Nuove frontiere della produzione: la digital fabrication
Quando si parla di imprese o progetti innovativi è piuttosto comune raccontare di come le idee nascano “per caso”, quasi cascando sulla testa degli inventori come la mela di Newton, e di come soltanto in seguito se ne scopra la portata rivoluzionaria. Non credo sia il caso della digital fabrication, un’innovazione tecnologica e organizzativa che più che nascere dall’intuizione di un singolo sembra poter agire da scintilla per le invenzioni di centinaia di creativi.
Questo processo, figlio di quella che nell’ambito della produzione industriale è conosciuta come “prototipazione rapida”, ha raggiunto negli ultimi anni grande notorietà anche presso un pubblico non specializzato, soprattutto grazie all’evoluzione tecnologica di alcune modalità di produzione come la stampa 3D. Avremo occasione di tornare più avanti sui dettagli tecnici: nel corso di questo articolo cercherò di spiegare anche le ragioni per cui, a giudizio di molti osservatori, la digital fabrication può essere la protagonista di una “nuova rivoluzione industriale” in grado di democratizzare la produzione di oggetti in un modo simile a quello con cui la stampa di Gutemberg democratizzò la conoscenza (Hanna, 2011).
Per farlo partirò raccontando l’esperienza di un piccolo e fumoso laboratorio milanese (di cui sono co-fondatore) che da qualche mese sforna migliaia di oggetti, unici come fossero lavorati a mano ma realizzati alla stessa velocità di una stampante da ufficio.
Il caso Vectorealism
Il laboratorio è un caos di materiali e attrezzi. Il cuore dell’attività è il laser cutter, un macchinario colorato che ricorda vagamente una grande fotocopiatrice che mastica fogli di plastica e legno anziché carta.
Sbirciando dentro il laser, si può vedere una lastra di plexiglas rosso che viene tagliata con precisione millimetrica lasciando piccole bruciature ai bordi. Sul tavolo di fianco la aspetta un imballo per la spedizione, destinazione Zurigo. “Stiamo tagliando un case per una stampante 3D di tipo RepRap”, spiega la fondatrice Eleonora Ricca. “Il progetto e i file per il taglio sono disponibili gratuitamente online: il cliente – che in questo momento si trova in Francia – ha scaricato il progetto e i disegni da un sito (americano), li ha caricati su Vectorealism per far produrre in Italia il case e ha scelto infine di spedirlo direttamente nel suo ufficio a Zurigo. Una volta lì, assemblerà la stampante e sarà in grado a sua volta di produrre da solo i componenti necessari per fabbricare altre stampanti 3D dello stesso tipo. Se poi gli serviranno altri case colorati e personalizzati, potrà sempre ordinarne ancora da noi”, continua.
Quando decide di aprire Vectorealism, Eleonora Ricca è da poco laureata in Disegno Industriale. Come molti altri suoi compagni di corso, dopo gli studi ha iniziato a lavorare per grandi agenzie di comunicazione, finendo per occuparsi molto più di marketing che di product design in senso stretto. Quando mi parlò per la prima volta di aprire in Italia un servizio di digital fabrication innovativo e rapido come quelli già presenti negli Stati Uniti o a Berlino, feci inizialmente fatica a comprenderne le potenzialità. Quello che mi intrigò fin da subito fu invece la possibilità di gestire via web il processo attraverso una piattaforma di e-commerce innovativa (Ponoko). Inizialmente concentrati su questo aspetto, interpretavamo la “localizzazione” del servizio (in Italia, a Milano) quasi come secondaria, influente soltanto sui costi di spedizione e sulla qualità della vita di noi che ci lavoravamo.
Eravamo convinti che quella degli appassionati di fabbricazione digitale fosse una piccola nicchia di visionari “designer”, più inclini ad ordinare comodamente via web che non a sporcarsi davvero le mani. Ci sbagliavamo: per molti makers milanesi il computer è infatti soltanto l’ultimo ostacolo tra l’idea e la sua materializzazione; è anche per questo che ogni iniziativa volta alla semplificazione e alla divulgazione di conoscenze legate alla produzione (come l’evento WeFab(1) tenutosi durante il Fuorisalone) ha riscosso grande successo e interesse. Nel primo anno di attività, il piccolo laboratorio di Vectorealism – pensato per essere soltanto un pick-up point del sito – ha ospitato quindi riunioni, brainstorming, sessioni di hacking, diventando in breve un punto di riferimento per le comunità fabbers milanesi in stato nascente.
Ma che cos’è il fabbing?
Come accennato, la digital fabrication (o fabbing) è il processo attraverso cui è possibile creare oggetti solidi e tridimensionali partendo da disegni digitali (Wikipedia). Il nome “vectorealism” illustra quindi con precisione didascalica ciò che accade in un laboratorio di fabbricazione digitale: si passa in pochi minuti da un file vettoriale ad un oggetto reale, tangibile e in tre dimensioni.
Per compiere questa lavorazione è possibile utilizzare sia tecniche “sottrattive” sia “additive”. Le prime sono per esempio quelle utilizzate da frese a controllo numerico, oppure dai laser cutter come quello che usiamo a Vectorealism: con queste tecniche gli oggetti vengono ricavati “per sottrazione” scavando o tagliando i materiali.
Parlando in senso proprio di prototipazione rapida o direct manufactoring si fa però riferimento principalmente a tecniche additive, mediante le quali gli oggetti vengono creati nella loro forma definitiva attraverso la sovrapposizione di sottilissimi strati di materiale (layer manufactoring). A differenza delle modalità sottrattive, questo processo di fabbricazione è in grado di generare forme estremamente complesse senza l’ausilio di stampi o attrezzature, e soprattutto senza produrre scarti di materiale dovuti alla lavorazione. I materiali trattabili con le diverse tecniche additive sono moltissimi, tra cui plastica, metallo, ceramica o sabbia.
Nell’ambito della prototipazione rapida, le tecniche additive sono conosciute e utilizzate ampiamente ormai da decenni per produrre modelli e avere un’idea quanto più possibile verosimile dell’oggetto che si sta progettando prima della sua produzione in serie. Negli ultimi anni però, l’attenzione dei media e degli osservatori nei confronti di questa modalità di fabbricazione è aumentata vertiginosamente, facendola conoscere ben al di là della nicchia di professionisti del design e dell’ingegneria che fino a quel momento si erano interessati al tema.
Le ragioni di questa improvvisa notorietà sono certamente molteplici: in primo luogo va considerato l’enorme progresso tecnico di una particolare tecnica additiva, la stampa 3D, con la quale è possibile produrre direttamente e in pochi minuti oggetti talmente realistici da non richiedere ulteriori finiture per essere utilizzati. Per esempio, grazie ad un brevetto del M.I.T. di Boston acquisito dalla Zcorp (attualmente uno dei più importanti player mondiali nel mercato delle stampanti 3D), alcune 3D printer utilizzano cartucce simili a quelle delle stampanti comuni che però – anziché spruzzare inchiostro – spruzzano un liquido a base di colla su uno strato di polvere di ceramica. In questo modo riescono in pochi minuti a consolidare, strato dopo strato, un oggetto tridimensionale e a colori (Giodice, 2008).
Il “momento magico” per la stampa 3D sembra confermato anche dall’andamento del mercato: secondo il rapporto di Wohlers Associates, uno dei più accreditati osservatori di questo settore, il tasso annuo di crescita delle entrate derivate da prodotti e servizi di manifattura additiva è stato nel 2010 del 24.1% (Wohlers Associates, 2010). Lo stesso rapporto contiene anche un altro dato molto interessante per chi intravede nel fabbing l’alba di una grande innovazione economica e sociale: oltre il 20% dei prodotti stampati in 3D non sono prototipi e modelli, ma prodotti finiti; secondo Terry Wholers, questo dato salirà al 50% entro il 2020 (Wohlers Associates, 2010).
Ecco quindi la chiave di volta per la gloria (per ora soltanto mediatica): l’idea di poter produrre uno ad uno e a basso costo dei prodotti finiti è quanto di più vicino all’idea di mass customization si possa immaginare. Lo scenario futuristico in cui bisogni dei consumatori sempre più sofisticati e individualizzati verranno soddisfatti da piccoli laboratori più o meno casalinghi in grado di produrre “praticamente qualunque cosa”(2) sembra quindi ormai alle porte.
Lo scorso febbraio la rivista inglese The Economist dedica la cover story alla stampa 3D; il pezzo principale, dal titolo eloquente “Print me a Stradivarius”, riportava: “alcuni prevedono un futuro in cui i consumatori scaricheranno dei prodotti da internet allo stesso modo in cui oggi scaricano la musica, e li stamperanno a casa o presso un service locale dopo aver modificato il prodotto secondo i loro gusti. Si tratta certamente di un sogno lontano, ma in ogni caso una nuova rivoluzione industriale può essere alle porte” (The Economist, 2011).
Lo scenario descritto con maestria giornalistica dall’Economist contiene tutti gli elementi essenziali per interpretare le potenzialità innovative del fabbing come modello di produzione e consumo: l’evoluzione del gusto dei consumatori verso la personalizzazione estrema, la presenza di “service locali” (o casalinghi!) attrezzati con tecnologie in grado di produrre rapidamente qualunque oggetto, la possibilità per chiunque di accedere a “librerie online” contenenti oggetti da modificare e stampare(3).
Se gli oggetti diventano algoritmi
L’ipotesi che ad ogni oggetto possa corrispondere un un “codice sorgente” che ne consente la riproduzione fisica, la condivisione via internet e la modifica apre spunti di riflessione suggestivi. Dopo numerosi tentantivi teorici di applicare al reale le metafore del free software e dell’open source (Pasquinelli, 2004), il fabbing sembra quindi la strada giusta per riuscire a sussumere completamente ai principi dell’economia della conoscenza anche processi inequivocabilmente tangibili come quelli della manifattura e dell’artigianato.
Anche Neil Gershenfeld, direttore del M.I.T. Center for Bits and Atoms e “padre spirituale” dei FabLab(4), intravede nella diffusione del fabbing una dinamica simile a quella che ebbe l’informatica negli anni ’70. “La prossima rivoluzione sarà portare la programmabilità dei computer nel resto del mondo. Ci sono incredibili somiglianze tra quello che sta succedendo con la personal fabrication e la storia della transizione dal Mainframe ai PC” (Gershenfeld, 2003).
Esattamente come nel caso dell’informatica, anche il mondo della produzione e del design industriale sta subendo infatti negli ultimi tempi l’influenza della subcultura “Open” e dei paradigmi “Peer to peer”; la digital fabrication sembra quindi rappresentare un naturale sviluppo “fisico” di quanto già ampiamente teorizzato riguardo i benefici di ecosistemi aperti per l’innovazione e la diffusione della conoscenza.
In questa prospettiva, i digital fabricator, perlomeno della loro visione più fantascientifica, godono del fascino dell’idea che anche gli oggetti fisici possano diventare non-rivali e non-esclusivi, esattamente come la pura informazione (Benkler, 2006).
Cory Doctorow, scrittore di culto della maker culture, sintetizza così il legame indissolubile tra il “creare” (inteso come insufficiente traduzione dell’equivalente anglosassione “make”), e il “conoscere”(5): “Making, in short, is not about making. Making is about sharing. La ragione per cui possiamo costruire così tanto al giorno d’oggi è perché la conoscenza di base, le capacità e gli strumenti per fare qualunque cosa sono già disseminati, e formano un terreno fertile in cui far crescere qualunque ispirazione” (Doctorow, 2011).
In un sistema economico in cui la produzione degli oggetti viene “democratizzata”, il software e le competenze necessarie per usarlo diventano quindi l’unica forma di capitale necessario per accedere ad un sistema produttivo. Ecco perché diventano essenziali per i maker anche le scelte strategiche di gradi player dell’industria del software come Autodesk, che recentemente ha destinato forti investimenti allo sviluppo del mercato mondiale della creatività e del DIY (Torrone, Autodesk Acquires Instructables: What It Means for Makers, 2011). Prodotti di facile utilizzo e distribuiti gratuitamente come 123D, o Sketchup di Google, possono dare un contributo decisivo nella transizione verso il fabbing di massa.
L’assottigliamento del confine tra produzione e consumo comporta quindi necessariamente un profondo mutamento di ruolo per “intermediari” come gli attuali designer di prodotto, e sposta definitivamente il baricentro di potere (inteso come forza abilitante alla creazione) verso il singolo consumatore finale. Citando Michel Bauewens: “in questo sistema [peer economy, ndr.] non esistono prodotti finiti, ma soltanto artefatti in continua evoluzione. Non esiste un giudizio a priori, ma soltanto giudizi a posteriori e distribuiti. […] Tale sistema non è pensato per produrre incentivi al lavoro, ma si limiterebbe a rimuovere gli impedimenti che attualmente limitano l’espressione delle persone” (Bauwens, 2010).
Una biblioteca di attrezzi
In apertura di questo articolo ho citato la stampa di Gutemberg come esempio di innovazione tecnologica “distruttiva” per l’economia della conoscenza. Trovo sia un esempio più adeguato del software per spiegare ciò che può essere in gioco parlando di digital fabrication estesa anche ai non-appassionati, e soprattutto di ciò che piccoli laboratori come i FabLab possono rappresentare per la società e il territorio che li ospita. In un altro articolo comparso quest’anno sulla rivista “Make”, Philip Torrone azzarda un paragone non del tutto iperbolico tra i Techshop (catena di laboratori attrezzati per i makers che si sta rapidamente diffondendo negli Stati Uniti) e le biblioteche. “Per molti di noi, I libri sono strumenti di conoscenza. In questo senso, le biblioteche possono essere considerate come grandi raccolte di strumenti: perché quindi non aggiungere alle biblioteche anche “veri attrezzi” in futuro?” (Torrone, Is It Time to Rebuild & Retool Public Libraries and Make “TechShops”?, 2011).
Al momento gran parte dei FabLab ha un approccio orientato alla formazione, ed èospitato da università o centri di ricerca (Troxler, 2010). Essi nascono con l’obiettivo di “abilitare le persone a definire problemi, prototipare soluzioni e prodotti e far nascere così nuove imprese” (Tiala, 2011). L’impatto sul territorio e sull’innovazione che è possibile aspettarsi può essere misurato sia in termini di innovazione pura (numero di brevetti), sia come aumento del “capitale umano” e delle competenze STEM (science, technology, engineering, math) presenti nel territorio.
È certamente presto per poter giudicare l’efficacia di questi modelli: gran parte delle iniziative istituzionali e di ricerca legate al fabbing sono infatti in una fase davvero pionieristica. Chi scrive è convinto però che la strada giusta sia tracciata. Affinché le nuove tecnologie impattino davvero sullo sviluppo economico e diventino nuovi paradigmi organizzativi sarà necessaria innanzitutto un’azione culturale in grado di valorizzare esperienze di consumo come gli hobby e il fai-da-te in chiave tecnologica. Nel suo piccolo, credo che Vectorealism stia già contribuendo ad avvicinare ad un pubblico inesperto una tecnologia per specialisti, e certamente ha consentito a diversi hobbysti di cimentarsi con l’avvio di piccole imprese e attività di vendita dei propri prodotti creativi.
Note
(1) WeFab Days: la prima edizione di WeFab, organizzata in collaborazione con OpenWear e svolta durante il FuoriSalone 2010, ha visto la partecipazione di oltre 500 persone. Durante i tre giorni si sono svolti contest di design (Design Smash), laboratori aperti su tecnologie innovative (3D printing, Arduino), nonché seminari e momenti dimostrativi. Sul sito ufficiale dell’evento sono disponibili report fotografici di tutti gli eventi (WeFab, 2011).
(2) L’espressione è mutuata dal celebre corso del MIT che ha dato via ai FabLab, intitolato appunto “How To Make (Almost) Anything” (Wikipedia).
(3) La più grande e nota di queste librerie è al momento Thingiverse, legato all’azienda produttrice di stampanti 3D Makerbot (Thingiverse).
(4) I FabLab (digital fabrication fabbing laboratory) sono piccoli laboratori attrezzati con diverse macchine per la produzione, controllate da computer. Esistono FabLab negli Stati Uniti e in diversi paesi europei, ma anche in India, Afghanistan, Ghana, e Costa Rica (Menichinelli, 2011). Il modello del FabLab è stato teorizzato all’interno del M.I.T., che continua a curare informalmente il processo di apertura di nuovi laboratori nel mondo. In Italia è stato aperto un FabLab temporaneo all’interno della mostra “Stazione Futuro – Esperienza Italia” dedicata ai 150° anniversario dell’Unità d’Italia.
(5) È da quando abbiamo aperto Vectorealism che sono alla ricerca di una traduzione adeguata della parola “maker” e più in generale del verbo “to make” riferito alla cultura Do-It-Yourself. Credo che l’equivalente italiano, “creativo”, abbia infatti un’accezione comune riferita principalmente a chi ha un’idea, come un artista, ma non certo a chi la realizza, come per esempio chi per passione realizza prodotti elettronici personalizzati o opere di piccola ingegneria (che viene invece chiamato nella migliore delle ipotesi “artigiano”, nella peggiore “bricoleur” o “smanettone”). Questo retaggio linguistico che forza la distinzione tra l’ideatore e l’esecutore – con tutti i risvolti snobistici tipicamente europei che ne conseguono – costringe per esempio a dover specificare la parola “manuale” dopo “creatività” per indicare prodotti di piccolo artigianato e autoproduzioni. Nella cultura anglosassone, sotto l’etichetta di “maker” si possono riconoscere invece anche inventori, designer, hardware hackers. Per questa ragione tendiamo ultimamente a non tradurre il termine “maker”, nella speranza che penetri nella lingua italiana insieme alla sua sottocultura di riferimento.
Bibliografia
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