Does culture deserve public funds? – La cultura merita i fondi pubblici?

The relationship between cultural activities and public funds is subject to an endless torment. As always, the hosts settle on opposite sides and to frighten the opponents adopt doomsday arguments. The most used adjective is ‘right’, which should find little citizenship in a system permeated by expressive freedom, project intuition, relational richness. Until the spectrum of Benedetto Croce continues to hover over Italian cultural things (and perhaps also European) we end up turning a technical question into an ethical dilemma. Exploring the varied case studies of cultural projects carried out with a variable combination of own and derived revenues, mostly from public sources, we begin to see the coordinates of paths not necessarily linear, and often fragile in the logical plant. The overabundance of public funds at all levels of government (starting from that of the European Union and ending on the municipal) has been over the years counterbalanced by the byzantine obsession to issue erga omnes banns, in order to dodge the charge of intelligence with the enemy. The effect has been to superimpose and contrast the map of formalities to the map of concrete actions, letting aseptic protocols and opaque negotiations coexist peacefully, doors full of stamps with the star and clogged corridors of winking relationships and agreeing agreements.

Il rapporto tra attività culturali e fondi pubblici è oggetto di un interminabile tormentone. Come sempre, le schiere si assestano su fronti opposti e per atterrire gli avversari adottano argomenti da giorno del giudizio. L’aggettivo più usato è ‘giusto’, che dovrebbe trovare poca cittadinanza in un sistema permeato da libertà espressiva, intuizione progettuale, ricchezza relazionale. Ma, ahimé, fin quando lo spettro di Benedetto Croce continua ad aleggiare sulle cose culturali italiane (e magari anche europee) finiamo per volgere una questione tecnica in un dilemma etico.

 

Esplorando la variegata casistica dei progetti culturali realizzati con una combinazione variabile di entrate proprie ed entrate derivate, per lo più di fonte pubblica, si cominciano a vedere le coordinate di percorsi non necessariamente lineari, e spesso fragili nell’impianto logico. La sovrabbondanza di fondi pubblici a tutti i livelli di governo (partendo da quello dell’Unione Europea e finendo su quello municipale) è stata negli anni controbilanciata dall’ossessione tutta bizantina di emettere bandi erga omnes, in modo da schivare l’accusa di intelligenza con il nemico. L’effetto è stato quello di sovrapporre e contrapporre la mappa delle formalità alla mappa delle azioni concrete, lasciando convivere serenamente protocolli asettici e negoziati opachi, sportelli carichi di timbri con lo stellone e corridoi intasati di relazioni ammiccanti e accordi compiacenti.

 

Certo, lo scopo era far sopravvivere la cultura. E l’effetto è stato di paralizzarne le pur brillanti capacità progettuali. A monte c’è la griglia del bando, a valle si adatta qualsiasi cosa pur di rientrare nei requisiti formali. Il che fa sospettare che molti progetti culturali non hanno mai visto la luce perché fuori misura, e che molti altri sono nati per soddisfare l’ansia di finanziamento – e dunque di graziosa approvazione – da parte del Principe di turno. Anche qui, simboli più che fatti. Non importa che il progetto rappresenti un canale per le urgenze creative ed espressive, conta molto di più che la conferma e la dimensione del finanziamento confermino il gradimento di chi comanda. Roba che un marziano considererebbe censoria, servile e priva di contenuti. Ma i marziani non esistono, o comunque non sono ancora venuti a chiedersi che luogo sia l’Italia.

 

Come avviene nei romanzi più intriganti, la cultura resa inferma da farmaci sbagliati somministrati in dosi massicce a un certo punto si è imbattuta nella falce contabile che ha tagliato senza alcun criterio ma con molta determinazione i bilanci pubblici, drenando risorse che erano comunque destinate alla copertura della spesa corrente e quasi per nulla all’attivazione di investimenti in infrastrutture, tecnologia, capitale umano e promozione cross-mediale. E’ comprensibile che il degente reclami un ritorno alle dosi precedenti, ma forse è il caso di avvertirlo che dare un farmaco sbagliato a un malato cronico lo fa spegnere più velocemente. Fuori di metafora, il sistema culturale continua a rimpiangere mondi passati (e non del tutto verificati) e si mostra renitente a qualsiasi analisi del paradigma in entrata, certo non paragonabile nel bene e nel male agli anni Sessanta e Settanta dei quali l’attuale sistema è tuttora figlio legittimo.

 

Nel frattempo molte cose accadono. Lo Stato dismette, i lavoratori occupano, i giuristi lavorano producendo talvolta degli strani OGM a cascata dalla rassicurante etichetta della fondazione, i giovani professionisti trovano le porte sbarrate, e il pubblico comincia a scoprire approcci, luoghi e modalità innovative di progettare arte e cultura, di solito al di fuori dei consueti canali convenzionali. Forse è il momento di interrogarci sulla pertinenza del finanziamento pubblico della cultura, estraendolo dallo scomodo loculo in cui esercita un ruolo simbolico e quasi metafisico e accogliendolo in un alveo concreto ed empirico che ne enfatizzi l’infungibilità. I fondi pubblici dovrebbero rispondere a un obiettivo strategico irrinunciabile: creare e rafforzare quell’humus materiale, tecnico e cognitivo che può stimolare e facilitare progetti e iniziative artistiche e culturali. Lo snodo cruciale – come del resto nell’Italia rinascimentale, altra cosa spesso citata ma poco conosciuta – è il palinsesto territoriale e umano nel quale la cultura nasce e attecchisce forte e sostenibile.

 

Va male, dunque? In tutte le fasi di passaggio radicale, come è quella di questi anni, si teme sempre di risvegliarsi più scomodi di quando ci si è addormentati. Ma molto dipende dalla capacità e dal desiderio di diventare adulti, accettando la scomparsa delle stampelle e avventurandosi in un percorso in cui inciampare insegna a camminare. Se in passato il sistema è diventato asfittico nel suo complesso non si può dire che nulla funzionasse; al contrario, pur in un ecosistema statico non sono state poche le iniziative e le azioni culturali capaci di generare un impatto notevole e solido sulla qualità della vita urbana, sul reticolo di relazioni critiche, sul benessere della comunità residente. Simmetricamente, non mancano – anzi, risultano in crescita progressiva – le azioni scaturite dal basso nelle quali l’idea progettuale prevale sulle opzioni di sostegno finanziario. Chi crede davvero in un progetto fa di tutto per realizzarlo e sa muoversi dentro le maglie scomposte di regole obsolete. L’arte invisibile, la cultura non convenzionale, o semplicemente i progetti creativi forti e dinamici riescono comunque a radicarsi nel territorio e a produrre valore.

 

Una ricognizione prospettica può dunque aiutarci a fare il punto per decidere in che direzione orientare il timone. Leggere con la dovuta attenzione i contributi di Valentina Montalto sull’uso dei fondi strutturali e sulle opzioni possibili nel prossimo futuro, e di Clementina Casula su capitale sociale e imprenditorialità locale in un’esperienza grass root, mette a fuoco ciò che di più significativo emerge da una storia recente complessa ma ricca di buone pratiche e si dirige verso un futuro da interpretare, i cui profili fondanti possono essere disegnati anche attraverso nuovi paradigmi creativi, artistici e culturali. E’ il momento di rialzarci dagli allori ormai secchi e polverosi. La scommessa culturale passa attraverso la volontà di combinare opportunità e responsabilità. La nostra società è sempre più meticcia (condizione fortunata e fertile, quanto lo era stata nella Roma del Septimontium che venerava la dea Xenia), attivare un profondo meticciato cognitivo tra culture, approcci, stili e strategie può finalmente proiettarci verso il futuro, abbandonando il salvagente dei fondi pubblici e imparando a nuotare.