L’impresa di parlare d’impresa culturale

Nonostante sia il settore più inquieto e dinamico dell’economia italiana, la cultura fatica a rivendicare il proprio ruolo di preminenza nella nostra società. Fortunatamente tra l’obsolescenza di vecchi paradigmi, la rigidità del rapporto con l’amministrazione pubblica e un dialogo troppo intermittente con i pubblici potenziali, fioriscono pratiche innovative e in controtendenza, che devono solo trovare il coraggio di darsi una forma, dirsi impresa, e cominciare a porsi al centro di un auspicabile nuovo corso del Belpaese.

La cattiva (arcinota) notizia è che la tradizionale impostazione sociopolitica italiana per paradosso relega la cultura ai margini del proprio sistema produttivo. La buona, altrettanto paradossalmente, è che gli stati di crisi hanno la capacità di mettere a nudo le debolezze di un sistema e grazie alla crisi, quindi, sembra emergere con inclemenza il malessere cronico che affligge il settore culturale. Grazie alla crisi economica, insomma, stiamo smascherando la giustificazione della crisi economica, scoprendo finalmente come sia piuttosto l’impostazione del sistema stesso la vera crisi del settore. Ma c’è di meglio: questo sistema guasto si è incrinato, in virtù di un’attualità che già attesta una più rosea controtendenza.
A uno sguardo attento e lievemente critico l’esperienza quotidiana lancia infatti segnali entusiasmanti. La rivoluzione digitale ha dato il via all’era dell’informazione e della conoscenza, trasformando radicalmente le nostre quotidianità, nelle prassi e nella teoria. Le potenzialità connesse ai nuovi mezzi espressivi, alla pluralità di canali disponibili e di prodotti realizzabili hanno sovvertito le nostre abitudini e perfino i nostri processi mentali, che stanno passando da logiche lineari e progressive a logiche ipertestuali e molteplici. La loro pervasività assolutamente trasversale ha invaso lo spazio domestico e pubblico, compresso quando non eliminato le barriere spazio-temporali, sovrapposto i tempi di lavoro con il tempo libero, iperstimolando l’attenzione delle persone.
La cultura normalmente è il primo comparto a recepire e cavalcare le trasformazioni sociali e il contesto attuale sembra costituire un terreno potenzialmente molto fertile. Il dinamismo sociale e di pensiero, la multimedialità, la democratizzazione nell’accesso all’informazione, con la conseguente perdita di valore di ruoli, categorie, definizioni e giudizi netti, sono caratteristiche del vivere contemporaneo, che nella cultura hanno generato una forte rottura rispetto a un passato auratico, elitario e dalle compartimentazioni e scale valoriali rigide e predeterminate. Il produttore e il fruitore di cultura, oggi, hanno un atteggiamento laico e personale, e numerose occasioni d’incontro, quando non sovrapposizione. L’utente, in questo quadro, non può più accontentarsi di esperienze circoscritte nei contenuti, quando ha i mezzi a disposizione per sviluppare e fruire di veri e propri concept progettuali, prodotti multidimensionali(1)  in grado di esplodere in una costellazione di eventi interrelati. Ogni occasione, in sostanza, diventa valida per costruirvi intorno possibilità aggiuntive di contatto, tramite supporti di riproduzione, informativi, d’approfondimento che compongono accostamenti complessi, fanno accedere a mercati diversi, scardinano differenti livelli percettivi e di ragionamento. In altre parole, rilanciano l’esperienza a momenti successivi, stimolando il genio di chi produce e l’appetito di chi fruisce. Il valore complessivo di un’azione culturale oggi si concreta nella capacità di ingenerare questo processo dialogico potenzialmente infinito, in cui ogni prodotto consolida il precedente e facilita quello a seguire.
In un’epoca post-moderna in cui tutto teoricamente è già stato visto, il valore risiede quindi nel processo, nella capacità di rielaborare e di ricombinare il noto in modo originale, esplorando modalità non convenzionali o rinnovando le convenzioni. Non è un caso che tra tutte le forme di creatività si registri un avanzamento notevole tra quelle che usufruiscono o si riformulano attraverso canali e mezzi alternativi, a discapito dei luoghi di cultura dalle procedure e dai meccanismi di stampo ottocentesco: sembrano funzionare meglio, cioè, le attività che prescindono da spazi assodati e istituzionali e imparano a spingersi in territori nuovi, per non dire sul territorio e basta, che diventa una scenografia preesistente e reattiva, pregna di significati da rileggere, interpretare, sfruttare. In una parola, sembrano avere la meglio quelle iniziative che si insinuano e scardinano il quotidiano delle persone, eventi livellari improntati alla multidisciplinarietà, che rispondono ai bisogni di una comunità urbana che desidera misurarsi con il proprio patrimonio, riscoprire la propria identità, restituendo alla produzione culturale quel senso profondo che assume in quanto sistema di relazioni tra individui, situazione sociale, occasione capace di influire sulla qualità della vita stessa. Funzionano, insomma, tutte quelle istituzioni e quei prodotti che sanno innovarsi e destrutturarsi, finché non diventano luogo o momento di vita del fruitore, finché non rientrano nei suoi tracciati quotidiani, senza attendere che sia il fruitore stesso ad andarli a cercare.
In questo scenario il ruolo dei produttori di cultura è estremamente complesso, perché se da un lato è essenziale rimanere fluidi e dinamici nella percezione del contesto, dall’altro, un contesto così variegato e iperstimolante sembra rendere necessaria una solidità (seppur polimorfica) della propria struttura, nonché saperi e specializzazioni sempre crescenti e interrelati. Come dire: chi resta chiuso nel proprio atelier, nel proprio teatro, nel proprio studio; chi non coglie le opportunità offerte dalle nuove tecnologie, rivede i propri limiti fisici e intellettuali attraverso pratiche inconsuete e ibridanti; chi resta al sicuro delle prassi tradizionali e consolidate, resta indietro.
Se tutto questo è vero, allora è il tempo anche di rivedere la definizione di cultura e i meccanismi di settorializzazione che ne conseguono. Forse è ora di sdoganare definitivamente una definizione di cultura intenzionalmente ampia, laica e critica, senza romanticismi e snobismi di sorta, che come contraltare abbia solo l’agorafobia del trovarsi in mare aperto e la necessità di cavalcarlo. Cultura oggi è un qualsiasi input cognitivo o percettivo in grado di scardinare percorsi noti e di stimolare la curiosità della persona comune, generando un processo di trasmissione ludica di conoscenza, orientato a rafforzare l’identità e la socialità di chi ne prende parte. Se si considera plausibile una dicitura di questo tipo, allora non vi sono più limiti tipologici, gerarchie valoriali, ambiti circoscrivibili d’intervento. Ma allora a quel punto, e per fortuna, la cultura senza più maiuscole e minuscole può insinuarsi in o attingere da quasi tutti i settori e non c’è campo commerciale o istituzionale, committente o canale che possa invalidarne l’azione.
In questa rivoluzione, forse fisiologica e violenta insieme, la cultura stessa si stupisce di sentirsi più forte e inizia a rivendicare un ruolo sostanziale nella costruzione del quotidiano di una società. Naturalmente, senza accorgersene, ri-tara le proprie proposte sulla base delle necessità del fruitore e su queste basi esige un nuovo piano di confronto con le amministrazioni pubbliche. In una parola, sta fondando il proprio mercato. E lo fa dal basso, forzando un processo di semplificazione dell’atipica e farraginosa ossatura del sistema culturale italiano.
Storicamente, infatti, nel nostro Paese l’offerta di cultura fronteggia un doppio mercato della domanda: quello del pubblico e quello del settore pubblico, che, al di là del gioco di parole, ovviamente non coincidono. La marginalità dei fondi derivanti dalla fruizione diretta di cultura e la crescente ossessiva rincorsa per l’ottenimento acritico di risorse hanno portato le organizzazioni culturali a trascurare sempre più le esigenze del consumatore (fino a rendere quest’ultimo pressoché irrilevante rispetto alla produzione artistica), per concentrarsi quasi esclusivamente sul mercato dei finanziamenti. Tra Stato e operatori culturali resta un rapporto autoreferenziale, che nel migliore dei casi si sostanzia in uno scambio asfittico di moneta basato sul dato storico e sulle opinioni soggettive della critica o degli esperti (quando non sulle autovalutazioni delle parti). Nel peggiore, i progetti vengono bloccati per abitudine alla mancanza di fondi o attraverso un giudizio ugualmente arbitrario. Questa impasse deriva dalle motivazioni cui il sostegno pubblico alla cultura si è tradizionalmente ancorato, filosofiche (in quanto bene meritorio a prescindere), o tautologiche (l’impossibilità del settore di autosostenersi). Tutto sommato, giustificazioni generalizzanti e non univocamente dimostrabili. Una prassi quindi non guidata dalla corrispondenza dell’azione culturale a imparziali linee di indirizzo e strategie puntuali e mirate, ma piuttosto dalle alterne dinamiche della politica, che per lo più continua a darla per scontata o a ridurla ad orpello di cui fregiarsi nel breve corso di una legislatura, senza porre i benefici sociali infungibili derivanti esclusivamente dall’azione culturale come ragione fondante del sostegno al comparto.
La contrazione degli stanziamenti per la cultura non sono una maledizione divina ineluttabile, neppure in epoca di crisi, ma il frutto di una lettura tanto precisa quanto appannata, che semplicemente dimostra di non credere nel ruolo fondativo della cultura per la crescita di una società. Così si lasciano le grosse istituzioni culturali a boccheggiare senza meccanismi di stimolo, selettivi e incentivanti ad una strutturazione alternativa e ottimizzante, e parimenti la stupefacente miriade di piccole grandi organizzazioni culturali ad arrabattarsi nel tentativo di far sopravvivere quel pluralismo di attività ed interessi necessario per qualsiasi stato democratico.
Grande o piccolo, beneficiato o meno, qualsiasi operatore culturale oggi comprende l’ammorbamento del sistema e ne è sempre meno condiscendente. Ad ogni latitudine del settore si percepisce la necessità e l’urgenza di sperimentare nuovi paradigmi di confronto. Tra la macchina appesantita della cultura assistita e quella spinta dal basso, embrionale e caparbia, sembra giunto il tempo di poter dire impresa culturale senza sgualcirsi.
Cultura e impresa nella concezione tradizionale sono considerate antinomie. La prima un divertissement inconciliabile con la produttività di chi lavora veramente, la seconda la potenziale contaminazione di un mondo di valori puri ed eterni. L’introduzione nel comparto culturale di una mentalità maggiormente imprenditoriale, invece, sembra poter rappresentare una prima basilare chiave di volta per il sistema, da declinare sugli approcci sia degli operatori sia del decisore pubblico. Non si fa riferimento agli aspetti societari formali, agli assetti, allo scopo di lucro, ma ad un paio di concetti semplici e lineari: obiettivi, gestione delle risorse e risultati, e una logica di profitto che non si sostanzia solo nel ritorno economico (che spesso gli operatori stessi tendono ad additare come male del mondo) ma anche – e soprattutto – nella massimizzazione dell’impatto socio-culturale di un’attività, composto da indici ben più eterogenei del corrispettivo economico.
Quest’accostamento inedito in fondo non sottende altro che l’intenzione di dismettere l’idea banale e anacronistica per cui il genio e l’arte possano fiorire solo nella naiveté. La maturazione e la diffusione del settore sembra dover passare per questa metamorfosi, in cui la giovane arte del management culturale ha il ruolo cruciale di adattare modelli imprenditoriali generici a un comparto che costringe al rispetto di precise peculiarità.
L’organizzazione culturale sa di dover affrontare due piani di complessità legati all’efficacia della propria azione: il primo è relativo a una costante ricerca volta al miglioramento, si potrebbe dire, estetico e professionale, del gesto culturale. E’ (o quantomeno dovrebbe essere) una tensione costante e insita nell’operatore e nell’artista, e guai a contenerla; il secondo invece è relativo ad una ricerca estroflessa, cioè rivolta al soddisfacimento della domanda, reale e potenziale, un aspetto su cui tutte le organizzazioni culturali italiane – considerati i dati di fruizione con cui continuiamo a confrontarci – sono tenute a un miglioramento sostanziale. Questi aspetti ingenerano una prima negoziazione teorica tra tensione all’autoreferenzialità e tensione alla commercializzazione, nella ricerca – ancora per lo più sbilanciata – di quel sottile equilibrio che preservi sia la validità estetica che il valore pubblico dell’azione culturale. Questo primo bilanciamento dovrà poi scontrarsi con il tradizionale trade-off tra efficacia ed efficienza, non appena, cioè, l’essenza dell’azione culturale dovrà razionalizzare i propri obiettivi in relazione alle risorse a disposizione. Prim’ancora di qualsiasi crisi economica, quindi, l’organizzazione culturale che potremmo definire evoluta, deve affrontare l’intramontabile problematica dell’economicità: non più l’ottenimento di risorse da impiegare alla bell’e meglio (modalità che, per altro, viene irrimediabilmente frustrata in una situazione macro-economica regressiva), ma l’ottenimento di risultati attesi in risposta ad obiettivi coerenti con una data quantità di risorse, finanziarie ed umane.
Raggiungimento di impatti socio-culturali (che sottende innovazione, professionalità e continuità nella ricerca estetico-artistica), soddisfacimento della domanda (che sottende un essenziale orientamento al fruitore dell’azione culturale, onde evitare che sfoci irrimediabilmente in narcisismo artistico), all’interno (last but not least) di una compatibilità economica. Questo l’orizzonte razionale che un’organizzazione culturale reattiva al nuovo contesto deve fronteggiare per conseguire una qualità oggettiva e dimostrabile.
Ma non dovrebbe avere le stesse finalità la Pubblica Amministrazione, nel momento in cui riflette sulla compatibilità di un’opzione culturale e quindi sulla possibilità di sostenerla? Lo Stato non dovrebbe logicamente incoraggiare quella produzione che si assuma le difficoltà di gestire la pluralità degli aspetti culturali, di rendere visibili e commensurabili le ricadute sociali di un’attività, di mettere il più possibile a frutto la spesa pubblica, aspirando all’eccellenza produttiva, allo sviluppo di un territorio e alla crescita personale di ogni singolo fruitore? Le domande sono evidentemente retoriche. E quindi manca solo di rispondere all’altrettanto inutile perché continuare a relegare la cultura ad un hobby, non sbrogliando quegli ultimi nodi, ormai per lo più teorici, che le permetterebbero di diventare grande.

Note
(1) Cioè dalla struttura e dalla complessità stratificata, in cui le diverse componenti che li costituiscono siano in grado di coinvolgere, stimolare e conseguentemente accrescere ogni tipo di fruitore, in qualsiasi fase del proprio percorso di addiction (Stiegler e Becker, 1977) si presenti al cospetto del prodotto culturale.