell’azione progettuale, in termini d’infrastrutture e relazioni, piattaforme e filiere distribuite di produzione, distribuzione, fruizione.
I pianificatori (territoriali e urbanisti), integrando con il concetto di planning l’originario interesse di studio delle strutture urbane e delle città, mutuato dalla disciplina urbanistica, rivolgono l’attenzione alle dinamiche di trasformazione del territorio in maniera più ampia, occupandosi del governo dell’uso del suolo a scala vasta, con strumenti principalmente di natura concettuale, normativa e tecnica. Essi convergono verso un modello di territorio come contesto di vincoli e opportunità, entro cui collocare lo sviluppo, mediando tra visione etica (quello che si dovrebbe fare) e pragmatica (quello che si fà). L’obiettivo principale della loro azione progettuale è governare l’evoluzione (Carta, 2009), sostanzialmente attraverso il disegno e la generazione di policies e piani strategici, ossia infrastrutture e piattaforme immateriali di recommendations e best practices. Nell’attuazione dei piani, l’approccio territorialista adotta una visione più transcalare unendo ad essi operatività e strumenti di intervento: la “località” di un territorio diventa dimensione di sviluppo e generatrice di “economie”, e viene quindi considerata risorsa chiave, oggetto di politiche che mediano tra la conservazione dell’identità culturale e la promozione dell’innovazione, attraverso il progetto di scenari di sviluppo basati su cultura, comunicazione, cooperazione (Carta, 2008).
E i designer? Cosa fanno nel merito dello studio e del progetto del territorio?
In maniera intuitiva, osservando il panorama contemporaneo, la dimensione progettuale è sicuramente quella privilegiata rispetto allo studio dei fenomeni territoriali, e il tema di progetto è quello dello sviluppo locale e della valorizzazione delle risorse, in cui, come abbiamo visto, i concetti di territorio come oggetto e contesto tendono a fondersi in un insieme di vincoli/opportunità in cui interviene il progettista di sistema-prodotto (a livello di prodotto, servizio, comunicazione). Tuttavia sono necessarie alcune precisazioni:
1. innanzitutto, che la situazione attuale riflette un momento storico specifico ma è anche il risultato di una serie di tappe e passaggi a volte anche molto distanti tra loro, che tuttavia nel loro insieme sanno rendere la complessità e fecondità di questo avvicinamento tra design e territorio (e di cui quindi si darà a seguire breve sintesi);
2. che all’interno dei processi di innovazione è possibile distinguere tra design e metadesign, che vanno a specificare meglio il senso dell’asse studio-progetto del territorio da parte del design (o forse a complicarle con l’aggiunta della dimensione processuale, in studio-progetto-processo), definendo il metadesign come “il design di un processo di design”, focalizzato sulla ricerca e analisi e finalizzato alla comprensione di un problema con l’obiettivo di generare possibili soluzioni (in supporto quindi ai processi di concept generation, di modellazione, prototipazione e sviluppo, nonchè produzione, tipici del progetto vero e proprio, ma anche con una sua autonomia). In questa accezione quindi, per il territorio, il metadesign acquista una posizione rilevante, poichè è un processo creativo in grado di produrre un contesto (nel senso di renderlo affrontabile con le metodiche e le tecniche del design) più che un contenuto, essendo le specificità esistenti del territorio (i suoi valori e le relazioni che vi insistono) il vero contenuto.
3. che la distinzione tra territorio come scala di intervento e approccio situato per il design comincia a diventare labile e sfumata e meglio restituibile in quella sintesi di vincoli/opportunità che aprono la strada a una “condizione” di progetto nuova e originale (Maffei, Villari 2005), come prima accennato: “per il design contemporaneo il territorio significa primariamente contesto di progetto di filiere transazionali, relazionali e produttive, distribuite in uno spazio ibrido, tra locale e globale, di merci e conoscenza”.
3. Design del luogo, design nel luogo, design per il luogo
Nelle alterne vicende che sono partite dalla standardizzazione e a-localizzazione dei processi (il design industriale nasce per definizione come prodotto slegato da luogo e contesto perché replicabile su base industriale), per poi invece guardare con attenzione alle specificità territoriali dei sistemi-prodotto e il modo in cui i luoghi “entrano” negli oggetti persino attraverso immagini “dislocate” (Molotch parla a questo proposito di “paranoia locale come elemento di design”, 2009), fino alla più recente delocalizzazione della produzione, unita però alla tracciabilità dei contenuti immateriali (di conoscenza, innovazione e servizio) contenuti nei prodotti, la dimensione della territorializzazione delle pratiche progettuali è stata analizzata e identificata in termini di situatività, ossia, da una parte, attenzione ai contesti e, dall’altra, organizzazione distribuita delle filiere di produzione e distribuzione e consumo.
Storicamente sembra essere passati da una iniziale sostanziale indifferenza (affrontata solo in relazione a opportunità produttive ed economiche cogenti e/o contingenti) a una più matura visione di territorio come contesto dove localizzare il progetto, o meglio di stimolo e elemento di valore del progetto (design nel luogo) fino ad una recente prospettiva di territorio come oggetto di progetto (design del luogo), se ad esempio, si afferma che “l’oggetto del design è il capitale territoriale ” (Villari, 2005) sottolineando il valore e ruolo del territorio come risorsa da valorizzare, affermazione tuttavia spesso facile da associare, per semplificazione, a progetti di recupero dell’artigianato e della produzione tipica in termini di memoria e autenticità della tradizione culturale, oppure all’opposto, ad azione autoriale top-down di disegno dell’identità di un luogo, seppur con il merito di individuare un filo conduttore per l’immagine di un territorio in termini di visibilità e attrattività.
Al contrario si tratta più di dare spazio e legittimazione a progetti partecipati di scambio di conoscenza e creazione di comunità che hanno adottato il tema della sostenibilità a scala sociale e culturale non solo ambientale, ovvero azioni di interpretazione, negoziazione ed abilitazione di comportamenti e pratiche quotidiane di relazione in grado di connettere luoghi e persone, di far evolvere i bisogni, di modificare modelli e composizioni sociali. Si tratta quindi di design in grado di progettare connessioni per facilitare relazioni transazionali ed emozionali, assumendo la dimensione ibrida dello spazio locale-globale come metafora e modalità di nuovi life pattern nei campi della socialità, della salute, della mobilità, dell’alimentazione, dell’abbigliamento, del leisure e dei servizi di intrattenimento e turismo, ovvero tutte le dimensioni della quotidianità e della soft economy (Cianciullo, Realacci, 2005) che interagiscono e si distribuiscono nel territorio così come le loro tendenze, come potenziali ambiti di innovazione di design.
Sembra lontanissima l’associazione del termine “ambiente” al design degli anni 80 e 90 con una connotazione ecologica e sostenibile, in cui la progettabilità dell’ambiente e della natura è stata di volta in volta interpretata e declinata come progettazione ambientalmente consapevole, sviluppo di prodotti e materiali ecocompatibili e mimetici (Levi, Rognoli, Salvia, 2009), eco-design, Life Cycle Design (Manzini, Vezzoli 1998), etc. Eppure è riconoscibilissima quella stessa matrice che intreccia oggi territorio e sostenibilità nel “ripensare l’intero sistema sociale, produttivo e di consumo, privilegiando i servizi sui prodotti, rivalutando i beni comuni nei confronti dei beni individuali, trovando nuove forme di organizzazione delle comunità” (Marano, 2004) in un progetto per il territorio a 360°, che valorizzi le risorse ambientali così come la sua creatività diffusa. In questa accezione anche il progetto della identità di un territorio può diventare occasione di ascolto attivo, costruzione di una vision (“un mondo possibile”), gestione creativa di conflitti, attuazione di valori condivisi (Sclavi, 2002), nel momento in cui il design si interroga sul soggetto della rappresentazione come comunità in cerca di strutture (Scotini 2003), da rendere leva di progetto e non solo destinatario finale.
4. La scuola: comunità di apprendimento e comunità di progetto
Designing Connected Places è stata una scuola estiva internazionale di design organizzata all’interno dell’evento Torino 2008 World Design Capital con il coordinamento e la direzione scientifica dei Politecnici di Milano e Torino, che ha visto protagonisti 200 studenti, oltre 40 tra designer italiani, stranieri, ricercatori delle università di design italiane, riuniti in 7 comunità di pratica del progetto per progettare, proporre visioni e soluzioni su sette temi di stringente attualità e di specifica incidenza sul territorio piemontese.
Designing Connected Places ha rappresentato un’occasione di sperimentazione delle pratiche e processi di design per il territorio fin ora esposti e ha avuto l’ambizione di “fare scuola e comunità” di design per il territorio, rappresentando un momento emblematico di prima riflessione a livello internazionale di un pensiero condiviso sul design per lo sviluppo locale. La scuola estiva si è svolta in due fasi distinte per funzione, organizzazione e scansione temporale: metadesign e design. L’attività preliminare di metadesign, propedeutica allo svolgimento del workshop (momento di progettazione intensiva di due settimane, dal 13 al 29 luglio 2008), ha condotto alla costituzione di un background comune, necessario ad attivare il processo di apprendimento prima e di progettazione partecipata poi.
L’attività di metadesign è stata una fase di lavoro condivisa e articolata su più attori, che ha permesso di settare e orientare le future attività di concept generation sugli specifici temi, di valore contemporaneo e di rilevanza globale, in relazione alle singolarità che il territorio esprimeva rispetto ad essi: dunque da una parte il capitale territoriale, i bisogni del territorio, le identità e i soggetti, stakeholders e comunità di pratica locali, che la ricerca di metadesign rilevava e rendeva percepibili; dall’altra la cultura di progetto che i componenti di ciascuna comunità di progetto, raccoltasi attorno ai temi specifici, esprimeva attraverso un apporto di visioni teoriche e di casi studio.
Il workshop, “un’esperienza cosmopolita” per “un progetto territoriale” (Ezio Manzini, 2009), si è svolto in più azioni diacroniche: avvicinamento al capitale territoriale e vera e propria immersione nel contesto, visite sul campo e interlocuzioni dialogiche con gli stakeholder territoriali, astrazioni e connessioni di senso con altre esperienze dedotte da contesti progettuali e culturali extraterritoriali, elaborazione di scenari e traduzioni di essi in pattern comportamentali che sono stati poi concretizzati in progetti, di prodotto, di servizio, di messaggio, tangibili e fruibili.
Gli scenari, soluzioni, progetti proposti, che valgono per come qualificano natura e forma degli obiettivi a cui l’azione progettuale futura potrebbe tendere, rendendoli comprensibili e percepibili, abilitano una discussione strategica che in prospettiva può tradursi in azioni progettuali condivise e accettate.
Infatti, rispetto al “dispositivo di conversazione strategica” che la scuola ha istituito su specifiche criticità, le comunità, nell’ottica di connettere fortemente luoghi e persone, sono state direttamente coinvolte in qualità di primi “esperti” del problema e la loro conoscenza e possibilità di contribuire ai processi di sviluppo è stata ampia, proporzionalmente all’aumento delle opportunità che hanno avuto di esprimersi, mettersi in relazione e comunicare. In questo caso il design fornisce alle comunità coinvolte un contesto che funge da piattaforma di abilitazione, facilitazione, connessione, nei i processi di sviluppo del territorio.
Il designer ha dato “forma alla comunità di apprendimento attraverso i linguaggi, le competenze, le sue forme organizzative, ha abilitato la comunità a comunicare , immaginare, progettare e attuare forme inedite di sviluppo, attraverso un processo di natura partecipativa” (Maffei, Villari, 2005) dimostrando il suo ruolo di “context provider”, cioè di un generatore di opportunità oltre che di soluzioni e contenuti, in termini di sistema prodotto, servizi, comunicazione.
5. Un sistema di interventi e ambiti per lo sviluppo di life pattern sostenibili diffusi nel territorio
I concept sviluppati rappresentano un risultato unico ed irripetibile, come ogni processo dove il capitale umano è la risorsa in grado di fare la differenza, di equilibri sempre diversi nella collaborazione tra docenti del workshop, ricercatori, studenti e comunità di pratica locali. Essi vanno letti anche come elementi coordinati in una dimensione sistemica di intervento volta allo sviluppo sostenibile del territorio, prospettiva nella quale ciascuna proposta acquisisce un valore maggiore delle singolarità che rappresenta.
I progetti elaborati raccontano forme originali di indagine ed esplicitazione degli elementi chiave del territorio (di forza o di debolezza) su cui intervenire, peculiari dinamiche di coinvolgimento degli operatori territoriali (ad esempio di tipo amministrativo ed economico), e declinano in maniera coerente al contesto i linguaggi e sistemi di comunicazione propri del design per veicolare in maniera sintetica le premesse assunte e le proposte correlate.
I risultati specifici sono direttamente legati alle “forme” del progetto: essi “mettono in scena” e danno forma a nuove visioni e possibili scenari di servizio, fruizione, produzione, comunicazione del territorio e delle sue risorse che sono il risultato di un intervento di progettazione situato, tuttavia raccontano attitudini, fenomeni e comportamenti riconducibili ai temi “tradizionali” della contemporanea lifestyle research di design (dalla ricerca contestuale alla blue sky research, cfr. Celaschi, Deserti, 2007) orientata all’innovazione sostenibile e come tali abilitano un confronto e una riflessione che trascende i confini del contesto locale nel quale che essi sono stati generati.
Far rivivere la città
La città sicura è tale perché aperta e vissuta da tutti, servita e funzionale, comunicativa, rigenerata sopratutto nelle sue aree minori con azioni che, contrariamente a prospettive inibitorie e di controllo, sono positive. “Attraversamento”, “identità”, “visibilità”, e “socialità” sviluppano i nuovi scenari di fruizione dello spazio pubblico e lasciano emergere nuovi significati e nuovi modi far vivere gli “spazi residuali”. Questi ultimi, porzioni di suolo urbano diffuse e disperse nella città con problematiche di assenza d’identità, degrado, mancanza di funzioni vengono dotati di “presidi” di comunità e socialità, che li restituiscono attivamente alla città e ne accrescono il senso di appartenenza e la potenziale funzione positiva per la comunità.
La scoperta del cibo locale
Attorno al cibo locale, di qualità e rappresentativo del territorio, è necessario e possibile costruire un sistema connettivo che permetta lo scambio, l’accessibilità, la riconoscibilità e la comprensione dei fenomeni sociali, culturali ed economici che sostanziano produzioni e prodotti eccezionali e unici. Lo scambio di esperienze tra produttori e consumatori, consapevoli gli uni della propria identità e gli altri della possibilità a cui accedono, si realizzano in spazi, “esterni” al sistema della grande distribuzione organizzata, dove l’acquisto si traduca anche in esperienze di tipo culturale, didattico ed emozionale.
Mobilità collettiva sostenibile
La sfida per un futuro sostenibile sta tutta nel tradurre il trasporto pubblico in un sistema tutt’altro che mortificante e efficacemente alternativo al trasporto privato individuale. Nuovi servizi, nuove interfacce, nuove modalità e nuove formule di networking, definiscono e promuovono innovativi pattern comportamentali, basate sui concetti di condivisione, appartenenza, comunità.
Accresciute qualità, quantità e accessibilità del trasporto pubblico si coniugano con formule ad alto contenuto, emotivo e prestazionale, orientando la scelta degli utenti verso sistemi di mobilità collettiva.
Reti produttive localizzate a zero emissioni
L’applicazione del concetto di simbiosi ai processi produttivi insediati in uno specifico contesto territoriale, conduce alla definizione di strutture economico-produttive diffuse e sostenibili. Sulla base di un rinnovato modello culturale, in cui lo stesso concetto di risorsa venga ridefinito a favore di un inclusione degli attuali scarti delle filiera, diventano possibili interazioni reciproche tra i molti piccoli produttori locali. Essi potranno condividere il proprio sapere, le risorse di cui necessitano, i servizi che usano e scambiarsi gli output che producono come materia prima, garantendosi in questo modo forme di reciproco vantaggio e di autonomia energetica locale, facendo anche pervenire la comunità ad un efficace controllo dell’inquinamento del territorio.
Rappresentare per comprendere, comprendere per intervenire
Mappe e diagrammi possono essere lo strumento più efficace per gestire il complesso sistema di dati che emerge dall’analisi di uno spazio urbano. Esse si traducono in momenti di narrazione visiva che permettono una lettura partecipata del territorio, facendo emergere i fenomeni passati e quelli in corso, le peculiarità delle comunità che insistono su di esso, i problemi e le dotazioni significative, la percezione e i modi di partecipazione con cui è vissuto lo spazio stesso. “Storie”, immagini e parole, disegni e schemi, che descrivendo tendenze, cause e possibili prospettive risolutive, abilitano una discussione partecipata all’interno della comunità di progetto e orientano la costruzione di consenso preliminare ad un concreto intervento successivo.
Salute tra individualità e collettività
La salute, pur restando un fatto individuale e necessitando quindi delle più alte motivazioni e attenzioni personali, diventa, nella sua cronicità, elemento prioritario del governo del territorio. Il benessere va, certamente, perseguito individualmente attraverso l’adozione di stili di vita e comportamenti più consapevoli, tuttavia nella sua dimensione problematica e disabilitante coinvolge la società e il servizio sanitario in termini oltre che meramente economici anche di inclusione sociale e partecipazione attiva.
L’accessibilità alle cure si traduce in una prospettiva di mutua e attiva collaborazione tra cittadini e strutture sanitarie che, al di là di una auspicata capillare distribuzione sul territorio, risolva positivamente le possibili dicotomie malato-comunità, inclusione-esclusione, personale-collettivo.
6. Una metodologia di design situato per dare forma al futuro
Il progetto del rapporto tra comunità e territorio, tra naturale e artificiale, tra uomo ed ecosistema deve tendere ad abitare lo spazio, organizzarlo e renderlo luogo, a migliorarne la percezione per permanervi in sicurezza, a muoversi all’interno di esso, a fare uso delle risorse disponibili distribuendole a supporto della comunità insediata.
Nell’intervenire su questi processi con un orientamento verso la sostenibilità, il design (così come visto nei progetti dei workshop) deve spostare il baricentro dell’attenzione (letteralmente il centro di gravità del progetto!), verso una dimensione “umana”, che non è più intesa semplicemente come ordine di grandezza di riferimento, ma elemento capace di informare con sensibilità e responsabilità un sistema di connessioni che coinvolge luoghi, comunità, pratiche, processi, in una prospettiva temporale più consapevole, e di esprimere identità e peculiarità, in una società sempre più globalizzata, ma necessariamente inclusiva e democratica.
La dimensione locale del design praticato, come approccio progettuale, deve considerare il contesto come opportunità da mettere sinergicamente a sistema da una parte, e, dall’altra, supplendo alle carenze o emergenze presenti, supportare uno sviluppo “maiueutico” dei contesti locali, attraverso un’azione di progetto di nuovi valori e risorse (dotazioni e capacità) territoriali.
Il design inoltre può contribuire a sviluppare una “visione di futuro”. Nella transizione verso la sostenibilità, economica, sociale, ambientale, come qualsiasi processo di tipo culturale, l’apprendimento collettivo necessario a supportare il cambiamento, richiede tempi di sedimentazione lunghi e complessi, che hanno spesso durata molto più estesa rispetto a quelli di una comunità. L’azione di design lavora quindi sulla dimensione temporale del processo di costruzione di stili di vita più sostenibili agendo per fasi sovrapposte, legando azioni a breve termine, con risultato immediatamente percepibile, con progetti strategici di lunga durata. Si tratta di una vocazione prospettica del design capace sviluppare proposte concrete e immediatamente spendibili ma anche implementabili nel tempo.
7. Il design come disciplina della “bellezza” e del “linguaggio” (Bonsiepe, 1995).
Quello che il design per il territorio vuole tuttavia raccontare e promuovere nel suo insieme come scuola di pensiero, è una qualità estetica, un senso di bellezza e di gratificazione delle “forme del progetto”, che va oltre la retorica del “politically correct” di scelte rispettose per l’ambiente, il territorio e la qualità della vita.
In questo senso l’esperienza specifica della scuola ha raccolto e dato la sua personale, articolata ma coerente riposta, alla sfida che pone il design nel ruolo cruciale di “far vedere” positivamente le opportunità di un cambiamento verso la sostenibilità, non limitandosi alla superficialità di una immagine costruita per intercettare l’interesse degli utenti meno consapevoli, quanto conferendo reale qualità, bellezza, socialità e piacevolezza alle soluzioni proposte.
Gli scenari, le soluzioni e i progetti proposti concorrono dunque alla creazione di un clima favorevole al cambiamento e dando senso e credibilità ad un futuro altrimenti non immaginabile come vantaggioso e degno di dedizione e partecipazione. L’apprendimento che quest’esperienza ha reso possibile rappresenta “un processo intrinsecamente sociale”(Maffei, Villari, 2005), infatti le proposte nel loro insieme hanno un valore, per chi vi ha partecipato, che va oltre il progetto che sottendono: rappresentano un’esperienza didattica internazionale di design per lo sviluppo locale ma anche un’esperienza di crescita legata non tanto al “sapere” e “saper fare” progettuale, quanto al “saper essere” progettisti in uno scenario sociale multiculturale. Infatti l’incontro e il lavoro di gruppo tra diverse parti del mondo, ha impegnato tutti nell’esercizio della discussione con l’altro da sè, della negoziazione, della condivisione di un obiettivo tra partecipazione personale al suo raggiungimento, auto-organizzazione quotidiana, individualità e propria autonomia culturale.
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