Reasons for preservation – Le ragioni della tutela

The defense of landscapes, historical heritage, artistic and cultural activities, urban livability standards, public spaces, and an environment threatened by quantitative development that ignores the natural limits of exhaustible resources. Defense. This is the daily bulletin of an unprecedented, epochal clash between nature, culture, and development. A clash pitting two opposing forces: those who equate development with continuous (goods) growth and those who advocate for the protection of the environment and culture.

Difesa del paesaggio, del patrimonio storico, delle attività artistico-culturali, degli standard di vivibilità urbana, degli spazi pubblici, dell’ambiente minacciato da uno sviluppo quantitativo che non considera i limiti naturali delle risorse esauribili. Difesa. Questo il bollettino quotidiano dello scontro epocale, e del tutto inedito, tra natura, cultura e sviluppo. Uno scontro che vede contrapposte due ragioni: quella che identifica lo sviluppo con la crescita continua (di merci) e quella della tutela dell’ambiente e della cultura. La prima ragione ha una forza incommensurabilmente maggiore della seconda. Lo sviluppo quantitativo soddisfa, infatti, bisogni attuali: del capitalismo, del mercato, del consumo immediato di beni e di servizi.
La tutela, invece, proietta i suoi benefici in un domani che interesserà comunque le generazioni future. E naturalmente s’immagina che non sarà la prossima e neppure la successiva – a cui ci sentiamo affettivamente legati -, ma quelle più avanti nei secoli. La sviluppo corrisponde ad interessi forti, privati e ben identificabili; la tutela coincide con interessi deboli, sociali e diffusi. Paesaggio, cultura, tradizioni, sono beni comuni: appartengono a tutti e a nessuno e hanno bisogno di un soggetto collettivo per rappresentarli. Non è un caso che la maggior parte delle risorse per la valorizzazione di questi beni si trovino nei bilanci pubblici, così come pubblici sono gli strumenti giuridici – i vincoli e i piani pubblici – per evitarne la distruzione. Nel linguaggio mediatico i sostenitori della crescita continua sono gli innovatori; i sostenitori della tutela sono i conservatori: una grossolana deformazione della realtà che, tuttavia, ha fatto proseliti.
La tutela stessa viene declinata come “conservazione”. Una visione che tende a far ricadere sui sostenitori della tutela le responsabilità della contrazione del prodotto e dell’occupazione, quindi della crisi. Al di là del fraseggio di maniera, secondo il quale nessuno oggi si professa nemico dell’ambiente e della cultura, questo è il duro scontro a cui stiamo assistendo quotidianamente. Ragioni dello sviluppo e ragioni della tutela sono, nella concreta realtà storica, fattori antitetici. La crisi finanziaria e la recessione dell’economia sono destinate ad acuire questa contrapposizione e non è difficile immaginare che, se non ci saranno cambiamenti, le conseguenze peggiori saranno a carico della tutela. Da qui bisogna partire per immaginare strategie all’altezza della sfida. La mia opinione è che buona parte delle classi dirigenti italiane non consideri cultura e natura come “risorse” per lo sviluppo, ma elementi “sovrastrutturali”, ornamenti in grado di qualificare il contesto produttivo da cui dipende la ricchezza reale, ma non certo di modificarlo o di orientarlo. Al massimo si concede ai beni culturali e paesaggistici la funzione di sostegno all’economia turistica. Secondo questo approccio, cultura e ambiente non producono ricchezza materiale, bensì la consumano. Dunque, nei momenti di crisi, si tagliano le risorse destinate a questi settori e si attenuano gli strumenti per la tutela, considerati “vincoli” dannosi allo sviluppo dell’economia. A questa visione, da tempo, se ne sta contrapponendo un’altra che vede nella tutela dell’ambiente e nella valorizzazione della cultura le condizioni preliminari affinché possa esserci sviluppo durevole.
E’ il concetto di sostenibilità, ossia il limite strutturale che la natura oppone alla crescita continua e al consumo di risorse non rinnovabili. E tra le risorse non rinnovabili ci sono anche i beni culturali e paesaggistici, i saperi diffusi, le espressioni artistiche. E’ un approccio che presuppone una profonda riconsiderazione del fine stesso dello sviluppo, all’interno del quale devono essere inglobati, strutturalmente, il concetto di “limiti naturali” e quello dell’ “appagamento di bisogni immateriali”, come la felicità e il benessere interiore degli individui. Successi, delusioni e incertezze delle esperienze culturali parlano di questa sfida, sia che si tratti della difesa dello straordinario paesaggio italiano, sia che si tratti di musei, di teatri o di fondazioni liriche alle prese con l’arduo compito di far quadrare bilanci di attività culturali e artistiche con redditività marginale. Il problema è sempre lo stesso: assumere natura e cultura come cornice per lo sviluppo e il benessere degli individui come etica e fine della produzione. Ma per questo la difesa non basta. Servono strategie coerenti e anticipatrici. Ne cito due. La prima riguarda l’assunzione delle risorse naturali, storiche e culturali, come elementi fondanti dello sviluppo, superando la separazione tra pianificazione paesaggistica e pianificazione urbanistica che caratterizza tutt’oggi il quadro legislativo italiano. Una separazione funzionale alla distruzione di risorse essenziali, se è vero che in Italia, mentre si stratificano senza tregua piani e varianti comunali per l’urbanizzazione e per il consumo smisurato di beni comuni come il paesaggio e la cultura, pressoché inesistenti – benché obbligatori almeno dal 1985 – sono i piani paesaggistici regionali che avrebbero dovuto porre un argine al fenomeno. La seconda riguarda l’innovazione e l’efficienza delle gestioni. Se è vero che natura e cultura sono beni strategici per lo sviluppo durevole, non per questo devono essere sottaciuti limiti e inefficienze insostenibili, tanto più in presenza di consistenti contributi pubblici. Non possiamo non vedere che, talvolta, più che ai servizi siamo prossimi all’assistenzialismo.
Le esperienze italiane dicono che è possibile migliorare, purché si introducano nelle gestioni cultura d’impresa, disponibilità al dialogo e all’interazione con il tessuto sociale ed economico. Pianificazione integrata del territorio e gestioni efficienti dei servizi sono due strategie, semplici, chiare e percorribili. Non richiedono risorse aggiuntive. Richiedono invece una forte volontà politica e la ferma convinzione che lo sviluppo non può prescindere dalla tutela dell’ambiente naturale e dalla valorizzazione delle culture dei popoli.