Due facce della stessa medaglia, due esempi di corto-circuito positivo tra mondo economico, cultura e dimensione territoriale. Da una parte il fenomeno del distretto culturale avviato in Canada, dall’altra il coinvolgimento delle imprese profit nel settore culturale. In entrambi i casi, interventi pratici che danno conto di come evolve la teoria quando diventa realtà.
Se guardiamo ai distretti, la letteratura sull’argomento si allunga di giorno in giorno. Esiste tutto un apparato teorico che, in Italia, da Becattini in poi, ha definito le peculiarità e le potenzialità di sviluppo dei distretti, dai distretti industriali propriamente considerati fino ai distretti culturali. La principale caratteristica dei distretti, ovvero l’ispessimento localizzato di marshalliana memoria ed il sistema fitto di interdipendenze e di relazioni costanti e reciproche, caratterizzano spesso il settore culturale, per il quale la forma di “distrettualizzazione” si basa su una trama di relazioni e di attività di valorizzazione attraverso la cultura immateriale (dal patrimonio demo-etno-antropologico; alla produzione di arte contemporanea, dalle industrie dell’audiovisivo e del multimediale, dall’editoria, dall’industria della moda e del design).
Tra i tanti casi di rilievo, uno degli ultimi è stato approntato nella città di Montreal, sin dall’inizio degli anni Novanta quando si impostò una strategia ben definita che aveva come obiettivo la creazione di distretti industriali, alcuni dei quali legati al settore creativo. L’ultimo in ordine di tempo è il distretto del cinema e dell’audiovisivo. Si tratta di un esempio lampante di quanto il distretto culturale, basato su un efficace sistema di governance, in cui sulla base di finanziamenti sia pubblici che privati, sia un reale volano di sviluppo economico poiché comprende ben 500 imprese del settore e 35000 posti di lavoro ed un modello che lega locale a globale attraverso un attraverso un progetto di cooperazione che unisce questo distretto ad altri esistenti in Europa.
Quanto all’intervento delle imprese in cultura, un’illuminante indagine ha fatto emergere che l’impegno in cultura è un’altra faccia delle politiche in tema di responsabilità sociale messe in campo dalle aziende, le quali investono in cultura, generalmente attraverso lo strumento delle erogazioni liberali, senza aspettarsi un ritorno commerciale.
La vera novità è data dal fenomeno poco indagato del coinvolgimento di piccole e medie imprese nel settore, finanche più estensivo e meno sporadico di quello delle grandi imprese; le pmi ancora una volta si confermano come la spina dorsale del sistema imprenditoriale italiano, anche se, in questo caso, sono lasciate a loro stesse, poiché troppo poco considerate dagli enti pubblici che dovrebbero facilitare la connessione con realtà culturali attive a livello locale (magari di piccole e medie dimensioni) che pure danno conto della vivacità del sistema cultura.
Si tratta di fluidificare processi di comunicazione che possono davvero essere efficaci sia per gli uni che per gli altri, facendo incontrare le esigenze di realtà imprenditoriali, territorialmente ben radicate e strettamente collegate alle comunità di appartenenza, in modo da cogliere l’opportunità di risorse private altrimenti utilizzate in altro modo.