Cultivating creativity in neighborhoods: The impact of a cultural district in Brooklyn | La creatività nei quartieri, un fatto ordinario e non spettacolare. Implicazioni dell’istituzione di un distretto culturale in un quartiere di Brooklyn

This paper argues for a shift in perspective towards understanding urban creativity as an everyday occurrence, rather than a spectacular event. The case of Fort Greene’s proposed cultural district illustrates the complex implications of such initiatives. The introduction of a cultural district into a neighborhood already celebrated for its rich African-American cultural heritage has generated significant controversy. Critics argue that the plan is exploitative and fails to adequately support the existing artistic community, which is facing the pressures of gentrification

Il contributo metterà in evidenzia l’urgenza di pensare alla creatività urbana come fatto ordinario e non spettacolare, prodotto della vita quotidiana. La storia del quartiere Fort Greene offre il pretesto per investigare le implicazioni della retorica sulla creatività a livello locale. L’istituzione di un distretto culturale all’interno del quartiere già ampiamente affermato per la vivace scena culturale afro-americana, solleva il dissenso nella comunità artistica e degli abitanti. Il piano è accusato di strumentalizzare il quartiere che già c’è e si rivela poco inclusivo degli artisti che vi risiedono già sotto pressione per le fasi avanzate del processo di gentrification.

 

1. Introduzione
Il cambiamento dell’organizzazione dei sistemi produttivi che investe le città è leggibile oggi a partire dai quartieri. Infatti, in una logica che fa della città una macchina per la crescita economica (Logan e Molotoch 1987, Harvey 1989), i quartieri dalla vivace scena culturale registrano un grande successo e vengono investiti da nuove aspettative.
Aggettivazioni tra le quali quartieri culturali, quartieri degli artisti, villaggi urbani, post-modern neighborhood sono diventate di uso corrente nei discorsi sullo sviluppo locale.
In quanto merci complesse (Galster 2001) l’equilibrio al loro interno, legato all’abitabilità, alla diversità sociale e all’autenticità, sarà il primo a risentirne una volta che queste aggettivazioni saranno approdate nell’unità minima della convivenza che comunemente chiamiamo quartiere. Queste nuove descrizioni infatti sembrano a tutti gli effetti spostare l’attenzione dal quartiere come unità sociologica verso un’accezione legata al suo uso come “contenitore esperienziale”.
E’ importante sottolineare come, nella letteratura di riferimento, si sia passati da un ragionamento intorno alla città giusta, che guardava alla trasformazione con lo sguardo delle popolazioni più svantaggiate (vedi teorie sulla gentrification), a ragionamenti intorno alla città prosperosa, creativa, vitale, eccitante, the perfect location per la classe creativa, così come definita da Florida (2000).
Per comprendere meglio questo passaggio e le dinamiche di questi processi viene qui presentata la storia che ha visto protagonista il quartiere Fort Greene a Brooklyn: un microcosmo noto per la sua vivace scena culturale, debitrice alla cultura afro-americana; oggetto di un lungo ed estenuante processo di gentrification; e di recente sede dell’istituzione di un distretto culturale.
La ricerca qui presentata è stata condotta mediante partecipazione diretta alle attività dei neighborhood activist e delle communities attive nel quartiere e mediante interviste in profondità ai direttori delle istituzioni culturali, associazioni non-profit, artisti individuali, abitanti che, in modo diretto o indiretto, fabbricano (De Certeau 1990) il quartiere quotidianamente.

 

2. Fort Greene Brooklyn, da quartiere povero a quartiere degli artisti
Un recente rapporto dell’istituto Urban Future sulla città di New York intravede negli “art neighborhoods” una risorsa importante per lo sviluppo economico della città. Si tratta di una retorica basata sull’idea che un quartiere dalla vivace scena culturale possa funzionare come “motore di creatività”, prodotto dall’assimilazione da parte del mercato immobiliare delle strategie insediative degli artisti (Zukin 1989). Il fenomeno di migrazione degli artisti nei quartieri è stato ampiamente descritto come origine del fenomeno di gentrification in quanto ha comportato con il tempo il progressivo aumento dei costi delle compravendite delle stesse aree in cui gli artisti si concentravano. (Zukin 1987; Ley, 2003 )
Fort Greene ne è un chiaro esempio. Negli anni settanta, mentre il boom demografico e i modelli culturali spingevano gran parte della popolazione verso i sobborghi, artisti in bolletta e abitanti in cerca di una casa prestigiosa a basso costo cominciarono a scegliere Brooklyn come meta dove risiedere. Il quegli anni il quartiere usciva da un profondo declino, le case che venivano occupate erano principalmente vuote e la stagione di fermento culturale, che maturava nel quartiere, si sovrapponeva ad una idea del quartiere come “area povera e pericolosa”.
L’idea attuale che Fort Greene sia un quartiere degli artisti, infatti, getta le sue radici direttamente nel periodo di povertà e abbandono durante il quale si formò nel quartiere un crogiolo di musicisti e attori.
Oggi il quartiere risente profondamente delle nuove visioni strategiche per la città di New York, che fanno di Downtown Brooklyn terreno di investimento per nuovi grandi progetti. In particolare uno di questi progetti ha come obiettivo la costruzione di un Distretto Culturale che fa della vivacità del quartiere un terreno fertile da cui partire per la promozione di un progetto con tanto di firma archistar.
Per capire come si sia prodotta l’idea del quartiere degli artisti a partire da una connotazione negativa come “area povera”, è necessario ricostruire in breve la storia della vocazione culturale dell’area.

 

3. La vocazione culturale afro-americana di Fort Greene
Si apprende dalla letteratura che Fort Greene è stata per decenni mecca di intellettuali e artisti, in particolare per la presenza di numerosi artisti afro-americani il quartiere è considerato “the oldest and most Afro-centric artist community” (Woo, 2002).
Il legame che la popolazione afro-americana di Brooklyn ha instaurato con Fort Greene risale alla vocazione operaia del quartiere, quando i suoi residenti giungevano dal sud degli Stati Uniti per trovare occupazione nell’industria navale. Nel 1944 la NYC Housing Autority costruì un insediamento residenziale pubblico per 14000 abitanti che comportò l’afflusso di una popolazione a reddito basso e fisso. Pochi anni dopo l’arsenale chiuse e gli abitanti di Fort Greene vissero un periodo di profondo disinvestimento e di declino sociale. Dagli anni settanta però nuovi abitanti cominciarono a ristrutturare e rinnovare le abitazioni storiche abbandonate nel periodo di crisi e a trasferirsi nel quartiere. I nuovi arrivati erano a tutti gli effetti quei pionieri urbani descritti in letteratura come i responsabili del processo di gentrification, che inizialmente contribuirono ad occupare alloggi vacanti e al generale miglioramento delle condizioni dell’area. Negli anni Ottanta, inoltre, emerse in tutta Brooklyn una nuova black aesthetic che fece in particolare di Fort Greene una mecca culturale per la popolazione afro-americana. Il film “She is gota have it” di Spike Lee, che raffigura una classe media afro-americana molto sofisticata, viene girato nel quartiere e, successivamente, gli studi di registrazione del regista troveranno sede a Fort Greene che in pochi anni cominciò ad acquistare notorietà e venne incluso nella mappa dei quartieri hip e trendy di Brooklyn. L’orgoglio razziale espresso in arte, moda e in altre rappresentazioni culturali cominciò presto a coesistere con delle componenti cosmopolite e sofisticate. Nacquero i primi gruppi impegnati sui temi della diaspora africana e Fort Greene divenne noto nel circuito dell’espressione artistica internazionale. I magazzini lasciati liberi dall’industria navale cominciarono ad essere affittati dagli artisti e la scena culturale si trasformò in un mercato trainante tante che “ogni artista di discendenze africane ha pensato, nell’arrivare a New York di venire a Fort Greene”(Woo 2002). “Negli anni Novanta il numero di artisti afro-americani raggiunse l’apice della sua massa critica e produsse quel senso di “comunità artistica” e un preciso tipo di espressione culturale che gli ha fatto acquistare a Fort Greene la notorietà di un art neighborhood.
Fu allora che i segni rivelatori di un quartiere sofisticato e sempre più tendenzialmente aristocratico, cominciarono ad apparire. I primi ristoranti costosi e pretenziosi cominciarono ad aprire lungo Dekalb Avenue e, sebbene le conduzioni di alcune famiglie a basso reddito fossero tutt’altro che migliorate, la moda aveva già conquistato il quartiere.
E’ in questo momento che la gentrification diventa “erosiva” della diversità (Smith e Hackworth 2001): gli investimenti si fecero più corposi, l’azione pubblica sempre più incoraggiante nella promozione di nuovi investimenti immobiliari. Il nesso tra artisti e gentrification è, quindi, da ricercare nel valore attribuito alla produzione artistica, alle competenze culturali e alla loro capacità di attirare capitale economico (Ley 2003). Un alto livello di produzione culturale in una determinata scena urbana, insieme alle preferenze abitative di alcuni gruppi, (seppur inizialmente dotati di un basso capitale economico), determina uno spostamento dalla categoria di spazio privo di valore in luoghi dell’esperienza urbana che successivamente acquistano valore in termini di rendita fondiaria.

 

4. Fort Greene e il piano per il distretto culturale
La scena culturale del quartiere e la presenza degli artisti sono stati assimilati dalle amministrazioni locali come modi per attirare nuovi investimenti e produrre nuove metafore che giustifichino la crescita urbana. In un rapporto del Center for Urban Future del 2002 Fort Greene viene descritto come uno dei quartieri in grado di collaborare come “creative engine” all’economia locale della città e addirittura come sede di attività in grado di agire da attrattori di un pubblico internazionale.
Tra i progetti promossi uno in particolare mira a fare del quartiere un distretto culturale, il progetto per il BAM Cultural District promosso dal Downtown Brooklyn Partnership, una società mista che si occupa dello sviluppo di Downtown Brooklyn.
Il rapporto illustra il progetto come una iniziativa locale esemplare (Urban Future, 2002) frutto dell’iniziativa di una agenzia di sviluppo locale; il New York Time parla di un “Lincoln Center per Brooklyn”, ma non mancano pareri contrastanti.
Oggi, a Fort Greene, istanze razziali e di classe si mescolano con la generale insostenibilità del costo della vita e il BAMCD è percepito come una ulteriore pressione nel quartiere.
Tra le motivazioni principali per le quali il progetto non è ben visto si annoverano un atteggiamento speculativo delle caratteristiche del quartiere che “già c’è” per la promozione del futuro distretto e il fatto che il piano si sia rivelato poco inclusivo nei confronti degli artisti e istituzioni già presenti nell’area.

L’atteggiamento strumentale nei confronti della scena culturale già presente nel quartiere è dimostrato dalla retorica del piano. Il Piano redatto dal BAM LDC in collaborazione con lo studio OMA, New York, si presenta con l’intenzione di costruire un “Vibrant Mixed Used, Multicultural Art District in Downtown Brooklyn”. I nuovi investitori dovrebbero costruire ampi spazi per attività performative, con un misto di residenze e uffici, motivati dal fascino che il quartiere garantisce, utilizzando lotti vacanti di proprietà pubblica. Per assicurare che si tratti di un investimento sicuro il piano fa riferimento al quartiere gentrificato come condizione ottimale per il successo del distretto.
Se, da un lato, il piano suggerisce l’inclusione del “existing vibrant neighbourhood”, i depositari dell’assetto culturale del quartiere, formato da gruppi di artisti, associazioni culturali e istituzioni, non sembrano essere stati coinvolti nel progetto.
Con l’intento di dimostrare che il quartiere sia un “fatto culturale” in sé, gli artisti organizzano ogni anno l’evento Porte aperte degli artisti: aprono le porte delle loro case, rendono accessibili i magazzini abbandonati dove lavorano, per rendersi visibili.
Senza la fortunata occasione di partecipare all’evento, gli artisti non sarebbero mai usciti allo scoperto. Quando si parla di creatività urbana, infatti, sembra si faccia riferimento ad un’arte esplicitamente provocatoria che si riversa sulle strade e che usa la gli spazi della città in modo intenzionale.
Ma non tutti gli artisti lavorano così; non i jazzisti, né i pittori e tanto meno gli scrittori che abitano da queste parti. Lavorano in casa o nei magazzini riutilizzati; passano inosservati e contribuiscono alla “fabbricazione del quartiere” con i loro valori e i loro stili di vita, producendo un valore implicito, non apparentemente visibile.
Tra di loro i giovanissimi sono i più provvisori, sono arrivati per passaparola e affittano spazi di fortuna; altri hanno una casa di proprietà e possono considerarsi “artisti a tempo pieno”; il loro stile di vita è del tutto simile a quello degli altri abitanti.

Arte e quotidianità si confondono nella dimensione ordinaria e routinaria nelle pratiche della vita quotidiana.
È stato interessante notare come, sebbene il progetto per il distretto culturale avesse come obiettivo l’adeguamento e l’affidamento degli spazi alle associazioni culturali locali, interi magazzini e fabbriche dismesse, utilizzate come studio e laboratori dagli artisti, non siano stati inclusi nell’area progetto. E il problema non riguarda solo gli edifici. Di tutti gli artisti incontrati durante l’evento nessuno di loro era stato coinvolto nel piano per il distretto culturale e neppure ne conosceva il programma.

Questa prima acquisizione, insieme alle interviste svolte in profondità e alla ricostruzione delle vicende intorno al progetto BAM Cultural District, mi hanno permesso di interpretare il progetto come una operazione immobiliare incorniciata da alcune buone intenzioni: costruire un nuovo teatro, offrire spazi per gli uffici e nuove sale prova alle associazioni culturali impegnate sul fronte delle arti performative e, soprattutto enhance the momentum that already exist in the neighborhood. Ad oggi l’ambizione civica del progetto e dei sui promotori si è trasformata in una rosa di quattro imponenti torri alle porte del quartiere, sollevando dei dubbi sul fatto che possa considerarsi un distretto culturale.
L’inclusione e l’equità culturale dell’iniziativa hanno sollevato diversi dissapori, in particolare tra le associazioni culturali afro-americane del quartiere che hanno accusato il piano di essere white-oriented 1.
Le preoccupazioni in questo senso sembrano fondate: alcune delle istituzioni culturali afro-americane affermate localmente non sono state incluse nel progetto per il distretto culturale, come il teatro Paul Robinson e la scuola di Musica. Il criterio d’inclusione ed esclusione dal distretto culturale è stato accusato si essere, quindi, poco trasparente. La direttrice della scuola di Musica ritiene che “si cerchino generi alternativi, alla moda, mentre il programma della scuola è tradizionale” e ancora “bisognava essere conosciuti, affermati e capaci di sostenere le spese” An.
Inoltre, mentre si realizzano nuovi edifici per dare spazio ad associazioni culturali affermate ed emergenti, altrettante associazioni culturali, gruppi di danza e compagnie teatrali sono stati costretti a lasciare gli edifici nei quali avevano trovato uno spazio, perché insistevano nel perimetro dell’area progetto.
La scena culturale di Fort Greene sembra offrire le condizioni al contorno per il successo del progetto, ma il coinvolgimento dei gruppi locali non è stato affatto scontato. Selezionando alcune associazioni a discapito di altre l’agenzia di sviluppo del BAM ha operato scelte di marketing, infatti le associazioni incluse sono quelle più alla moda, più originali e questo ha comportato l’esclusione delle rappresentazioni culturali tradizionali del quartiere, soprattutto quelle che si identificano con un pubblico afro-americano, caraibico, caraibico-americano e di dirette discendenze africane. Il direttore del Robeson Theater, pensa che una mancanza di equità nel supporto alle istituzioni afro-culturali avrà una impatti significativo “in the cultural make up of Fort Greene”. E ancora“very few publications explored what will happen to the current cultural institutions in Fort Greene, particularly Afro-centric cultural institutions, and how they will fit within the cultural district” (Bailey 2005)
Anche sull’uso di fondi pubblici si sono aperte delle polemiche, la direttrice della Scuola di Musica sostiene che i fondi, dati alle associazioni incluse nel BAM Cultural District, potevano essere utilizzati per ristrutturare e migliorare le sedi delle istituzioni che già erano nel quartiere, a poche decine di metri dall’area progetto.
Nel 2006 un gruppo dal nome Concerned Citizens Coalition, sostenuto dalla comunità religiosa locale, ha promosso una campagna per promuovere delle alternative al piano. Le iniziative hanno portato all’inclusione nel distretto dei cori gospel. Ma non tutti gli intervistati sembrano essere d’accordo sul successo del gruppo CCC e pensano che l’inclusione questa istituzioni sia stata strumentale a “comprare il consenso dei cittadini”.
Tra le preoccupazioni rimangono senza soluzione quelle relative al retail displacement, la sostituzione dei negozio tradizionali del quartiere con altri più sofisticati. L’attività di 4W Circe è ampiamente riconosciuta nel quartiere per lo scrupoloso lavoro di promozione dell’artigianato africano, la direttrice afferma che la comunità si è sentita offesa all’idea di costruire un distretto culturale, perché loro stavano lavorando in questa direzione già da molti anni con il coinvolgimento dei commercianti. Non includendo le attività commerciali attualmente presenti nel quartiere in un piano complessivo i commercianti hanno paura di dover chiudere le loro attività.
Un altro dei temi sui quali l’equità culturale è stata messa a dura prova dal progetto per il Distretto Culturale è quello dello spazio. La domanda di spazio per le attività culturali è in continuo aumento, anche perché l’associazionismo è diventato un modo ricorrente nel mondo nella produzione culturale.
Per tentare di arginare questo problema il BAM LDC ha promosso iniziative che permettessero alle associazioni culturali di accedere a spazi in affitto, definendolo “un parziale antidoto per la rapida scalata dei prezzi che solitamente allontana gli artisti dal quartiere”. Eppure, nonostante lo sforzo dei promotori del progetto, le interviste dimostrano che la domanda di spazio dei gruppi di artisti più a rischio, quelli occupano capannoni industriali, non è stata intercettata dal progetto.
L’enfasi che il piano per il Cultural District ha dato al quartiere è, quindi, in contrasto con la palese esclusione dei gruppi locali. Questo porta alla conclusione che l’assetto culturale del quartiere sia stato strumentale alla costruzione strategica del progetto. Questa riflessione consente di sollevare un ulteriore critica a questo modello strategico di intervento nei quartieri: quella di pensare che un quartiere possa funzionalizzarsi alla stregua di un distretto. L’operazione immobiliare costruita intorno al progetto per il distretto culturale ha fatto della vitalità del quartiere e della scena culturale il motivo per la costruzione di una strategia progettuale orientata ad un offerta specifica: quella delle arti performative , della danza e dello spettacolo. Ma Fort Greene è molto di più.

 

5. Alcune osservazioni conclusive
L’esito del lavoro consente di comprendere il processo che sta investendo alcuni quartieri e di relativizzare il concetto di quartiere creativo/culturale a favore una dimensione ordinaria e meno spettacolare della creatività; nonché di problematizzare l’istituzionalizzazione del distretto culturale in quanto strumentalizzazione del quartiere come fatto culturale in sé.
Viene spontaneo chiedersi se non fossero mai stati creativi e culturali i quartieri prima di questo ritrovato interesse nel locale, e infine quanto queste aggettivazioni non siano controproducenti rispetto alla spontanea capacità degli abitanti e degli utilizzatori del quartiere di autodeterminare, mediante gli usi e le pratiche, l’identità dei contesti locali.
Il caso studio suggerisce come la creatività del quartiere non sia un fatto che si può tematizzare, quanto piuttosto “un documento d’azioni” (Geertz 1973), il risultato dalla sommatoria dei “modi di vita” (Williams 1989) di tutte le persone che abitano e frequentano il quartiere. E’ molto importante non attribuire una specificità culturale al quartiere, quanto considerarlo un fatto culturale a sé, prodotto dalla sommatoria indifferenziata di pratiche, stili di vita, azioni, espressioni individuali e di gruppo.
Questo modo di intendere la cultura come “way of life” è in profondo antagonismo con la prevaricazione della cultura del consumo e il suo recente approdo nei quartieri. Nel momento stesso in cui il quartiere diventa un oggetto desiderabile, appetibile, interessante per qualsivoglia motivo, la cultura del consumo fa di alcune specificità del quartiere un prodotto culturale da consumare come “pacchetto di esperienze urbane significative”. Infine è per questa fragile, complessa, molteplicità che il progetto per un distretto culturale rischia di produrre la degenerazione funzionale del quartiere, trasformandolo nel back stage di un “fatto strategico” a discapito della sua componente culturale come fatto ‘ordinario’ e non spettacolare. La ricerca di autenticità è uno dei punti nevralgici dei discorsi sul quartiere creativo-culturale. Se quello che fa gola è la dimensione autentica del quartiere, il suo legame diretto con uno stile di vita incontaminato, queste caratteristiche sono le prime a scomparire. Il rischio è quello di avere “quartieri culturali senza quartieri” oppure di trasformare il quartiere in un distretto.

1. “ cosa significa “pianificare un distretto culturale? Noi già ne abbiamo uno, noi siamo culturali! Dobbiamo costruirlo? Noi ci siamo cresciuti organicamente come gruppo di musicisti, scrittori, attori, poeti, musicisti jazz, giovani registi […] Trovo l’idea di costruire un distretto culturale offensiva per la comunità artistica esistente […] nella mia intera vita ci sono stati rari momenti in cui ho percepito una divisione di razza: una è stata quando durante i workshop di presentazione del progetto organizzati dall’agenzia di sviluppo due artisti locali non sono stati riconosciuti idonei per il lavoro che fanno”.

 

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