The end of prevention: Our greatest emergency. | La vera emergenza è la fine della cultura della prevenzione

How far have we truly come in safeguarding and making accessible Italy’s cultural heritage and parks? This is the fundamental question raised by Marco Eramo and Federica Gandolfi in their contributions to this edition of Tafter Journal. A timely question for a nation that has a habit of proclaiming noble intentions, as enshrined in its Constitution, only to spectacularly fail to live up to them.
Earthquakes, landslides, floods, and environmental disasters are constant reminders of the devastating human and economic consequences of our neglect and the abandonment of the culture of prevention and maintenance, particularly when it comes to public heritage and the environment.

A che punto stiamo, davvero, con la protezione e l’utilizzo sociale del patrimonio culturale e dei parchi italiani? Questa la domanda sostanziale che sottintende i contributi di Marco Eramo e di Federica Gandolfi pubblicati in questo numero di Tafter Journal. Una domanda assolutamente pertinente in un paese abituato a declamare buoni propositi, a partire dalla Carta Costituzionale, e a negarli clamorosamente.
Terremoti, frane, inondazioni, disastri ambientali, ci ricordano ciclicamente il “costo” umano ed economico delle nostre distrazioni e l’abbandono della cultura della “prevenzione” e della “manutenzione”, a partire dal patrimonio pubblico e dal territorio. Attività quotidiane, umili, di servizio, che non producono visibilità mediatica e che per questo sono spesso ignorate da amministratori pubblici, nazionali e locali, sempre più abituati a costruire il proprio “consenso” sul clamore di eventi, buoni per le “carriere politiche”, ma non sempre coincidenti con gli interessi generali delle comunità amministrate. Al punto tale che gli stessi disastri vengono sempre meno letti come severi moniti per le nostre pregresse negligenze e sempre più come occasioni per costruire consenso e, nel cono d’ombra dell’emergenza, per cancellare l’evidenza pubblica nell’affidamento di appalti e servizi. L’Aquila docet, mentre prende consistenza l’idea che il patrimonio culturale sia, in via ordinaria, materia da protezione civile e da procedure d’emergenza. I costi economici e morali di questi processi degenerativi  sono enormi. Così come le calamità naturali mettono a nudo la fragilità della prevenzione, l’analisi critica delle politiche di tutela dei beni culturali e paesaggistici fa emergere limiti che richiederebbero incisività ed innovazione nell’azione di governo, a partire da una “politica nazionale” per proteggere il territorio dagli effetti devastanti della dispersione urbana e del consumo di suolo agricolo.
In Italia la protezione ambientale del territorio è sostanzialmente affidata ai parchi e alle aree protette disciplinati dalla legge quadro 394/91. Dal primo libro bianco su “Parchi e Cultura”, presentato al pubblico da Federparchi e Federculture nel 2009, emerge che il territorio italiano sottoposto a tutela tramite parchi e aree protette si attesta intorno al 12%, contro una media UE del 18,4% e una punta del 59,4% della Germania che, come sarebbe auspicabile anche in Italia, ha posto sotto regime di protezione anche gran parte del territorio rurale.
Ma il dato quantitativo fotografa solo una parte del nostro deficit. In Italia, non solo sono percentualmente inferiori i territori protetti, ma anche laddove sono stati istituiti parchi e aree protette, si assiste senza porvi rimedio, al diffuso insorgere d’inerzie, conflitti istituzionali e lentezze burocratiche che ne impediscono il decollo.  Senza nulla togliere alle buone pratiche (che pure esistono e vanno sostenute), bisogna riconoscere che gran parte del territorio italiano è protetto solo virtualmente.
Da un’indagine di Federculture del 2005 emergeva che, a quattordici anni dall’emanazione della legge n. 394/91, solo due enti parco nazionali su ventitré avevano un piano approvato, e che solo dieci lo avevano predisposto. Dal Ministero dell’Ambiente apprendiamo che nel 2009 i piani in vigore sono quattro.  Una situazione che mette in luce l’esistenza di territori vincolati, ma non gestiti.
Sul piano delle risorse finanziarie si assiste ad una progressiva riduzione dei trasferimenti pubblici attribuiti agli enti parco, in modo più marcato per quelli nazionali. La crescita della capacità di autofinanziamento dei parchi, passata da una media del 12% del 2003 al 33% del 2007, non compensa la riduzione dei trasferimenti statali e degli altri enti pubblici.  Anche in questo caso ci sono esperienze d’eccellenza che non modificano tuttavia un quadro che tende a confinare i parchi più tra i “problemi” che non tra le “risorse” del paese, com’è invece auspicabile e sicuramente possibile.
Per questo serve però innovare, indagando sui limiti dell’attuale modello istituzionale e della strumentazione giuridica, studiando i casi migliori e confrontando le nostre esperienze con quelle europee.  In questo scenario temi come la disponibilità pubblica dei beni sottoposti a vincoli ambientali ed il coinvolgimento dei privati nelle attività di tutela e valorizzazione non sono per niente marginali.
Ma serve la volontà di farlo, partendo dall’assunto che, parchi, aree protette e territorio rurale, sono la cornice di uno sviluppo equilibrato e duraturo, senza la quale la nostra fragilità ambientale è destinata a crescere, così come i danni economici.
Per queste politiche non servono però commissari o procedure d’emergenza, ma competenze, rigore scientifico, senso di responsabilità e spirito di servizio nell’esercizio quotidiano del potere politico e amministrativo.