La produzione di autenticità per il mercato. Un’esplorazione nel campo della popular music

Ormai da qualche tempo, le imprese tenterebbero in ogni modo di offrire prodotti che possano essere percepiti come autentici da parte dei consumatori. In effetti, sembra che sia soprattutto in questo modo che possano ottenere un certo successo di mercato. Ma sono effettivamente in grado di proporre qualcosa di autentico? Di fronte a questo interrogativo, il presente articolo si propone di esaminare alcuni aspetti chiave dell’offerta di autenticità e, analizzando in particolare l’evoluzione dei significati del concetto di autenticità nel contesto della popular music, cerca di individuare le modalità con cui gli operatori di tale settore starebbero cercando di offrirla al mercato.

Introduzione
“Autenticità, autenticità e originalità”. Queste, in base al famoso saggio di Richard Peterson (1997, p. 3), sono le tre risposte che, negli anni Cinquanta, sarebbero state date più di frequente dai produttori di musica country che si trovavano di fronte alla domanda chiave: “Che cosa cercate nelle nuove leve della musica country?” E in effetti era proprio l’autenticità che cercavano. Del resto sapevano che era proprio l’autenticità a essere desiderata dagli appassionati di quel genere musicale. Pertanto, è solo tramite l’offerta di un parco artisti che apparissero realmente genuini agli occhi del pubblico che si sarebbero assicurati un certo successo di mercato.
Questa tendenza sembrerebbe oggi essere sempre più comune. Attualmente, infatti, non solo nel contesto della musica country, ma in moltissimi altri settori, una crescente fetta del mercato sarebbe via via più attratta da ciò che riconosce come autentico (Gilmore e Pine 2007), ovvero da tutto ciò che sembra essere genuino, mantenere un legame con la storia, oppure essere realizzato con una particolare passione e non necessariamente per accrescere i profitti di qualcuno (Grayson e Martinec 2004).
Tra le tendenze più rilevanti che si sono recentemente diffuse nel mercato, quella della ricerca di autenticità da parte degli individui, e di conseguenza anche da parte delle imprese, sembra quindi una delle più significative (Brown 2001). Effettivamente, anche solo osservando le vetrine, i giornali, gli annunci pubblicitari, i siti Web, non è difficile rendersi conto del largo uso che viene quotidianamente fatto di parole chiave come “genuino”, “originale”, “vero” o “autentico” appunto. Tutto questo, come sostengono Gilmore e Pine (2007), avrebbe un’unica spiegazione: questo genere di prodotti vende. E il successo di riedizioni di brand classici come Cinquecento (Cucco e Dalli 2008), Mini (Brown 2001) o New Beetle (Brown, Kozinets e Sherry 2003), la diffusione dei prodotti tipici e dei cibi etnici, così come il ritorno del vintage, ne sarebbero chiare dimostrazioni (Cova 2003).
Tuttavia, pur essendo questo fenomeno ormai chiaro a moltissimi operatori del mercato, l’offerta di autenticità resterebbe un’operazione piuttosto complicata (Gilmore e Pine 2007). In primis perché se è vero che il nuovo consumatore cercherebbe soprattutto beni o servizi autentici, è altrettanto vero che, salvo rare eccezioni, i prodotti del mercato tenderebbero per loro natura a essere etichettati come “commerciali”, ovvero come oggetti realizzati solo per dar luogo a un profitto, e quindi come qualcosa di in – autentico (Belk e Costa 1998; Kozinets 2002). Ma c’è anche un altro motivo. L’autenticità, in base a quello che scrivono soprattutto i sociologi e gli antropologi, non sarebbe un valore necessariamente associato alle proprietà intrinseche degli oggetti (Peterson 2005). Anzi, sarebbero soprattutto i media, la comunicazione, gli stessi consumatori, a far parte di un processo attraverso il quale il valore degli oggetti sarebbe costruito socialmente. Si pensi ad esempio a come, dal punto di vista oggettivo, un ristorante tipico cinese situato in Europa sia generalmente abbastanza diverso da un originale cinese. Ciò nonostante, grazie a un’efficace presentazione di ciò che è comunemente accettato come “tipicamente cinese”, il ristorante potrebbe ugualmente essere ritenuto autentico, specialmente da chi un vero ristorante cinese non l’abbia mai visto (Lu e Fine 1995). Secondo questa prospettiva, quindi, l’autenticità potrebbe anche essere costruita, e di fatto molto spesso avverrebbe proprio questo. È bene però fare attenzione che se, da un lato, l’autenticità potrebbe senz’altro essere “fabbricata” dal produttore (Peterson 1997), dall’altro, essa tenderebbe a trasformarsi nel tempo, a seconda del contesto, del periodo e del target di riferimento (Bruner 1994), rendendo così particolarmente arduo il lavoro delle imprese interessate a offrirla ai propri consumatori.
Nell’ottica di chiarire questo secondo importante aspetto, il presente articolo si propone l’obiettivo di svolgere una breve analisi dei diversi significati assunti dall’autenticità in un contesto specifico: quello della popular music. Tale ambito è stato selezionato perché, come sostiene ad esempio Sarah Thornton (1998, p. 43), “probabilmente l’autenticità è il valore più importante ascrivibile alla musica leggera”. Trattandosi di un prodotto culturale, infatti, gli individui sarebbero particolarmente esigenti proprio nei confronti di tale valore. Inoltre questo settore è uno di quelli che, ad esempio a causa delle diverse tecnologie che nel corso degli anni si sono avvicendate, si sarebbe modificato di più, finendo per dare origine a standard di autenticità completamente diversi, e costringendo così sia gli artisti sia i produttori a rivedere più volte i propri comportamenti per cercare di adeguarsi ad essi.
In particolare, il metodo scelto per affrontare l’argomento è quello della rassegna della letteratura. Vale a dire che saranno considerati alcuni importanti contributi provenienti dalla letteratura specialistica che ha precedentemente affrontato tale tema, con il duplice scopo di fornire, in primo luogo, un quadro generale che aiuti a comprendere il processo di trasformazione dell’autenticità nel tempo e, in secondo luogo, alcune indicazioni sul ruolo che le imprese potrebbero/dovrebbero cercare di assumere per essere in grado di offrire autenticità al mercato.

L’evoluzione del concetto di autenticità nel contesto della popular music
Prima dell’esplosione del rock’n’roll, gli artisti popolari si esprimevano soprattutto attraverso la musica folk tradizionale, la quale si basava esclusivamente su esecuzioni fatte da cantanti, che si accompagnavano con una chitarra acustica e che, rivolgendosi a un ristretto numero di persone, riuscivano a creare uno stato di fusione unico con il pubblico. Di conseguenza, quando la tecnologia permise ai singoli brani musicali di essere fissati in modo indelebile su dei supporti e di poter essere riprodotti e riascoltati all’infinito da milioni di persone (Benjamin 2008), favorendo così lo sviluppo della popular music che conosciamo oggi, furono in molti – come ben illustrato negli studi di Adorno e Horkheimer (1972) o di Baudrillard (1983) – a guardare la cosa in modo pessimista e a presagire una perdita di autenticità da parte di tale genere di musica. Di lì a poco, infatti, la nascita del disco avrebbe provocato la scomparsa del rapporto reale e diretto tra esecutore e ascoltatore, e la musica sarebbe stata privata di ciò che Benjamin (2008) definiva aura, ovvero della sua unicità e originalità. L’arte dei suoni si sarebbe invece trasformata in un normale bene di consumo e, secondo i più critici, avrebbe perso qualsiasi valore estetico o segno d’autenticità (Adorno e Horkheimer 1972; Attali 1985).
Il famoso sociologo Simon Frith (1981), tra i più importanti studiosi della popular music, fa comunque osservare come – nel corso degli anni – la tecnologia abbia semmai trasformato il concetto di autenticità, ma non abbia impedito che essa continuasse a sopravvivere. L’autore, in particolare, ricorda cosa avvenne quando ad esempio negli anni Trenta si cominciò a usare il microfono, e come fossero in molti a sostenere che i cantanti si sarebbero comportati artificialmente e avrebbero espresso emozioni false. In seguito, però, quando il microfono divenne più familiare e mutò le convenzioni legate al ruolo dell’esecutore, rendendone sexy la voce e spostando l’attenzione dalla canzone al cantante, diventò il veicolo di nuove forme di autenticità. Stessa cosa quando, negli anni Cinquanta, furono usate per la prima volta le chitarre elettriche: prima si disse che avrebbero alienato la musica dalle sue radici popolari, poi, quando furono completamente integrate ad esempio nella cultura rock, quel suono graffiante che solo una chitarra elettrica avrebbe potuto produrre, divenne il simbolo della stessa musica rock (Frith 1981). Un esempio interessante in proposito è quello di Bob Dylan, il quale, dopo essersi distinto come cantautore/cantastorie tipicamente folk, si presentò sul palco del Newport Folk Festival con tanto di band al seguito e di strumentazione elettrica. Inutile ricordare che il pubblico, non essendo ancora pronto a questo cambiamento radicale, lo attaccò duramente, lo accusò di aver profanato la musica folk e iniziò a ritenerlo inautentico. Ciò nonostante, quando nel periodo della contro-cultura la musica rock (o folk-rock) iniziò a essere considerata il punto di riferimento dei giovani, il mezzo attraverso cui celebrare i valori comunitari e discutere i problemi sociali, svolgendo – di fatto – il ruolo che prima era stato della stessa musica folk, Bob Dylan fu riconsiderato autentico, venne di nuovo acclamato dal pubblico e finì per ottenere un successo travolgente, anche per aver contribuito a rendere possibile questo passaggio storico (Spaziante 2010, p. 41).
Un processo analogo è stato quindi anche quello del disco. Dopo le critiche iniziali, probabilmente furono i Beatles, i primi a capire che le nuove tecniche di produzione avrebbero sì rappresentato una minaccia alla genuinità del rapporto tra esecutore e ascoltatori, ma avrebbero anche creato le condizioni per lo sviluppo del concept album. Nel 1966, infatti, i Fab Four incisero il famosissimo e rivoluzionario Revolver e iniziarono a concepire il disco non più come qualcosa di secondario e di derivato, ma come un prodotto importante in quanto tale (Thornton 1998, p. 45). Revolver sarebbe così passato alla storia anche per contenere un tipo di musica che, almeno in quel momento, non sarebbe stato possibile eseguire dal vivo, e per aver quindi dato vita a una nuova forma d’arte (Frith e Horne 1987), che proprio grazie alle potenzialità delle nuove tecnologie, si sarebbe spinta ben oltre quella che era la realtà della musica praticabile dal vivo. In questo modo, il rapporto tra registrazione in studio e concerto dal vivo venne progressivamente rovesciato; e alcuni gruppi, come gli stessi Beatles, decisero addirittura di non esibirsi più dal vivo, in quanto i concerti iniziavano a rappresentare un ostacolo alla loro creatività musicale (Thornton 1998, p. 99). Il rapporto diretto col pubblico si era perciò trasformato e tendenzialmente interrotto o limitato, ma in compenso la musica si stava arricchendo di un linguaggio diverso, che facendo un uso via via più frequente di strumenti inusuali per un gruppo rock (corni, violoncelli, sitar), avrebbe creato un sound completamente diverso e rivoluzionario, e soprattutto inimmaginabile anche solo qualche anno prima (Castaldo 2008, p. 54). L’importanza del concerto, peraltro, sarebbe stata riscoperta poco dopo, in contrapposizione alla diffusione della musica dance, che si basava esclusivamente sul disco e che, secondo molti, risultava fredda, standardizzata e inautentica. Il concerto rock tipico degli anni Settanta avrebbe invece permesso di recuperare il contatto diretto con il pubblico, senza per questo abbandonare l’aiuto della tecnologia, che nel frattempo – come mostrano i concerti dei Grateful Dead o dei Pink Floyd – avrebbe consentito di portare anche sul palco, tutta la strumentazione tipica delle sale di registrazione (Thornton 1998, p. 101).
L’evoluzione successiva, infine, riguarderebbe l’invenzione dei videoclip musicali, e il fatto che – sempre di più – il pubblico si aspetterebbe di vedere ai concerti uno spettacolo simile o migliore di quello cui l’avrebbero abituato i video musicali stessi (Shuker 2001, p. 175). Per rispondere a tale esigenza, un elemento tipico di molti concerti avrebbe quindi iniziato a essere la proiezione di video su grande schermo, che trasmettessero momenti di video musicali dell’artista e, soprattutto, che mostrassero inquadrature in diretta del musicista, di modo che il pubblico potesse godere di quell’intimità cui si sarebbe abituato guardando la televisione (1). Questo cambiamento, tuttavia, non avrebbe evitato che più di recente si manifestasse un’altra minaccia all’autenticità. È stato, infatti, notato come concerti di questo tipo rischino di diventare una sorta di spettacoli televisivi (Codeluppi 2003, p. 36), in cui gli spettatori finirebbero per seguire l’evento direttamente sul grande schermo, con conseguente perdita del contatto diretto con l’artista e, in più, di un ingrediente fondamentale dei concerti stessi: la spontaneità (2). Storicamente, in effetti, artisti come Janis Joplin, Jimi Hendrix o Jim Morrison, sarebbero diventati leggendari anche per le loro performance dal vivo e, in pratica, non solo perché erano dei musicisti all’avanguardia, ma anche perché (forse grazie all’uso di droghe e alcol) riuscivano a offrire agli spettatori delle prestazioni assolutamente eccezionali. Ogni loro concerto risultava diverso, e la loro spontaneità e improvvisazione li rendeva degli eventi irripetibili (3) (Thornton 1998, p. 103). Pertanto, seppure per gli artisti più famosi i grandi concerti continuino a rivestire un’importanza centrale, non è raro trovarne qualcuno, come ad esempio Ligabue (Santoro e Troilo 2007), che da qualche tempo starebbe cercando di rivivere l’atmosfera magica del piccolo concerto nei pub o nei teatri, dove, non esistendo schermi né tecnologie particolarmente sofisticate, sarebbe possibile recuperare un contatto più diretto, più spontaneo e più autentico con gli ascoltatori.
In definitiva, questa breve rassegna illustra quanto il concetto di autenticità sia dinamico e tenda a trasformarsi nel tempo al variare del contesto di riferimento. In questo esempio era la tecnologia l’elemento fondamentale che provocava dei continui cambiamenti e determinava la nascita e il declino di diversi (alternativi) concetti di genuinità. Peraltro, tutte le forze strutturali, economiche e culturali, più in generale, avrebbero un enorme impatto sulla società e sarebbero in grado di mutare continuamente i gusti, le esigenze e i desideri degli individui, così come il significato di cos’è “originale”, “tipico”, “in accordo con la tradizione”, “commerciale”, “inautentico”, e così via. E in particolar modo, ciò che magari può risultare autentico in un certo contesto spazio-temporale, potrebbe essere considerato assolutamente inautentico in quello successivo. Che cosa dovrebbero fare quindi le imprese per riuscire a offrire qualcosa di autentico? E che cosa, al giorno d’oggi, sarebbe considerato autentico nello specifico contesto della popular music?
La prossima sezione cerca di rispondere a queste domande.

Conclusioni
Da quanto si legge nel fondamentale lavoro di Gilmore e Pine (2007), intitolato emblematicamente Authenticity: what consumers really want, è evidente l’importanza progressivamente acquisita dal valore dell’autenticità nel mercato, e i due autori sostengono in proposito che, da qui a qualche tempo, le imprese più vincenti saranno proprio quelle che riusciranno a soddisfare meglio di altre il bisogno di autenticità avvertito dai consumatori. Com’è stato mostrato sopra, però, l’offerta di autenticità si contraddistinguerebbe come un’operazione alquanto difficile, e in effetti nel libro scritto dai due autori americani viene indicato come, solo le imprese disposte a rivedere completamente l’attività di gestione dei rapporti con il mercato, potranno ambire a raggiungere questo obiettivo. L’ottica meccanicistica del marketing tipicamente nordamericano (Kotler e Levy 1969), che cerca di essere sempre e comunque orientato all’innovazione, dovrebbe quindi essere abbandonata in ragione di una nuova concezione, che invece faccia leva su un orientamento meno invasivo nei confronti dell’esperienza dei consumatori e cerchi piuttosto di offrire prodotti che possano essere percepiti come autentici (Brown 2001; Cova 2003). A tal fine, quindi, dovrebbe essere abbracciata soprattutto l’idea di lavorare a livello simbolico, di modo da ricostruire idealmente la propria tradizione e da mostrare una grande passione per i prodotti stessi, mentre gli aspetti commerciali dovrebbero essere adeguatamente oscurati (Beverland 2005; Holt 2002). Da qualche anno viene inoltre notato come un modo appropriato per inseguire questo obiettivo, pur con le difficoltà connesse alla natura dinamica e fuggevole dell’autenticità, sarebbe quello di coinvolgere maggiormente il consumatore nelle proprie attività. Secondo vari autori (Arnould e Thompson 2005; Vargo e Lusch 2004), infatti, l’obiettivo del marketing dovrebbe diventare quello di riconoscere all’individuo il suo contributo nella creazione del valore dei prodotti che consuma, e di avvicinarsi così alle sue reali esigenze, anche – e forse soprattutto – di tipo esistenziale e ideologico (Kozinets e Handelman 2004).
A tale proposito, il settore musicale riveste sicuramente un certo interesse, in quanto tali politiche starebbero riscuotendo un crescente successo proprio presso le imprese che lavorano nell’offerta di beni e servizi edonistici, quali appunto la popular music. Probabilmente il caso più celebre e lungimirante in questo senso è quello di Bruce Springsteen, che durante i suoi concerti è solito decidere solo una parte della scaletta, mentre alcuni pezzi vengono inseriti in base alle richieste dei suoi fan, i quali – in questo modo – contribuirebbero effettivamente a creare l’evento cui stanno assistendo, e ne diventerebbero parte attiva a tutti gli effetti. Un’iniziativa più recente, ma che va sempre in questa direzione, è stata quella di Vasco Rossi, che durante il tour Il mondo che vorrei (2008) ha dedicato una sezione dei suoi concerti alla ricreazione dell’atmosfera tipica della spiaggia, in cui un ragazzo (in questo caso lo stesso Vasco Rossi) si accompagna con la chitarra intonando delle canzoni insieme agli amici, che in quest’occasione erano le migliaia di persone presenti all’evento, con le quali l’artista ha instaurato un dialogo diretto, volto a farle partecipare attivamente nella costruzione di quel momento magico. Di nuovo, le persone presenti al concerto avrebbero assunto un ruolo centrale nello spettacolo, e tendenzialmente non avrebbero più dubitato della spontaneità e dell’autenticità di un evento, che si sarebbe costruito dinamicamente, anche grazie al loro contributo. Un ultimo caso interessante è, infine, quello di Patty Pravo, che per il Natale del 2009 ha pubblicato un DVD che ha deciso di chiamare Circola un video su di me, poiché le immagini del concerto in esso contenuto sono state effettivamente girate dai suoi fan, che l’hanno ripresa a sua insaputa. È evidente, dunque, come l’operazione consenta di vedere lo spettacolo in base alla lente utilizzata degli stessi ammiratori della cantante, che in questo modo avrebbero assunto un ruolo di primo piano nella definizione del prodotto, che per la sua originalità è stato presentato e discusso addirittura alla Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Roma Tre.
In definitiva, sembrerebbe che le imprese stiano progressivamente ponendo maggiore attenzione ai consumatori, rendendoli a tutti gli effetti parte attiva del lavoro (a questo punto) di co-produzione del valore che offrono al mercato. In questo modo, infatti, da un lato, eviterebbero agli individui di sentirsi raggirati o manipolati dal mercato e, dall’altro, renderebbero i propri prodotti sempre più vicini alle loro reali esigenze. Come notato, il contesto della popular music si presta particolarmente per questo genere di approccio, e in effetti l’attuale offerta di autenticità in campo discografico, specie nel campo dei live, sembrerebbe proprio passare per il riconoscimento ai consumatori di un ruolo più attivo nella costruzione della propria esperienza musicale, che altrimenti risulterebbe standardizzata, omologata e inautentica. Ci sono comunque implicazioni anche per numerosi altri contesti, che vanno dagli altri settori dell’intrattenimento al turismo, dai servizi allo sport. Secondo Carù, Cova e Maltese (2008), ad esempio, un po’ tutte le imprese interessate a offrire ai propri consumatori la possibilità di vivere delle esperienze speciali, potrebbero trarre spunto da questo modo innovativo di concepire l’esperienza stessa, e dovrebbero considerare il processo d’immersione degli individui in tali esperienze come un qualcosa che avvenga in modo parziale e progressivo, mediante alcune operazioni di appropriazione. In altre parole, il cosiddetto marketing esperienziale (Resciniti 2004), oggi applicato a un numero sempre maggiore di settori, dovrebbe essere declinato attraverso una serie d’iniziative come l’“accompagnamento del consumatore”, l’“attenzione all’esperienza collettiva” e lo “sviluppo delle competenze dei consumatori”, volte proprio ad affiancare l’individuo nel suo processo di creazione dell’esperienza e a renderlo un soggetto attivo e indipendente, piuttosto che a farlo naufragare in un’infinità di stimoli sensoriali senza soluzione di continuità, che non porterebbero ad altro che a un suo annientamento.

Note
1) Peter Gabriel, nel corso del tour Secret World (Thornton 1998, p. 101), e più tardi Vasco Rossi nell’ambito del tour Rewind, sarebbero venuti incontro a questo desiderio dei fan, addirittura montandosi una piccola videocamera sopra la testa, attraverso cui il pubblico avrebbe potuto avere la loro stessa visuale del concerto.
2) La fase della performance è ormai completamente standardizzata e chiunque assista a un concerto dello stesso artista più di una volta nel medesimo tour, si può facilmente rendere conto di come la struttura drammaturgica e narrativa dello spettacolo sia in buona sostanza la stessa (Sibilla 2006, p. 61).
3) Il concerto punk avrebbe poi condotto all’estremizzazione di tale tendenza: abilità musicale che lasciava a desiderare e comportamento d’impatto da parte dei protagonisti sul palco (Thornton 1998, p. 103).

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