Il progetto di identità e la ri-significazione dei luoghi. Il patrimonio ebraico in Calabria

Il passaggio degli Ebrei in Calabria dal IV al XVI secolo d.C. lascia sul territorio elementi tangibili e tali da delineare un modello urbano, oggi di difficile interpretazione. L’apparente mancanza di rapporto tra esigenze culturali e tipologia rende determinante la ricerca di invarianti – valenze immateriali e forme ricorrenti – più che la corrispondenza forzata tra segno e valenza. L’elaborazione di una metodologia mirata alla loro interpretazione è fondamentale per innescare processi di valorizzazione attraverso il progetto di identità quale approccio più adeguato a ri-significare una dimensione abitativa unica, poco nota e manifesta.

Premessa
Nell’ultimo decennio si assiste a una volontà più decisa di reinterpretare il rapporto tra cultura europea e popolo ebraico, per troppo tempo ricondotto esclusivamente agli orrori della Shoah e di guidare, invece, la tendenza positiva verso la scoperta del patrimonio culturale ebraico, tangibile e intangibile: siti archeologici, antiche sinagoghe e cimiteri, bagni rituali, quartieri ebraici, monumenti e memoriali, archivi e biblioteche, tradizioni, musei specializzati per lo studio, la protezione e la promozione della vita ebraica e i manufatti religiosi e della vita quotidiana.

 

Organi quali il Consiglio d’Europa, già dal 2005 con il riconoscimento dell’Itinerario culturale del patrimonio ebraico tra i Grandi itinerari del Consiglio d’Europa e l’UCEI (Unione Comunità Ebraiche Italiane), sin dall’Intesa con lo Stato italiano del 1987, sono impegnati a verificare e rivendicare quante più testimonianze possibili relative al patrimonio ebraico e si interessano a renderle visibili e monitorate secondo azioni efficaci che individuano circuiti di fruizione già inseriti nel contesto di iniziative nazionali ed europee.

 

Di contro, nei piccoli centri calabresi, quali sono nella maggior parte dei casi quelli che ospitano gli antichi quartieri ebraici – le giudecche – si assiste al lento abbandono della memoria dei luoghi la cui identità vive ancora latente sotto i segni delle trasformazioni successive all’espulsione degli ebrei dall’Italia meridionale.

 

La predisposizione di iniziative quali il Progetto Meridione con cui l’UCEI ricerca e tenta di mappare le permanenze ancora visibili in Calabria e Sicilia o la Giornata Europea della Cultura Ebraica, sempre a cura dell’UCEI, che coinvolge già alcuni comuni calabresi non risolve, nei fatti, la necessità di un’organizzazione territoriale sistematica per il riconoscimento, la tutela e la valorizzazione del patrimonio superstite in Calabria, né l’urgenza di concepire una metodologia di indagine dei contesti locali. Offre un primo accenno di risposta, invece, alla totale o parziale mancanza di consapevolezza sociale e all’esigenza di fare del recupero dell’identità dei luoghi la forza delle realtà locali a fronte del rischio di omogeneizzazione e di appiattimento culturale.

 

Il fenomeno da arginare è qui proprio quello di un’identità ignorata, spesso, dagli stessi abitanti del quartiere ma anche da quegli studiosi e dalle istituzioni preposte al controllo del patrimonio ebraico che, pur tentando negli ultimi anni di ricostruire il passaggio del popolo ebraico in Calabria, vi riescono solo in parte, a volte, per l’impossibilità di reperire materiale verificato sulle permanenze o per la mancanza di un metodo di lettura efficace delle tracce sopravvissute.

 

In contesti dove funzioni e significati sono facilmente modificabili e in cui continui processi di trasformazione urbana hanno riconosciuto ai luoghi analizzati valori diversi dagli originari, il quartiere ebraico in quanto tale vive oggi in uno stato di quasi invisibilità.

 

Se consideriamo le giudecche come una porzione di spazio sociale un tempo dotato di funzioni e norme atte a organizzare l’interazione di elementi simbolici e a fornire agli abitanti una chiave interpretativa e allo stesso tempo constatiamo la perdita delle funzioni e quindi dell’interpretazione originaria, allora è intuibile che un processo di significazione è maggiormente efficace quanto più la società è in grado di assegnare un’identità indipendentemente dalla funzione che quella porzione di spazio svolgeva o svolge ancora. Se all’invisibilità del luogo dovuto alla perdita della capacità interpretativa dell’osservatore si associa anche l’assenza di una programmazione ampia del territorio a partire dagli organi di rango più elevato a quelli locali si intuisce il ruolo fondamentale che la ricerca disciplinare può avere in termini di elaborazione di un progetto di identità, sia a livello di sistema territoriale, sia a quello dei singoli contesti locali, per un’azione propositiva atta a stabilire una connessione coerente tra recupero di significati derivanti da risorse non più riproducibili, progetto di nuovi elementi e contesto, risorse esistenti e nuove forme di sviluppo sociale ed economico.

 

Un progetto di identità così concepito, rappresenta, nella realtà, l’unico mezzo per indurre le giudecche alla connessione ad altre reti locali che ugualmente qualificano e identificano il territorio e a quelle di rango più elevato nazionali e internazionali, con tutte le ricadute in termini di azioni di tutela e anche di sviluppo territoriale che ne deriverebbero.

 

Se il “preservare il patrimonio immateriale è importante quanto conservare e proteggere l’ambiente costruito”(1) e nell’ottica di una conservazione e valorizzazione sostenibile che sveli la cultura e la memoria dei luoghi e individui nel patrimonio ebraico, oltre che una risorsa non rinnovabile, anche un fattore di sviluppo a cui attribuire nuovi valori d’uso a partire e in coerenza con la funzione originaria, il progetto di identità può essere anche il mezzo più efficace per ottimizzare le opportunità di conoscenza e condurre a esiti coerenti con le azioni propositive attuabili.

 

Permanenze e tracce di un’identità urbana riconoscibile
La lunga permanenza degli ebrei in Calabria – dal IV al XVI sec. d.C. – ha lasciato elementi tangibili su città e territorio, delineando un modello urbano riconoscibile grazie alla ricorrenza di costanti insediative che, verificate nei contesti di riferimento, i quartieri ebraici – le giudecche – calabresi, portano alla definizione di un modello urbano ebraico.

 

La presenza di insediamenti ebraici in Italia meridionale fino all’espulsione dal Regno di Napoli decretata dall’editto del 1541 di Isabella d’Aragona e Ferdinando il Cattolico è una realtà ben documentata nonostante sia nettamente differenziata a seconda dei periodi storici.

 

È soprattutto nel periodo aragonese che la Calabria si connota come luogo di forte presenza ebraica, a testimonianza sia di una maggiore tolleranza rispetto ai secoli precedenti sia di un clima economico fiorente garantito proprio dalle attività gestite dagli ebrei. “Pochi sanno che in Calabria c’erano 102 paesi dove gli ebrei vivevano”(2); tante sono le giudecche nel XV secolo che inserite a pieno nella vita cittadina, assumono anch’esse quelle connotazioni ricorrenti che fissano nel tempo le permanenze ancora riconoscibili.

 

Gli ebrei calabresi non conosceranno mai la residenza coatta in quartieri appositamente concepiti ma anche nelle realtà in cui beneficiano di un’alta integrazione sociale scelgono comunque di vivere in zone isolate, che solo grazie all’espansione del centro storico e quindi per ragioni indipendenti dalla volontà della comunità ebraica, possono mutarsi in periferiche o, al contrario, in aree interne al centro abitato.

 

Gli Ebrei si spostarono in aree culturali separate non già a causa di pressioni esterne ma per deliberato proposito. I fattori che favorivano la fondazione da parte degli Ebrei di comunità localmente separate debbono essere cercati nel carattere delle tradizioni ebraiche, nelle abitudini e nei costumi non soltanto degli stessi Ebrei ma anche degli abitanti delle città medievali in generale. Agli Ebrei la comunità geograficamente separata e socialmente isolata sembrava offrire le condizioni migliori per seguire i loro precetti religiosi, per preparare i cibi in conformità al rituale religioso stabilito, per seguire le loro leggi dietetiche, per frequentare la sinagoga tre volte al giorno per le preghiere, per partecipare alle numerose funzioni di vita comunitaria che il dovere religioso imponeva a ogni membro della comunità”(3).

 

In seguito all’editto di espulsione, il popolo ebraico, dopo averla abitata sin dai romani, abbandona la Calabria e scompare nel giro di quattro mesi lasciando tracce nella storia, nella tradizione, tracce fisiche sul territorio che il tempo ha lentamente coperto e alterato, ma non cancellato del tutto. In alcuni casi la città attuale ha solo celato il volto delle giudecche, delle sinagoghe e degli altri edifici essenziali alla vita del quartiere.

 

Se la presenza degli ebrei in Calabria è ampiamente testimoniata da fonti documentarie e d’archivio, da studi a diversa connotazione – storica, letteraria economica – si è poco scritto sulle giudecche, sul loro impianto e sulle architetture che vi sorgono.

 

È pur vero che cinquecento anni di pausa hanno alterato quei segni la cui ricerca, oggi, per collocare la giudecca e ricostruirne la struttura, richiede uno studio paziente e che si basi su un approccio non consueto, come non consuete – o almeno alle quali non siamo abituati – sono le regole che determinano questi insediamenti. “Qui di tante umili storie, vissute spesso nel più travagliato quotidiano ma anche nella più caparbia fedeltà al proprio credo, non rimane altro che un toponimo, per molti ormai incomprensibile”(4).

 

La rilettura della tradizione insediativa ebraica, dalla quale si deduce un legame profondo e indissolubile con il passato, conduce alla constatazione delle grandi potenzialità di un’organizzazione flessibile del territorio e la ricchezza di un “habitat dinamico, di un approccio progettuale fondato sulle esigenze d’uso più che su regole compositive”(5), qual è quello dei quartieri ebraici.

 

Considerando, tuttavia, proprio questo carattere non stanziale e adeguabile a qualsiasi contesto, rappresentato dalle comunità diffuse a livello globale, si potrebbe avanzare l’ipotesi che il popolo ebraico non abbia mai costruito e quindi lasciato, nonostante le permanenze riconoscibili, un patrimonio, nel senso tradizionale del termine.

 

Se per patrimonio culturale si intende, però, l’espressione di una civiltà e della sua evoluzione – che giustifica di conseguenza una concezione di tutela e salvaguardia – considerata essenzialmente come l’insieme degli avvenimenti che hanno segnato l’evoluzione di una società e come strumenti per la costruzione di uno sviluppo culturalmente fondato, non si può omettere, allora, che la cultura ebraica “può vantare una presenza bimillenaria ed ininterrotta nella penisola italica e sulle sue isole, ultimo terminale oggi di una tradizione che secondo lo storico Arnaldo Momigliano rappresenta una componente della cultura italiana fin dalle origini del cristianesimo e prima ancora”(6).

 

E poco peso ha, in questo senso, la non aderenza ai modelli dominanti, perché, in Calabria, anche nell’utilizzo di spazi e a volte costruzioni preesistenti, la cultura ebraica fa si che questa sorta di nomadismo venga reinterpretato in maniera originale rispetto al contesto, ma secondo un modello urbano, quello ebraico, sempre uguale a se stesso. Anche nei momenti di maggiore emarginazione, infatti, questa minoranza non ha mai cessato di cercare nel rapporto ripetitivo con il territorio, la forza della propria resistenza.

 

Per potersi insediare, infatti, la comunità ebraica ha bisogno di eseguire delle costanti: accostarsi a un centro di potere – temporale e spirituale che sia – che ne tuteli la sopravvivenza, a cui offrire in cambio ricchezza, non solo economica, ma tecnica, scientifica e culturale. Ma soprattutto collocare i nodi funzionali di un aggregato organico che le permetta di perseguire la propria identità nei termini che le sono peculiari e legati alla dimensione spaziale: un corso d’acqua dolce o una sorgente, un luogo dove pregare attorno al quale raccogliere le case e le botteghe, un luogo lontano per seppellire i morti ed espletare i lavori ritenuti impuri.

 

Se ne deduce, quindi, che le giudecche così concepite hanno valore di patrimonio solo se viste nella loro complessità, quasi ad attribuire proprio al loro essere aggregato di nodi funzionali che non conoscono gerarchie e quindi tutti egualmente irrinunciabili, il valore di unico monumento, portatore di memoria e identità. La funzione memoriale che le giudecche possono assolvere riguarda prioritariamente la conservazione dell’identità materiale il cui valore si riferisce, tuttavia, alla memoria sopravvissuta alle trasformazioni avvenute e in atto.

 

E infatti, di fronte alla nozione di stampo prettamente occidentale di monumento storico, il patrimonio urbano ebraico si fonda,?al contrario, su quelle invarianti ai processi di trasformazione, desunte dall’interpretazione degli elementi del modello, tipiche del funzionalismo insediativo ebraico, che, proprio perché ricorrenti oltre che immutate nel tempo, possono considerarsi non più solo percezioni, ma elementi necessari alla configurazione della comunità stessa.

 

Nel caso delle giudecche calabresi, quindi, tali invarianti, pur senza le pretese dimensionali ed estetiche dei monumenti propriamente detti e anche se contestualizzate in una dimensione che vive dinamiche differenti da quelle che l’hanno generata costituiscono, proprio perché manifestazione fisica di una modalità unica dell’occupare un luogo, il concetto stesso di patrimonio urbano ebraico.

 

D’altronde quando si discute della nozione di patrimonio, anche nel senso generale del termine e si intende un insieme di oggetti appartenenti a una parte rappresentativa della storia, che in quanto tali devono essere preservarti e conservarti, si mira ad assegnare loro un significato che va al di là del loro valore d’uso e della loro funzionalità.

 

È convinzione diffusa, quindi, che su un’esperienza spaziale per così dire dinamica e non stabile, il popolo ebraico ha effettivamente saputo costruire un patrimonio di idee ed esperienze che non rappresenta solo l’espressione di una civiltà in un determinato periodo, ma la testimonianza di una identità che ha la sua forza nel perpetrarsi uguale nello svolgersi della storia passata, presente e probabilmente, futura.

 

Il progetto d’identità per la ri-significazione dei luoghi
Elaborare una metodologia di intervento, anche se nei riguardi di insediamenti che, come si è visto, si comportano secondo una matrice costante è comunque un’operazione difficoltosa. Tuttavia nei centri minori, quali sono nella maggior parte dei casi quelli che in Calabria ospitano le giudecche, gli impianti sono stati meno soggetti a modificazioni insensate del tessuto urbano e mantengono ancora un rapporto di proporzione tra le parti e di dialogo tra i diversi quartieri che corrispondono, a grandi linee, alle fasi storiche di evoluzione del centro, almeno a una delle quali appartiene il quartiere ebraico.

 

Qui il tempo ha mantenuto i tessuti omogenei nella complessità delle stratificazioni storiche e le emergenze riconoscibili; ne consegue che leggere e interpretare i segni della storia e magari tradurli in atti progettuali sia in questi contesti più semplice e quanto mai dovuto.?Tanto più che le odierne politiche urbane, infatti, sono vicine al tema della riscoperta dell’identità dei luoghi, se considerata come componente di azioni più ampie – e che investono i settori economico, sociale etc. – che concorrano alla rivitalizzazione dei piccoli centri.

 

Come tutti i brani del centro storico, anche la giudecca subisce le dinamiche della vita moderna né sarebbe pensabile o auspicabile che il centro storico non si adeguasse al nuovo rapporto con una città in continuo mutamento. Ma com’è normale che avvenga in centri in cui la crescita demografica è quasi nulla e dove spesso si assiste a fenomeni di abbandono, i quartieri ebraici non hanno subito grosse trasformazioni se non quelle dettate dal traffico veicolare o dal cambio di destinazione a quartieri esclusivamente residenziali.

 

Il fenomeno da arginare, piuttosto, è quello dell’abbandono della memoria di questi luoghi la cui identità vive latente sotto i segni delle stratificazioni storiche successive al momento in cui gli ebrei lasciano l’Italia meridionale; identità ignorata, spesso, dagli abitanti dello stesso quartiere ma anche da quegli studiosi e dalle istituzioni ebraiche che negli ultimi anni tentano di ricostruire la storia ebraica in Calabria riuscendovi solo in parte, a volte, per la mancanza di conoscenza del territorio o per l’impossibilità di reperire materiale verificato sulle permanenze o per la carenza di uno specifico metodo di lettura delle tracce sopravvissute.

 

I quartieri ebraici, invece, sono in alcuni casi, non solo riconoscibili, ma parti spesso insostituibili del centro storico, se valutati nelle loro peculiarità identitarie. E al pari del centro storico, secondo quei dettami diventati punti fermi nella teoria della conservazione, la giudecca andrebbe considerata nel suo insieme e non nei suoi monumenti(7).

 

Ma la salvaguardia della giudecca come congelamento dei valori storici che le appartengono non è la strategia più adeguata a queste realtà perché, se da una parte i valori che detiene non lo sono nel senso classico del termine, dall’altra è comunque un tessuto vivente, che potrebbe subire nuove trasformazioni.

 

La giudecca andrebbe piuttosto considerata un unico organismo che non vive più i significati originari ma ne porta i segni che, interpretati secondo un’azione progettuale adeguata, potrebbero rivelare l’identità celata e rivitalizzare il tessuto, anche nelle dinamiche contemporanee. Perché, come si è detto, la giudecca non ha monumenti nel senso classico del termine, né una gerarchia degli spazi o dei nodi funzionali; il suo valore è nel suo insieme, nell’essere sempre uguale a se stessa perché fondata su una rete di significati efficaci in ogni luogo, ma inutili se considerati per parti, perché concepiti allo scopo di perpetrare la ricerca di una memoria.

 

E proprio perché non attinenti ai canoni classici del tessuto storico, le giudecche potrebbero essere il luogo per una sperimentazione progettuale, nel rispetto della dualità identità/trasformazione. La giudecca potrebbe diventare l’identità altra rispetto a quella del centro storico che rappresenta, da sempre, soprattutto nei piccoli centri quali quelli cui si riferisce, l’anima dell’aggregato urbano. Quello delle giudecche appare un campo stimolante per cercare i segni della memoria storica e con una metodologia appositamente concepita, tradurli in un progetto coerente, con il vantaggio della dimensione limitata del campo d’azione che può garantirne più facilmente il controllo della qualità.

 

Sicuramente il primo nesso da stabilire è quello tra recupero dei significati, il progetto di nuovi elementi e il contesto, modificato rispetto all’originario.

 

L’atto del recuperare non si riferisce, qui, al contesto puramente fisico, ma piuttosto al piano dei valori intangibili cui seguono, certamente, delle azioni reali; e il progetto è sicuramente da intendersi come il legante con il passato e il pretesto per un futuro di cambiamento.

 

E per un campo d’intervento come la giudecca la formula più congrua, nell’ottica di un recupero interpretativo che ne sveli la cultura e la memoria dei luoghi, appare proprio quella del progetto d’identità, concepito essenzialmente su due azioni: preservare e valorizzare.

 

La prima – è facilmente intuibile – si riferisce a una traccia già esistente, risultato, spesso, di un lungo processo evolutivo; la seconda, invece, alle possibilità che quella traccia cessi di essere latente, ritorni a essere visibile e comprensibile e concorra, nella migliore delle ipotesi, a processi di sviluppo del contesto a cui appartiene, nel tempo attuale. Le tracce cui ci si riferisce, perché possano essere oggetto delle due azioni, devono appartenere a un’eredità storica consolidata, sia in termini materiali sia immateriali e, soprattutto, vanno prima rintracciate e decodificate.

 

Il contesto sul quale si elabora un progetto di identità è, quindi, quello della stratificazione storica, l’obiettivo è quello della riscoperta e della ri-significazione, il mezzo è il metodo interpretativo. Se si pensa alla città come a una stratificazione complessa, è intuibile – se non immediato – il quadro degli infiniti segni, che sovrapposti, accostati gli uni agli altri, nascosti o dominanti compongono la trama del patrimonio culturale; è meno chiaro, invece, la loro organizzazione per strati, siano essi compiuti, non ultimati, non più riconoscibili se non allo sguardo del solo esperto o ignorati dalle nuove dinamiche dell’abitare contemporaneo.

 

Se ne deduce che l’indagine storica, oltre che necessaria, è l’unico mezzo efficace alla ridefinizione degli strati; di conseguenza, il metodo interpretativo, pur nelle numerose fasi di trasformazione cui è soggetta la città, se ben concepito, è in grado di cogliere quei caratteri, fisici o mentali, che nel loro permanere in modo costante, hanno concorso al riconoscimento di una appartenenza e di una immagine di identità urbana.

 

Riconosciuti quei segni dissonanti che alterano gli equilibri raggiunti in seguito a lunghi processi evolutivi, ma rintracciate, soprattutto, quelle costanti presenti nei diversi processi di trasformazione, allora questi segni definiscono il patrimonio di specificità su cui fondare un progetto che sia in grado di raccontarne il processo formativo, di prefigurarne un destino compatibile con lo sviluppo e la cui realizzazione sia fonte di identità collettiva. Restituire a un luogo un’identità non esaurisce lo scopo se gli elementi identitari rintracciati non vengono riletti anche “nei termini prospettivi di una tensione verso un progetto di trasformazione, capace di fondare le sue scelte su un principio di conservazione degli elementi storici e dei valori stratificati”(8) e la memoria collettiva non diventa generatrice di opportunità e, accanto al compito della conservazione di risorse non più generabili, non assolve anche quello della proposizione.

 

Come in ogni progetto di identità e ri-significazione è necessario evidenziare l’esistenza di fattori che presentano forti margini di imprevedibilità quali, per esempio, la mutabilità a cui sono soggette le risorse intangibili e quindi i significati assegnati ai luoghi nel tempo da chi conduce il progetto e chi lo recepisce.

 

Non è valutabile, poi, la capacità degli organi preposti allo svolgimento di un progetto di identità che può apparire efficace oggi, a provvedere alla sua sopravvivenza e flessibilità nel futuro soprattutto se si insiste ad adottare il mercato come cartina di tornasole della fenomenologia culturale in processi che dimostrano la propria efficacia solo a lunga scadenza.

 

Non è prevedibile, soprattutto, il grado di sedimentazione e mantenimento di un’identità sociale che processi formativi e informativi possono inizialmente creare nella popolazione. E anche l’attività didattica che dovrebbe accompagnare la realizzazione di programmi di questo tipo rappresenta una strategia i cui risultati sono visibili solo a lungo termine.

 

Il successo o il fallimento di una strategia culturale di rigenerazione urbana, quindi, per quanto ben concepita, dipende sempre dalla negoziazione di significato che coinvolge i potenziali consumatori del contesto specifico e dal grado di coinvolgimento dei portatori di interesse che si trovano sul territorio, secondo un risultato che non sarà comunque prevedibile e stabile nel tempo bensì sempre e soltanto l’esito mutevole di un processo continuamente aperto.

 

Il progetto di identità, quindi, può diventare il volano per lo sviluppo locale solo alla precisa condizione che vi sia coerenza tra l’immagine interna – quella percepita dalla popolazione locale – e quella esterna legata alla capacità del sistema di regia del territorio – pubbliche amministrazioni, agenzie per lo sviluppo ecc. – di mantenere in vita un circolo virtuoso di relazioni tra i diversi attori che intervengono nel processo di ri-significazione del patrimonio e di recepire i processi di diffusione in modo fertile piuttosto che creare barriere difensive rendendo statico il patrimonio culturale e annullandone qualsiasi connotazione progressiva.

 

Non è da trascurarsi, infine, l’abitudine radicata alle pratiche settoriali che fa si che anche i programmi intesi a costruire reti e sistemi appaiano ai destinatari solo come un mero strumento di distribuzione di risorse. Atteggiamento che impedisce l’emergere di modelli di comportamento coerenti e progetti funzionali alle attività di sistema e naturalmente, il raggiungimento di risultati in linea con gli obiettivi previsti, oltre che, nella maggior parte dei casi, la distruzione di risorse non più generabili.

 

Note
(1) Documento finale?della XVII Assemblea generale dell’ICOMOS – 28 novembre 2011 II parte, lettera d.
(2) Riccardo Calimani, presidente del MEIS – Museo nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah, in Luci a Ferrara (museo dell’ebraismo italiano), video tratto da Sorgente di Vita, Rubrica di vita e di cultura ebraica a cura dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, puntata dell’01.01.12, 4’00’’, RAI.TV.
(3) L. Wirth, Il ghetto, Edizioni Di Comunità, Milano 1968, p. 23.
(4) C. Colafemmina, Gli ebrei nel Mezzogiorno d’Italia, in AA.VV., Architettura judaica in Italia: ebraismo, sito, memoria dei luoghi, Flaccovio Editore, Palermo 1994, p. 253.
(5) L. Zevi, Conservazione dell’avvenire, Quodlibet, Macerata 2011, p. 10.
(6) T. Zevi, prefazione al volume ?A. Sarcedoti, L. Fiorentino, Guida all’Italia ebraica, Marietti, Genova 1986, p. 9.
(7) P.G. Cervellati, La città bella, Società editrice il Mulino, Bologna 1991, p. 40.
(8) M. Carta, Next City: culture city, Casa editrice Meltemi, Roma 2004, p. 24.

 

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Testi Inediti
L. Strati, La città murata. Insediamenti e architetture medievali in Calabria nei secoli IX-XV. Architettura Judaica in Calabria, Borsa di studio Regionale, area disciplinare CERERE, a.a. 2002/2003, responsabile scientifico R.M. Cagliostro