Le catastrofi naturali non esistono

Da sempre la domanda è la stessa: perché si torna a vivere dove il terremoto scuote la terra, dove il vulcano erutta o lo tsunami si gonfia? La risposta non è così semplice e va data inquadrandola nella sua prospettiva storica.

Da sempre la domanda è la stessa: perché si torna a vivere dove il terremoto scuote la terra, dove il vulcano erutta o lo tsunami si gonfia? La risposta non è così semplice e va data inquadrandola nella sua prospettiva storica. Agli inizi della storia dell’uomo molto spesso non si conosceva la vera natura di un vulcano: gli stessi romani – nonostante le ipotesi di Strabone – non sospettavano in alcun modo che il Vesuvio potesse essere un vulcano. Ed è perfettamente comprensibile che non si pensasse al benché minimo collegamento fra alcune precise regioni della Terra e i terremoti che si agitavano nel profondo. O che non si sapesse che questi potessero poi causare maremoti lungo le coste. Successivamente qualcosa cambia, specie in Oriente. Kashima è da tempo immemore l’unico dio giapponese che riesce a tenere sotto controllo Namazu, il pesce-gatto che provoca i terremoti agitandosi nel sottosuolo, in un Paese dove hanno compreso, prima che nel Mediterraneo, che si tratta di un fenomeno naturale frequente come la pioggia o il vento. Da noi, invece, la cultura degli eventi naturali, nei fatti, non si è mai pienamente affermata e ancora oggi vengono chiamate catastrofi naturali quelle che sono in realtà causate esclusivamente dalla presenza o dagli atti dell’uomo. Le calamità naturali non esistono, esiste solo il naturale divenire di un pianeta attivo e dinamico e la nostra incapacità di tenerne conto.

 

Da questo punto di vista il terremoto e il maremoto di Sumatra del 2004 e gli eventi di Fukushima del 2011 sono esemplari. Gli indigeni delle isole del Sud-Est asiatico sanno bene che non ci si deve insediare permanentemente lungo le coste dell’oceano, così come lo sapevano un tempo i popoli che vivevano attorno ai vulcani di tutto il mondo. Secoli fa però una giustificazione c’era: piuttosto che la certezza della morte per fame, era sempre meglio rischiare la fine a causa di una nube ardente, visto che la prima poteva avvenire in ogni stagione, mentre la seconda era una probabilità meno frequente. Inoltre i territori vulcanici sono per loro natura molto fertili per via del potassio e degli altri elementi nutrienti e dunque più adatti alla coltivazione: perché allontanarsi da una fonte di vita? Infine le colate di lava o i tufi forniscono pietre da costruzione a buon mercato in grande abbondanza, materiali spesso rari o faticosi da procurarsi altrove. Dove c’è un vulcano ci sono, in pratica, maggiori opportunità economiche rispetto ad altre zone meno rischiose – soprattutto quando mancano alternative valide – anche se lì si è costretti a puntare su progetti socio-economici a corta scadenza, che tendono a realizzare profitti prima dell’aggravarsi del rischio. Sono regioni, quelle, in cui gli uomini sviluppano una certa resistenza all’impatto dei disastri attraverso un progressivo adattamento al rischio.

 

Tutti questi buoni motivi potevano funzionare secoli fa e funzionano alla stessa maniera oggi nei Paesi del mondo più povero. Non sono più, invece, comprensibili nel mondo ricco contemporaneo e meno che meno in Italia. La costruzione di edifici abusivi fino quasi dentro il cratere del Vesuvio non ha alcuna scusante relativa alla fame – per fortuna oggi assente – e ha un aggravante oggettiva nella grande disponibilità di informazioni sulla pericolosità delle pendici del vulcano a maggior rischio d’Italia. I morituri nello tsunami di Sumatra non avevano molte alternative: o si accumulavano in casupole mal costruite accanto ai grandi alberghi di cemento armato degli occidentali bianchi per garantire loro vacanze di sogno in riva al mare, oppure crepavano di fame. Esattamente come i circumvesuviani di secoli fa. Così come le costruzioni abusive (e non) lungo le coste della Sicilia e della Calabria tirrenica – soprattutto nell’area dello stretto di Messina -, oppure a nord del Gargano o lungo i litorali laziali e liguri creano oggettivamente un pericolo dove non ci sarebbe, esponendo beni e uomini al rischio naturale (nel caso di un maremoto).

 

Il risultato paradossale è che – complessivamente – oggi siamo più vulnerabili di ieri, nonostante tutto il nostro preteso progresso: le cosiddette catastrofi sono questione di uomini e da questo punto di vista, sulla Terra, nessuno è al sicuro e più sei povero, meno puoi stare tranquillo. Sulla Terra ogni anno si registrano alcune decine di scosse sismiche di una certa magnitudo, ma, se si vuole contarle proprio tutte, si deve arrivare ad alcune centinaia di migliaia, forse un milione. Insomma il terremoto è un avvenimento comune, proprio come la pioggia che cade o il vento che soffia, ma l’uomo non sembra aver ancora preso confidenza con un fenomeno da cui tipicamente ci si difende a fatica, soprattutto per ignoranza e inadeguatezza, ma a cui in definitiva scampare non è possibile.

 

Eppure non è il terremoto che uccide, ma l’edificio che ci crolla addosso: paradossalmente un sisma, anche violentissimo, in aperta campagna non produrrebbe alcun effetto sensibile, se non un senso di vertigine o, al massimo, uno sbilanciamento. Il terremoto è dunque diverso dagli altri eventi naturali, anche se le sue conseguenze catastrofiche sono, in qualche misura, meno evitabili di quelle, per esempio, delle colate rapide di fango che ogni anno funestano molte regioni del mondo. In quei casi si sarebbe potuto (e dovuto) scegliere di abitare altrove – dove era stata riconosciuta l’assenza di rischio -, nel caso dei terremoti, invece, oltre a costruire meglio o a rinforzare l’esistente, altro non si può fare, a meno di non voler evacuare per sempre intere regioni. E’ anche un problema di informazione e conoscenza, quanti italiani di buona cultura, ben informati e curiosi sanno effettivamente di cosa si parla quando si nominano le onde sismiche? Chi sa come erutta un vulcano? O perché avviene una frana?

 

Per questo il problema va affrontato a livello di base: le vere radici della scarsa alfabetizzazione scientifica in Italia allignano nelle scuole: programmi vecchi, libri di testo non adeguati e un corpo docente complessivamente impreparato ai compiti educativi che questo inizio di secolo impone in chiave ambientale. Queste ragioni sono alla base di quel senso di ineluttabilità di fronte agli eventi naturali, di quel pessimismo ambientale, di quella visione del territorio in chiave negativa che ancora oggi sono fortemente radicati nella gente, specie al Meridione d’Italia. Il tutto aggravato dal fatto che in questo Paese ancora nessuno paga per gli “errori” in campo di salvaguardia ambientale: è troppo facile – e non va favorita – la richiesta dello stato di calamità naturale per le alluvioni durante l’autunno, quando si prepara il terreno al disastro durante tutto il resto dell’anno. Attualmente siamo in possesso di una base di conoscenze tale per cui ci dovrebbe essere sempre meno spazio per la sola protezione civile e sempre di più per la prevenzione ambientale (seguendo il ben noto principio per cui un euro in prevenzione equivale a cinque in recupero).  E’ molto chiaro, però, che le cose non vanno in realtà così.

 

Non c’è alcun ambiente nemico, non esistono onde assassine o frane killer o vulcani colpevoli: non c’è una natura che si corrompe a causa del peccato dell’uomo e poi agisce contro di lui. Semplicemente gli eventi naturali sono indifferenti ai bisogni e alle pretese degli uomini o di altri animali. Quel diluvio che decreta la fine di ogni essere vivente non è una punizione simbolo del dolore divino per i peccati degli uomini (Genesi 6.13), è solo la storia naturale del pianeta Terra.

 

In ultima analisi i fattori che hanno provocato il maremoto di Sumatra o le eruzioni vulcaniche del Vesuvio o le frane di Sarno sono gli stessi che hanno consentito a questo pianeta di sviluppare forme di vita. Esattamente gli stessi. Se guardiamo le vittime o i danni o gli uomini senza tetto o le specie estinte o gli animali annichiliti, i fenomeni naturali non sembrano certo positivi o comunque utili. Ma per quanto possa sembrare paradossale, gli stessi fenomeni mortiferi sono responsabili della vita e della sua evoluzione sulla Terra. I vulcani partecipano alla formazione dell’idrosfera e dell’atmosfera con vapore acqueo, anidride carbonica, zolfo; formano terreni e suoli ricchi di minerali utili; secernono metalli e minerali preziosi, forse sono l’incubatrice prima della vita al fondo di antichissimi bacini oceanici. Del resto pianeti privi di attività vulcanica e sismica, privi di acqua e alluvioni non ospitano la vita: i pianeti senza dinamica interna sono morti. E se ci sono continenti che si muovono ci sono terremoti e montagne che si alzano, e se ci sono montagne che si alzano ci sono frane che cadono e fiumi che straripano: la Terra è fatta così e non ha senso lamentarsi di quelli che sono, in definitiva, i nostri necessari presupposti.

 

La differenziazione degli ominidi dagli altri primati è avvenuta non a caso in una particolare regione del mondo, quella grande fossa tettonica dell’Africa orientale che prende il nome di Rift Valley. Le montagne create dalla Rift Valley hanno trattenuto le precipitazioni in arrivo nel settore occidentale, dove continuano a vivere – con altre difficoltà – i gorilla e gli scimpanzé della foresta pluviale che lì si è potuta mantenere. Nel settore orientale, invece, il clima è diventato più secco e la savana è divenuto l’elemento cardine del paesaggio: se volevano sopravvivere, i nostri progenitori dovevano adattarsi, e lo hanno fatto sviluppando una stazione eretta perfettamente bipede. Anche quei nostri antenati erano agitati da terremoti e eruzioni vulcaniche di un sottosuolo inquieto, ma si trattava esattamente degli stessi fenomeni che avevano permesso la loro evoluzione. Come noi erano figli di una Terra inquieta, ma al contrario di noi si sentivano veramente tali.