Etica
Il 5 luglio 2011 si è tenuta a Roma presso la sede dell’AICCRE la conferenza stampa “Halal Itay, tra multiculturalismo e distretti territoriali”, per la presentazione della prima piattaforma informale di comunicazione dedicata alle aziende dell’agroalimentare italiano che producono con il metodo Halal. L’idea alla base dell’evento è stata quella di promuovere il nesso esistente tra la certificazione Halal e il valore aggiunto, culturale e di garanzia, che questo marchio darebbe non solo alle imprese, ma al territorio in cui operano e del quale sono rappresentative.
Halal in arabo indica ciò che è permesso secondo la dottrina islamica e abbraccia tutti gli aspetti della vita di un individuo dal modo di parlare ai comportamenti da assumere in pubblico, dall’alimentazione all’abbigliamento. Per ciò che concerne le abitudini alimentari, ad esempio, ad eccezione della carne di maiale che è vietata in quanto proveniente da un animale impuro, le restanti carni per poter essere consumate devono provenire da animali allevati, uccisi e macellati secondo certe regole.
La Halal International Authority (HIA) è riconosciuta come l’organismo internazionale per l’accreditamento, la garanzia e la tutela del mercato Halal. Tale certificazione è obbligatoria per il consumo di alimenti e altri prodotti da parte di cittadini di fede islamica e quindi lo è anche per le aziende che desiderino esportare in Stati a maggioranza musulmana. Le potenzialità di tale mercato sono immense: un giro d’affari di oltre tremila miliardi annui di fatturato nel mondo e un bacino di nuovi consumatori, solo in Italia, di circa 4 milioni di persone.
Ciò che affiora dall’osservazione delle attuali dinamiche che regolano gli scambi commerciali tra aziende appartenenti ad ambiti culturali molto diversi tra loro, è la mancanza di “un’etica” dell’economia che ha permesso di aprirsi alla collaborazione con tali realtà imprenditoriali ragionando unicamente sul “come” regolare una situazione già in atto, con lo scopo di conseguire un sicuro vantaggio a favore di tutti gli interlocutori. L’attenzione non si è soffermata, invece, sul “perché” o sulle concezioni etiche sottese, preferendo la semplice regolamentazione dei fattori legati alla gestione di un fenomeno diffuso ed esistente, con un’evidente perdita dal punto di vista dell’integrazione e del dialogo tra culture.
L’emersione di nuovi bisogni, una delle caratteristiche peculiari della domanda di beni e servizi degli ultimi anni, risulta essere strettamente connessa alla nascita di nuove fasce di consumatori, tra cui rientrano anche le popolazioni migranti. Le opportunità offerte da una quota di mercato potenzialmente molto vasta, ma ancora poco conosciuta e valorizzata, sono verosimilmente infinite e costituiscono una sponda importante anche per l’industria turistica e culturale, ampliando la gamma delle opzioni commerciali da immettere sul mercato attraverso lo sviluppo, ad esempio, di percorsi enogastronomici e turistici “certificati” e dedicati in maniera specifica ai consumatori di fede musulmana.
Bellezza
In quest’ottica un’altra esperienza interessante è l’iniziativa del FAI (Fondo per l’ambiente italiano) e degli “Amici del FAI denominata “Arte, un ponte tra culture”.
Il FAI è una fondazione privata che ha come fine la preservazione dei beni artistici d’Italia e che negli ultimi 3 anni ha promosso numerose visite guidate gratuite per gli stranieri, nelle loro lingue di origine.
La prima giornata di questo tipo è stata organizzata a Brescia nel 2008 e ha visto la partecipazione di circa 300 persone con guide non solo in inglese e francese ma anche in arabo, albanese, ucraino e cinese. L’anno successivo l’iniziativa è stata organizzata, oltre che a Brescia, anche a Milano, Palermo, Torino, Padova e Biella. Nel 2010 si è quindi diffusa in tutta Italia.
Uno degli elementi di difficoltà ed innovazione riscontrati è stata la necessità di operare una selezione lessicale e di concetti che tenesse conto di cosa è “ovvio” per gli italiani ma non per uno straniero. Doversi porre nella prospettiva di spiegare idee e termini per noi impliciti e acclarati è anche uno stimolo forte a riflettere sugli elementi costitutivi della nostra identità.
La migliore descrizione dell’iniziativa è contenuta in uno stralcio dell’intervista all’ideatrice della stessa, Giuseppina Conte Archetti, presidente dell’Associazione Amici del Fai: “L’idea di base è quella di considerare l’arte come ponte tra culture e, di conseguenza, di utilizzarla come strumento per avviare un dialogo interculturale… Tanti dei partecipanti alle nostre giornate ci hanno detto che pur vivendo da molti anni in Italia nessuno li ha mai introdotti alla conoscenza dei monumenti cittadini. Ci hanno ringraziato…“Abbiamo visto la città con altri occhi”, ci hanno detto in molti.”
Culture
Per poter chiedere a qualcuno di aprirsi alla propria cultura è necessario essere i primi a mostrarla nei suoi lati migliori e nella sua profondità storica per “presentarsi” davvero a chi si ha di fronte. Un fenomeno che nell’ultimo decennio ha conosciuto una rilevanza e una diffusione crescenti è la “letteratura migrante”, ossia quella corrente letteraria che indica i libri scritti in italiano da autori di origine straniera, quali Pap Khouma, Amara Lakhous, Mircea Btucovan o Igiaba Sceco. Queste opere risultano essere un mix di sensibilità e radici lontane con termini e linguaggio nostrani.
Molto spesso si è alzata una barriera tesa a distinguere questi libri dalla normale “letteratura italiana”, quasi a voler chiedere loro il “permesso di soggiorno” per avere accesso allo scaffale degli autori più chiaramente e tradizionalmente italiani. Pap Khouma, l’autore di “Io, venditore di elefanti” parla a tal proposito di “pigrizia mentale” e “pregiudizio”, sottolineando come la gente risulti spesso più “determinata a confermare le proprie certezze piuttosto che capire davvero chi ha davanti”. L’autore, raccontando vari episodi della sua vita drammatici e ironici ad un tempo, lascia trapelare come talvolta la soluzione sarebbe semplicemente una maggiore “curiosità positiva” di conoscere l’altro e una maggiore propensione all’ascolto.
Da tutto ciò traspare come il multi-culturalismo sia un fenomeno sociale che sta scuotendo le basi delle società contemporanee, dalle condizioni economiche alla sensazione di sicurezza sociale, dal senso identitario costruito nei secoli fino alle regole di reciproca convivenza.
Non esiste al momento attuale un modello pre-definito per affrontare le problematiche connesse all’incontro/scontro di culture diverse; a partire dalle scelte operate da molte comunità per far fronte a tale fenomeno, J. Habermas e C. Taylor hanno elaborato tre differenti approcci così schematizzabili:
– modello “liberale”: la politica rimane neutrale tra le concezioni etiche, limitandosi a garantire la dignità e i diritti fondamentali di tutti;
– modello “comunitarista” di Taylor: la politica si deve fondare sui differenti valori etici e culturali esistenti, legando alla “politica della dignità” un’articolata “politica della differenza”;
– modello di “mediazione” di Habermas: la soluzione è “procedurale” e interna ad una corretta pratica del sistema democratico. Il problema del diritto, infatti, non è l’assenza di una prospettiva “etica”, ma proprio il suo essere necessariamente prodotto dell’etica “particolare” della maggioranza.
E’ proprio da tale ultima considerazione che si può prendere spunto per riflettere sui casi presentati. Le norme talvolta regolano ed indirizzano i fenomeni nascenti, altre volte devono prendere spunto dalla realtà economica e sociale e, in particolare, da alcuni casi che siano tracce di un possibile futuro.
Nelle esperienze presentate, pur così diverse, è evidente la propositività delle scelte, il voler procedere in una direzione di incontro contrapponendosi all’inerzia di un confronto statico tra le rispettive posizioni teoriche. Nelle parole di Pap Khouma si evidenzia la necessità di questa apertura, testimoniata anche nelle scelte letterarie. Per il marchio HALAL è una scelta mossa da logiche economiche, di mercato e di profitto, per le iniziative del FAI la logica è culturale ed etica; ma entrambe le esperienze suggeriscono la possibilità di muoversi per primi, di scegliere di non ragionare secondo la propria etica e cultura ma secondo necessità ed opportunità comuni e condivise.