1. Introduzione
La cultura è un’industria che sta assumendo un peso crescente nelle economie contemporanee. Negli ultimi anni, numerosi studiosi (Benhamou, 2004; Sacco, Pedrini, 2003; Sacco, Tavano Blessi, 2005; Santagata, 2000, 2001, 2007; Throsby, 2001) hanno messo in evidenza come la cultura sia importante non solamente in quanto costituisce un fondamentale valore di civiltà, ma anche perché rappresenta, a tutti gli effetti, una risorsa fondamentale per una crescita economica sostenibile.
La sempre maggiore attenzione rivolta al mondo della cultura fa leva su studi e ricerche che – in particolare nell’ultimo periodo – hanno cominciato a delineare un profilo più preciso del comparto culturale. Capire quale sia la sua consistenza in termini di occupati, volume d’affari generato e contributo al Pil – ad esempio – è un elemento utile al fine di individuarne il peso rispetto agli altri settori dell’economia e quindi valutarne la rilevanza in termini strategici.
In questo articolo cercheremo di analizzare le dimensioni economiche dell’industria culturale, sia in quanto ambito di produzione diretta di valore economico, sia in quanto produzione di esternalità che entrano nelle funzioni di produzione di altre industrie, in particolare di quelle a più elevato contenuto di conoscenza e creatività. Per fare ciò si farà ampio ricorso ad indagini di livello nazionale ed internazionale: fornire un quadro sintetico del valore economico della cultura in Italia e all’estero è la base per poterne valutare le potenzialità in prospettiva futura.
2. Economia e cultura: da mondi distinti a binomio vincente
Cultura ed economia sono stati a lungo considerati due mondi distinti. Da un lato, infatti, la cultura è l’ambito delle forme espressive, della produzione simbolica ed è manifestazione di valori collettivi; dall’altro l’economia è orientata all’agire strumentale, alla produzione materiale ed è principalmente guidata dall’interesse individuale.
Inoltre, se il valore economico riguarda l’utilità, il prezzo e l’importanza che gli individui o i mercati attribuiscono alle merci, il valore culturale “non può essere calcolato secondo un’unità comune ed è pluridimensionale, mutevole e probabilmente comprende alcune componenti esprimibili soltanto in termini non quantitativi” (Throsby, 2001).
L’idea che cultura ed economia appartengano a mondi diversi è confermata anche dalla convinzione che il “bene culturale”, in quanto tale, non possa che rimanere estraneo ai meccanismi di mercato. Pur non avendo caratteristiche di “bene pubblico” puro – esistono, infatti, condizioni di parziale rivalità nel consumo culturale e, soprattutto, è possibile creare vincoli di escludibilità – la cultura è stata, tuttavia, a lungo confinata nella categoria dei “beni meritori”.
Il rafforzamento delle relazioni fra economia e cultura è dovuto a più fattori. Il primo è la crescita del contenuto di conoscenza nella produzione, le cui manifestazioni più evidenti sono rappresentate dallo sviluppo delle attività innovative e di ricerca, dalla dominanza dei servizi e dal rilievo riconosciuto alle componenti immateriali e al valore simbolico dei beni industriali (Rullani, 2004). Va da sé che tale processo si accompagna alla crescita del ruolo del capitale umano e al correlato innalzamento dei livelli di istruzione della popolazione, che influenzano chiaramente la domanda di cultura.
Un secondo fattore è rappresentato dall’effetto reddito che deriva dalla crescita di produttività dei beni industriali e, di conseguenza, dalla riduzione dei loro prezzi relativi. Questa riduzione è il risultato sia dei processi di innovazione tecnologica che hanno caratterizzato lo sviluppo industriale, sia della crescente apertura internazionale delle economie moderne. Gli effetti di tali processi generano benefici anche sulla domanda dei beni e servizi non industriali, in quanto l’aumento del reddito reale viene riallocato in un paniere di consumo più ampio, che comprende anche beni che non hanno manifestato lo stesso incremento di produttività.
Una terza ragione che spiega il crescente ruolo della cultura nell’economia contemporanea è la sua natura idiosincratica. In quanto elemento costitutivo di una data comunità e ambito di produzione di specifici significati identitari, la domanda di cultura si rafforza come conseguenza della globalizzazione. Più di qualsiasi altro processo di trasformazione industriale, il processo di produzione culturale è, per sua natura, espressione di un contesto storico e geografico specifico. Ma mentre lo sviluppo tecnologico e la riduzione dei costi di transazione internazionale stanno accrescendo i potenziali di de-localizzazione delle attività manifatturiere, per la cultura vale invece il contrario. L’attività culturale si collega, infatti, alle fasi creative della produzione industriale, cioè ai processi generativi di nuova conoscenza che si manifestano nelle attività di ricerca, di design, nella comunicazione e nell’interazione con gli utilizzatori. In tali funzioni, che risultano oggi decisive per governare i processi dell’innovazione, le economie di localizzazione continuano a svolgere un ruolo fondamentale (Audretsch et al., 2006; Asheim, Gertler, 2005; Corò, Micelli, 2006).
3. Il valore economico della cultura in Europa
In termini statistici il settore culturale comprende, in base alle classificazioni internazionali, un insieme abbastanza composito di attività. Prendiamo come riferimento uno studio svolto da KEA European Affairs per la Commissione Europea (2006) e noto anche come “Rapporto Jàn Figel”, dal nome del Commissario UE all’istruzione, formazione, cultura e multilinguismo. Nello studio KEA si prendono in esame due blocchi di attività: il primo è il vero e proprio nucleo delle attività culturali ed è composto da visual arts, performing arts, heritage; il secondo è costituito dalle cultural industries. Nel primo gruppo si trovano le biblioteche, gli archivi, i musei, le mostre, il teatro, la danza, il circo, la scultura, la pittura e la fotografia; nel secondo, invece, rientrano le produzioni cinematografiche, video e musicali, le produzioni radio-televisive e dello spettacolo, le agenzie di stampa, l’editoria e la produzione di video-giochi. Tutte queste attività compongono, secondo lo studio citato, il settore culturale.
Il settore creativo (creative industries), invece, comprende un insieme di funzioni collegate in forme più o meno dirette alla produzione, come il design, l’architettura, la pubblicità, oltre ad un composito insieme di attività connesse con l’industria dell’informazione e della comunicazione.
Lo studio KEA ha calcolato che nel 2003 il settore culturale, insieme a quello creativo, ha generato un giro d’affari, nell’insieme dell’UE 25, di ben 636 miliardi di euro, con un contributo al Pil europeo pari al 6,4%. Per un confronto possiamo ricordare che si tratta di un dato superiore al giro d’affari generato dall’industria ICT e più che doppio rispetto all’industria dell’automobile.
In termini di valore aggiunto rispetto al Pil europeo, la rilevanza del settore culturale e creativo emerge ancora di più: se il valore aggiunto del settore delle costruzioni rappresenta il 2,1% del Pil, quello del comparto alimentare l’1,9%, la chimica e la plastica insieme il 2,3%, il tessile appena lo 0,5%, il valore aggiunto della cultura nel 2003 ha sfiorato i 260 miliardi di euro, vale a dire il 2,6% del Pil europeo.
Oltre ai livelli raggiunti dal settore culturale e creativo è importante sottolineare il suo dinamismo. Si può infatti osservare che la crescita di tale settore è stata significativamente superiore rispetto alla media dell’economia europea: nel quinquennio 1999-2003 l’incremento del volume d’affari delle attività collegate alla cultura è stato del 5,4% medio annuo, un valore doppio rispetto alla crescita del Pil europeo nello stesso periodo, confermando così l’importanza per lo sviluppo che questo settore oggi riveste in Europa.
Come abbiamo già accennato, una delle ragioni che spiegano la crescita del ruolo della cultura nelle economie avanzate è il suo radicamento ai contesti locali. Se, infatti, la riorganizzazione internazionale della produzione industriale è spinta dalla ricerca di minimizzare il costo unitario del lavoro, lo sviluppo delle attività culturali tende invece a rimanere legato ai singoli territori. Questo può essere giustificato sia per l’impossibilità materiale di spostare il “patrimonio culturale” (basti pensare ai musei e ai monumenti), sia per l’impossibilità di riprodurre in un altro luogo la combinazione di fattori che hanno reso possibile la realizzazione di quel particolare prodotto culturale, sia esso un monumento, un evento teatrale o musicale, un’opera artistica o architettonica, un’idea creativa di design (Dynamo 2007).
Le considerazioni fin qui svolte assumono un rilievo ulteriore guardando ai dati sull’occupazione. Nel Rapporto sulle statistiche culturali di Eurostat (2007), emerge che nell’UE27 nel 2005 lavoravano nel settore culturale quasi 5 milioni di persone, pari al 2,4% dell’occupazione totale (cfr. fig. 1). Si tratta di un valore superiore a quello di industrie molto importanti, come l’intero settore del tessile-abbigliamento.
Eurostat opera una distinzione importante fra due categorie di occupazione culturale: da un lato vengono considerate le cultural occupations, riferite a professioni che esprimono direttamente una dimensione culturale, come nel caso degli scrittori, dei pittori, degli scultori, degli attori, dei musicisti, degli architetti e dei librai; dall’altro lato si hanno invece le cultural activities che, invece, includono tutti quei ruoli operanti all’interno delle industrie culturali, indipendentemente dalla funzione svolta, sia essa manageriale, amministrativa, tecnica oppure artistica.
In ogni caso, le caratteristiche dei lavoratori occupati nei diversi settori culturali confermano come l’occupazione culturale risulti di qualità elevata. Infatti, quasi un occupato su due ha conseguito la laurea o un titolo di studio superiore, mentre lo stesso rapporto è di uno su quattro se si considera il totale dell’occupazione. Si può inoltre osservare come la condizione di “lavoratore autonomo” incida più del doppio rispetto al resto dell’economia. Un peso superiore alla media si ha anche per gli occupati temporanei, per il part-time e per coloro che hanno un secondo lavoro. Questi primi caratteri distintivi dell’offerta sembrano indicare che nella produzione culturale si delineano profili più qualificati, ma vigono anche condizioni di maggiore instabilità, forse di “precarietà”, rispetto ad altri settori dell’economia. Tuttavia, si potrebbe anche notare come nelle attività di tipo creativo, come quelle culturali, l’attitudine all’imprenditorialità non è sostituibile, e questo spiegherebbe una larga quota, difficilmente comprimibile, di lavoro autonomo.
Fonte: Eurostat, UE Labour Force Survey.
Con “tertiary education” si intendono i livelli ISCED 5-6: nel sistema d’istruzione italiano corrisponde alla laurea (primo o secondo livello) e al dottorato di ricerca. La dicitura “workers non employee” considera i lavoratori in proprio, i datori di lavoro, i lavoratori familiari.
La crescita dei livelli di istruzione è un fenomeno che non riguarda solo l’offerta ma, evidentemente, anche la domanda di cultura. La crescita dell’economia della cultura è infatti anche l’espressione di bisogni evoluti che si manifestano da parte di individui con elevata scolarizzazione e che trovano spazio soprattutto in società ricche e aperte all’innovazione. Dai dati Eurostat emerge con una certa chiarezza come esista una forte relazione fra occupazione culturale e livelli di sviluppo e innovazione tecnologica. Fra i Paesi con una più elevata incidenza di occupazione culturale troviamo, infatti, Olanda, Regno Unito, Finlandia, Svezia, Danimarca. Si tratta delle economie europee che non solo hanno i più elevati livelli di reddito pro-capite, ma che hanno mostrato negli ultimi anni anche elevati indici di competitività internazionale. Va evidenziato che gli Stati Uniti hanno livelli di occupazione culturale equivalenti al gruppo di testa europeo. Questa relazione conferma come lo sviluppo di attività culturali presenti una elevata elasticità al reddito e, allo stesso tempo, si accompagni alla crescita del capitale umano e delle capacità di innovazione. Si deve inoltre rilevare che, paradossalmente, i paesi dove è più alta l’occupazione in attività culturali non sembrano eccellere per “dotazioni culturali originarie”: Nessuno di essi, infatti, si colloca ai vertici della famosa World Heritage List dell’Unesco, che misura il numero di siti culturali di rilevante interesse internazionale e che, guarda caso, ha proprio l’Italia al vertice assoluto. Ciò sta ad indicare che la produzione culturale non è necessariamente legata alle attività di valorizzazione del patrimonio storico-artistico, ma anche alla capacità di creare, organizzare e promuovere nuove attività espressive, che a loro volta si collegano a forme originali di comunicazione e ad un uso intensivo delle nuove tecnologie.
4. Il valore economico della cultura in Italia
In Italia – sempre secondo lo studio KEA – il contributo economico del settore culturale e creativo è pari al 6,3% del Pil: questo dato posiziona il nostro paese a metà circa della graduatoria europea. Rispetto agli altri paesi va tuttavia considerato che in Italia il giro d’affari (84,4 miliardi di €) è generato anche da una rendita di posizione relativa ad una straordinaria dotazione di patrimonio culturale, fattore che tende, perciò, a fare pesare maggiormente il valore della cultura nell’economia. Anche nel nostro Paese, tra il 1999 e il 2003, si è registrato un consistente aumento del giro d’affari, pari al 5,3% medio annuo.
Bisogna poi segnalare che in Italia il valore aggiunto del settore culturale e creativo ha sfiorato nel 2003 i 31 miliardi di euro (il 2,3% del Pil), un valore in crescita costante nell’ultimo decennio. La domanda di cultura è dunque in continuo aumento anche nel nostro paese, e si esprime con bisogni sempre più ricchi e sofisticati. Per questa ragione il mercato non solo deve ampliare la quantità offerta ma anche rispondere a nuovi modelli di consumo, sviluppando offerte specifiche che valorizzino le risorse dei singoli territori.
Una conferma di queste tendenze è fornita da un recente studio di PricewaterhouseCoopers per Confcultura (2009). Le stime relative al valore aggiunto del settore culturale e creativo tra il 2005 e il 2008, infatti, indicano una sostanziale stabilità: il rapporto con il Pil si attesta al 2,2% nel 2005 e nel 2006, raggiungendo il 2,3% nel 2007 e nel 2008 (cfr. fig. 2). Si tratta di valori leggermente superiori a quelli di Spagna (2%) e Germania (2,2%), ma piuttosto inferiori a quelli di Francia (3%) e Regno Unito (3,3%).
Se si considera anche l’apporto del turismo, il contributo del valore aggiunto risulta decisamente più rilevante ed in crescita: dall’11% del 2005 si arriva all’11,8% del 2008. E’ interessante notare come, in termini di valore aggiunto, l’insieme di turismo, cultura e creatività sia di gran lunga superiore al comparto agricolo e al settore delle costruzioni, mentre al tempo stesso non rimane troppo distante dai valori di industria e servizi.
Anche il dato relativo al fatturato, secondo le stime di PricewaterhouseCoopers, è in continua crescita negli ultimi anni: il settore culturale e creativo in Italia passa dai 92 miliardi di euro del 2005 ai 104 del 2008. D’altro canto, un analogo trend riguarda il turismo culturale, in crescita da 122 miliardi di euro nel 2005 a 141 nel 2008. Il contributo del turismo culturale al Pil nel nostro Paese, nel 2008, è del 9,2%, superiore a quello di Francia, Germania e Regno Unito, ma molto distante dal dato della Spagna, dove il contributo del turismo culturale al Pil raggiunge il 19,3%.
Fonte: PricewaterhouseCoopers (stime).
Negli ultimi anni, anche l’occupazione del settore ha manifestato in Italia una certa vitalità. Tuttavia, dal rapporto Eurostat si apprende che gli occupati nel settore culturale nel 2005 sono solamente il 2,1% – ma con un tasso record di lavoratori indipendenti, il 53% – un dato inferiore alla media europea, che colloca il nostro paese nella parte bassa della relativa graduatoria. Le recenti stime di PricewaterhouseCoopers sull’occupazione segnalano un trend leggermente positivo, che porta il nostro Paese ad un valore pari al 2,3% degli occupati della cultura sul totale nel 2008 (circa 550 mila addetti). Molto più elevati i valori di riferimento del settore turistico: l’occupazione supera l’11% con oltre 2,5 milioni di addetti. In Italia, tra 1997 e 2007, sono cresciuti tutti i consumi culturali (cfr. fig. 3). Secondo l’ultimo Rapporto di Federculture (2008), nel corso del decennio è aumentata in particolare l’attenzione nei confronti del teatro, i cui consumi sono saliti del 23,5%. Ma ottime performance si segnalano anche in altri comparti: +9,1% per il cinema, +7,8% per i concerti di musica leggera, +5,6% per quelli di musica classica. In crescita anche le visite a musei e mostre (+4%), praticamente invariati gli ingressi a siti archeologici e monumenti (+0,5%). I segni negativi riguardano invece discoteche (-6,7%) e spettacoli sportivi (-5,3%). Nel complesso, la spesa delle famiglie italiane per “ricreazione e cultura” si mantiene intorno al 7%, un valore inferiore alla media europea (UE 27) che supera il 9%.
Fonte: V Rapporto Federculture.
In Italia si è realizzato un significativo sorpasso delle attività teatrali su quelle sportive, sia in quanto a presenze dirette agli spettacoli, sia per spesa pagata. Questi dati si riferiscono alla presenza diretta dei cittadini italiani agli eventi culturali e sportivi, e non considerano, perciò, il numero di spettatori televisivi, su cui, per diverse ragioni, si sta sempre più orientando lo spettacolo sportivo. Rimane tuttavia significativo, anche dal punto di vista delle politiche locali, che in Italia ci sia oggi più gente che va a teatro di quanta vada allo stadio.
5. Conclusioni
Come abbiamo potuto vedere, la cultura rappresenta un vero e proprio business: il suo contributo alle economie moderne è rilevante ed in crescita. Tuttavia, i primi dati sui consumi culturali relativi al 2008 mostrano delle generali flessioni: la crisi globale influisce sulla propensione al consumo di cultura. Peraltro, i dati relativi ai consumi culturali degli ultimi mesi sembrano confermare l’ipotesi di l’elasticità positiva al reddito dei consumi culturali: quando diminuiscono i soldi a disposizione degli individui, la spesa dedicata alla cultura cala.
Il contributo della cultura al benessere sociale non si esprime solo nei nuovi equilibri di domanda e offerta, ma anche nell’orientare la società verso nuovi modelli di uso del tempo e delle risorse. Infatti, per un’economia sempre più basata sulla conoscenza, la cultura costituisce una risorsa collettiva che contribuisce ad alimentare la creatività, a stimolare l’innovazione e ad accrescere la qualità del capitale umano. Di queste fondamentali esternalità beneficiano molti settori dell’economia, in particolare quelli a più elevata intensità di conoscenza sui quali sempre più si basa la competitività delle economie moderne.
E’ soprattutto in questi ambiti che risiedono le principali potenzialità della cultura: in quanto fenomeno che trova le proprie radici nelle tradizioni di un luogo, la cultura è in grado di mobilitare risorse e competenze presenti nel territorio, rafforzando la creatività e le capacità di innovazione della popolazione e favorendo così l’evoluzione dei sistemi economici locali verso un posizionamento competitivo sostenibile in un’economia aperta.
Bibliografia
Asheim B., Gertler M. (2005), “The Geography of Innovation: Regional Innovation System”, in Fagerberg J., Mowery D., Nelson R. (a cura di), The Oxford Handbook of Innovation, Oxford University Press.
Audretsch D.B., Keilbach M.C., Lehmann E.E. (2006), Entrepreneurship and Economich Growth, Oxford University Press.
Baumol W., Bowen W.G. (1965), “On the Performing Arts: the anatomy of their economic problems”, The American Economic Review, vol. 55, n. 1/2, pp. 495-502.
Benhamou F. (2004), L’economia della cultura, Bologna, Il Mulino.
Confcultura, Pricewaterhousecoopers (2009), Arte, turismo culturale e indotto economico, Roma.
Confindustria, Confcultura (2008), La valorizzazione della cultura fra stato e mercato, Roma.
Corò G., Micelli S. (2006), I nuovi distretti produttivi, Venezia, Marsilio.
Corò G., Micelli S. (2007), “Industrial Districts as Local Innovation Systems”, Review of Economic Conditions in Italy, 1.
Corò G., Dalla Torre R. (2007), “Economia della cultura e sviluppo locale”, Argomenti, n. 21, pp. 25-47.
Dynamo (2007), The Role and Spatial Effects of Cultural Heritage and Identity, Epson project 1.3.3.
Eurostat (2007), Culture statistics Pocketbooks, European Community.
Federculture (2007), La cultura per un nuovo modello di sviluppo, IV Rapporto Annuale.
Federculture (2008), Creatività e produzione culturale. Un paese tra declino e progresso, V Rapporto Annuale.
Florida R. (2002), L’ascesa della nuova classe creativa, Milano, Mondadori.
KEA (2006), The economy of Culture in Europe, Rapporto per la Commissione Europea, ottobre.
Moreno Y.J., Santagata W., Tabassum A. (2005), “Material cultural heritage and sustenaible development”, Working Paper Series (EBLA), n. 7.
Pine B.J., Gilmore G.H. (2000), L’economia delle esperienze, Milano, Etas libri.
Rullani E. (2004), La fabbrica dell’immateriale, Roma, Carocci editore.
Sacco P.L., Pedrini S. (2003), “Il distretto culturale: mito o opportunità?”, Working Paper Series (EBLA), n. 5.
Sacco P.L., Tavano Blessi G. (2005), “Distretti culturali evoluti e valorizzazione del territorio”, Global and Local Economic Review, n. 8(1), pp. 7-41.
Santagata W. (2000), “Distretti culturali, diritti di proprietà e crescita economica sostenibile”, Rassegna economica, n. 64(1), pp. 31-61.
Santagata W. (2001), “Economia creativa e distretti culturali”, Economia della cultura, n. 11(2), pp 167-173.
Santagata W. (2007), La fabbrica della cultura, Bologna, Il Mulino.
Tattara G., Corò G., Volpe M. (2006), Andarsene per continuare a crescere. La delocalizazione internazionale come strategia competitiva, Roma, Carocci editore.
Tavano Blessi G. (2006), Città satellite? Le Laives d’Europa: quale sviluppo attraverso la cultura, Roma, Meltemi Editore.
Throsby D. (2001), Economics and Culture, Cambridge University Press.