Recentemente sono stata a Lecce, per lavoro. Non vi ero mai stata prima. Alloggiata in un albergo “fuori le mura” sono arrivata in tarda notte. La mattina dopo mi sono avviata, a piedi, in centro. Dappprima mi è parso di trovarmi in una qualsiasi città moderna del meridione d’Italia ma poi, varcate le mura nei pressi del Castello Carlo V, con mio grande stupore, mi è parso di entrare nella scenografia di uno spettacolo teatrale o operistico. Quasi come in un sogno o in un film, la città si trasformava davanti a me: bellissima e pulita, la luce di prima mattina metteva in valore un patrimonio architettonico eccezionale. Con ancora piú stupore ho vissuto la città anche di pomeriggio e di notte: gente ovunque, movimento, traffico, locali affollatissimi… Ho capito di non essere in una città-museo ma in una città viva, in pieno fermento, nella quale i leccesi – ma non solo – si sono riappropriati appieno dello spazio pubblico cittadino: non solo di quello intra ma anche di quello extra muros dove palazzi, edifici, parchi, giardini, viali sono vissuti, frequentati e, addirittura, gestiti dalla cittadinanza.
Non credo Lecce sia un esempio isolato in Italia. Mi ha fatto appunto pensare all’articolo della Riccardo che affronta lo spinoso argomento delle politiche di recupero dello spazio pubblico urbano. La ricerca universitaria presentata analizza alcune città europee per, da una parte, identificare gli elementi che accomunano diverse iniziative di recupero di zone urbane dismesse e non, e, dall’altra, proporre linee di ispirazione per iniziative simili in Italia. La ricerca è interessante e la metodologia applicata altrettanto. Gli 8 principi per la rigenerazione di quartieri urbani, raggrupati in due insiemi – ambientale (diversificazione, dislocazione di funzioni, densificazione, decostruzione) e sociale (cooperazione, creazione di economia, controllo, concretezza) –, sembrano in effetti idonei a sostenere politiche di questo tipo. La ricerca, che s’intende proseguire oltre la sua fase iniziale, si propone di allargare la ricerca di good practices: credo che queste si debbano cercare anche in Italia perchè anche qui ne esistono.
Infatti, l’Italia non è solo un “disastro” come agli italiani piace dire … mi domando sempre se con un certo qual troppo spirito critico distruttivo, retaggio inconscio della nostra cultura giudeocristiana. E l’articolo di Bocola mi fa credere che siamo, come popolo, fin troppo critici con noi stessi. Devo ammettere che, leggendolo, mi sono accorta della mia grande ignoranza sull’argomento trattato: la digital fabrication. Ma, nel contempo, proprio leggendo aumentavano la curiosità e il piacere di apprendere di sviluppi tecnologici che, in mano a persone altamente creative (italiane!), permettono a queste di lanciarsi in imprese originali, con un netto stampo manageriale moderno ma centrate, al contempo, su un discorso che valorizza l’aspetto “artigianale” della produzione, quando appunto detto processo permette di arrivare ad un oggetto unico, prodotto in questo caso come ci spiega l’autore, on demand e customized. Se c’è un aspetto che identifica l’Italia nella storia universale è proprio che, dal Rinascimento in poi, si è perfezionato il concetto di “bottega” e, appunto, di produzione artigianale; ció ha fatto che il nostro paese diventasse, e lo sia tuttora, tra i leader mondiali della piccola e media impresa in svariati settori. Ben venga, quindi, il fabbing; ben venga che un esempio quasi unico del suo utilizzo, altamente sofisticato, sia stato realizzato proprio in Italia; e ben venga che esempi di creatività e originalità come questi possano ispirare il resto del mondo.