La conoscenza come bene comune. Dalla teoria alla pratica

Il volume “La conoscenza come bene comune. Dalla teoria alla pratica” rappresenta uno dei capisaldi su cui si fondano le teorie di quanti vedono nell’avvento delle nuove tecnologie il superamento della tradizionale logica gutenberghiana, a favore di una visione dell’accesso e della fruizione delle informazioni e della conoscenza come diritti fondamentali dell’uomo, e come tali da sottrarre necessariamente alle logiche del mercato.

In Italia la nozione di “bene comune”, o commons secondo la tradizione anglosassone, è divenuta solo di recente di pubblico dominio, anche se perlopiù continua ad essere percepita come una sorta di sub-cultura oppure come una rivendicazione di una minoranza – seppur determinata – di addetti ai lavori.

 

Il volume “La conoscenza come bene comune. Dalla teoria alla pratica” rappresenta uno dei capisaldi su cui si fondano le teorie di quanti vedono nell’avvento delle nuove tecnologie il superamento della tradizionale logica gutenberghiana, a favore di una visione dell’accesso e della fruizione delle informazioni e della conoscenza come diritti fondamentali dell’uomo, e come tali da sottrarre necessariamente alle logiche del mercato.

 

L’indagine sul significato del concetto di conoscenza associato alla nozione di bene comune parte dal ragionamento circa la possibilità di traslare i risultati della ricerca sulle risorse naturali come beni comuni ai dilemmi riguardanti la comunicazione scientifica e culturale, in quanto prodotto immateriale. In particolare la presa d’atto della non assimilabilità ipso facto delle riflessioni avviate dai movimenti ecologisti in materia di boschi, pesca, acqua, non ostacola la riconducibilità di una pluralità di forme del sapere alla tipologia di beni di proprietà collettiva.

 

Secondo i contributi dei saggisti e delle curatrici del volume, i dati e le informazioni conseguiti attraverso lo studio e l’esperienza – ed espressi tramite una pluralità di linguaggi, creativi e scientifici – non dovrebbero più esser ricondotti all’ottocentesca dicotomia tra proprietà pubblica e proprietà privata. Infatti, la natura comunitaria di tale patrimonio cognitivo risulterebbe accentuata dal suddetto elemento di discontinuità costituito dall’immaterialità: proprio perché intangibile, la conoscenza non presenta rivalità nell’uso, potendo lo stesso “frammento” esser goduto contemporaneamente da una pluralità di individui, con ciò eliminando il pericolo di esaurimento della risorsa.

 

È questo un effetto dell’avvento della rete, rappresentabile come grande impresa cognitiva collettiva. Difatti, fintanto che i dati e le informazioni restano in mano a un potere centralizzato,fatto inevitabile in un’”economia analogica”, l’esclusività comporta la soggezione a consumo e a esaurimento; viceversa, con l’interattività e la viralità tipiche della dimensione digitale si crea un nuovo processo “a spirale” di costruzione della conoscenza, nel quale i contenuti esistenti vengono assiduamente integrati con quelli degli altri, in un sistema di informazione-approfondimento /contestazione volto all’arricchimento del sapere disponibile.

 

Partendo dalla presa d’atto della necessità di una revisione dei principi e delle categorie vigenti in passato, il volume si pone il quesito di quali siano i modelli di business appropriati ed efficaci per la conservazione della conoscenza. L’obiettivo è quello di dimostrare come la proprietà pubblica possa esser meglio gestita dalle comunità di utenti quando si tratti di tutelare beni volti a soddisfare bisogni collettivi e diritti fondamentali. La sfida consiste quindi nel creare sistemi tali da garantire l’uguaglianza nell’accesso e il pieno sviluppo delle potenzialità umane, assicurando al contempo il riconoscimento e il sostegno nei confronti di coloro che creano le varie forme del sapere.

 

L’architettura stessa del volume segue questo processo creativo “a spirale”, dove a una prima parte volta a disegnare una panoramica dell’oggetto/soggetto del dibattito, segue una seconda parte illustrativa dell’excursus storico che dalle politiche delle enclosures o recinzioni ha condotto alle moderne teorie dell’open source. La parte terza, dedicata a come “costruire nuovi beni comuni della conoscenza”, è la più ampia. I sei saggi che la compongono sono volti a dimostrare i vantaggi della decentralizzazione e del libero scambio di idee che ne consegue.

 

Affinché non si avveri la profezia secondo la quale “la tecnologia apre le porte e il capitale le chiude”  si pone come indispensabile il riconoscimento dell’esistenza di beni a titolarità diffusa, il cui accesso deve esser garantito a tutti e la cui esclusività non può esser riconosciuta a nessuno, per impedire che i benefici del progresso tecnologico vengano limitati solo a chi è disposto ed è in condizione di pagare.

 

La conoscenza come bene comune. Dalla teoria alla pratica
(a cura di) Charlotte Hess , Elinor Ostrom  
Bruno Mondadori, 2009
Euro 42,00