Nei momenti di crisi, l’avvocato barese di fiction, Guido Guerrieri riempie di pugni il suo sacco da boxe oppure gironzola in bicicletta per la sua città – una città che negli ultimi decenni si è trasformata e dove, oggi, coesistono quartieri residenziali, malfamati o marginali e quartieri che brulicano di locali dove bere e mangiare, leggere, ascoltare musica o fare due chiacchiere con un padrone, a volte stravagante, che ha importato usi dall’estero.
L’articolo di Giambalvo e Lucido sulla recente trasformazione urbana di Palermo mi ha fatto pensare a Guerrieri, alla sua Bari; ma anche ad altre città, come Barcellona, da dove scrivo. Città in cui si sono attuati progetti di recupero patrimoniale dei centri storici per lottare contro il loro spopolamento, di risanamento di quartieri per contrastarne l’insalubrità o evitarvi la cristallizzazione di criminalità. Senza eccezione, il contenuto è venuto dopo: per programma politico, come a Barcellona, o per generazione spontanea, come a Palermo, dove l’imprenditoria culturale ha investito parti del territorio urbano caricandolo di significato. Nel caso della progettualità politica la cultura è lo strumento per la creazione di una marca, che viene poi esportata e che costituisce motore di sviluppo. Questo è senz’altro il caso di Barcellona. Nell’altro, il processo è piú disorganizzato: per motivi quasi inspiegabili, professionisti di settori svariati – del mondo della musica e delle arti visive, come a Palermo – trovano che certi quartieri della città offrano quel “non so che” che li attira e nel quale vogliono risiedere e lavorare. Si innesca quindi un processo di generazione spontanea, basato come dicono gli autori su “una moltitudine di legami deboli” che hanno una capacità trainante da non sottovalutare. In entrambi i casi però, a quelli che come l’avvocato Guerrieri abbiamo già una certa età, succede che questa nuova città non è piú la nostra città, quella nella quale siamo cresciuti, con la conseguente nostalgia che scaturisce da questa sensazione.
Analogo sentimento, ma per ragioni diverse, mi ha lasciato il contributo della Negrini sull’uso dei multimedia devices nel settore museologico. Razionalmente capisco che tali strumenti, e le loro molteplici applicazioni, favoriscono, indubbiamente, un nuovo approccio alla fruizione culturale; mi rimane però il dubbio che tra l’individuo e l’opera d’arte si interponga, sempre di piú, un terzo scomodo: il device. Se questo puó aiutare alla comprensione di ció che si sta vedendo, alla sua riproduzione e manipolazione, non riesco a valutare quanto possa, invece, sostituire la percezione diretta, l’emozione, positiva o negativa, che puó scaturire dal guardare con i propri occhi, e la propria anima, un oggetto o un’opera d’arte. Sicuramente i miei figli, oramai ragazzi, mi direbbero che non capisco niente, abituati come sono a usare con estrema destrezza i gadget multimediali. E sia. Ma non mi arrendo e continuo a pensare che, anche se le esperienze come quelle illustrate dalla Negrini sono interessanti e utili, lo devono essere solo a complemento di qualcos’altro, di piú intimo, personale e profondo; perchè se è vero che tutti i processi, inclusi ovviamente quelli culturali, sono resi piú efficaci se coadiuvati da supporti, è altrettanto vero che questi non devono essere esclusivi, altrimenti, se portata all’estremo, la tecnicizzazione puó generare un senso, seppur diverso da quello descritto precedentemente, pur sempre di nostalgia per qualcosa che non riusciamo a sentire come profondamente nostro.