In seguito al terremoto del 1693, uno dei più devastanti che la Sicilia abbia conosciuto nel corso dei secoli, il Val di Noto è oggetto di un fenomeno di ricostruzione senza precedenti. Le cronache del tempo e i documenti ufficiali del governo spagnolo parlano di migliaia di vittime (secondo alcune fonti fino a 93.000 morti) e della distruzione di quasi 60 città, alcune delle quali vengono quasi completamente rase al suolo, altre fortemente danneggiate o in parte demolite*.
Bastano questi dati per far comprendere come il sud est della Sicilia sia rapidamente divenuto il più grande cantiere della storia dell’isola e, per quel che è dato conoscere, forse il più grande laboratorio di sperimentazione dei modelli internazionali del barocco.
Nell’ambito europeo, possono essere ricordati analoghi fenomeni di distruzione e ricostruzione, che hanno interessato aree diverse, in diversi periodi della storia, ma la ricostruzione dopo il 1693 ha proporzioni tali da dover esser considerata un caso unico, con esiti di altissima qualità architettonica e urbanistica. Nell’ambito europeo, possono essere ricordati analoghi fenomeni di distruzione e ricostruzione, che hanno interessato aree diverse, in diversi periodi della storia. Il forte impatto di terremoti come quello di Lisbona del 1755 o di Messina del 1783 e poi del 1908 ha imposto la rinascita di singole realtà urbane. Lo stesso è accaduto per altri disastri storici, come l’incendio di Londra del 1666.
La ricostruzione dopo il 1693 delle città del Val di Noto, cui dovrebbe aggiungersi per completezza di analisi anche quella maltese conseguente allo stesso sisma, ha invece proporzioni tali da dover esser considerata un caso unico, paragonabile alla ricostruzione della Calabria dopo il terremoto del 1783, ma con esiti di qualità architettonica e urbanistica ben diversi.
In Sicilia si sperimenta infatti una cultura progettuale avanzata che pone l’Isola all’avanguardia rispetto ad altre aree del Meridione. L’esperienza della tradizione costruttiva più antica è capace qui di rinnovarsi in modo originale, attingendo alla lezione dei nuovi modelli.
Queste considerazioni rivelano come la rinascita si sia posta per la storia siciliana come momento di svolta per la riconfigurazione dello spazio urbano, come occasione di rottura con l’immagine della città tramandata dal passato, come esigenza diffusa di modernizzazione dell’architettura anche in senso antisismico.
All’interno del Val di Noto si è determinata, per effetto del sisma, una diversificazione di situazioni che si presentano ciascuna per la propria specificità, pur afferendo ad un comune contesto geo-culturale, politico e sociale.
Il concatenarsi delle reazioni e delle risposte all’interno della società del tempo, ha prodotto un interessante meccanismo di rinnovamento architettonico e urbanistico su grande scala, altrimenti impensabile. Le radici di questo processo vanno però ricercate, come abbiamo più volte osservato, nell’epoca prima del sisma, nella serie puntuale di interventi che tendono già, tra Cinquecento e Seicento, a modificare l’immagine della città: i modelli di riferimento sono quelli derivati dalla nuova cultura rinascimentale e post-rinascimentale, in un contesto urbano che rimane tuttavia ancora di tipo medievale.
La rete di città che caratterizza la regione sud-orientale della Sicilia subito dopo il terremoto ha infatti ereditato dall’epoca medievale un tessuto abitato mantenutosi per secoli pressoché intatto, all’insegna di una relativa continuità architettonica. Sembra allora giunto il momento per la società urbana di quest’area, ancora non interessata dalle grandi trasformazioni urbane che avevano già investito le principali città dell’Isola, come Palermo o Messina, per imporre una riconfigurazione d’insieme dell’immagine della città nel segno dei nuovi modelli della cultura barocca.
La ricostruzione dal sisma si è configurata pertanto come programma di rinnovamento “partecipato”, cui hanno contribuito architetti, maestranze, committenze e cittadini delle diverse classi sociali, con un peso che risulta crescente da parte dei nuovi ceti dirigenti e della chiesa. La rete di città che caratterizza la regione sud-orientale della Sicilia all’indomani del terremoto ha ereditato dall’epoca medievale un tessuto abitato mantenutosi per secoli pressoché intatto, all’insegna di una relativa continuità architettonica. Perfino il processo di nuove fondazioni feudali è stato in quest’area quantitativamente più limitato, a paragone di ciò che accade invece nella regione occidentale dell’Isola.
Si afferma in linea generale, pur nella diversa consistenza dei danni subiti da ciascuna città, la necessità culturale di modernizzare realtà urbane dalla configurazione non più soddisfacente, cui il terremoto dà, è proprio il caso di dirlo, un ultimo, definitivo “scuotimento”.
La morfologia urbana ereditata dal passato avrebbe consentito solo operazioni puntuali e isolate di risistemazione (oggi si direbbe “restauro di necessità”), ma l’occasione che si presenta in seguito al sisma consente di realizzare audaci riconfigurazioni, addirittura la rifondazione di alcune città in un sito diverso dall’originario.
D’altra parte le cronache del terremoto hanno messo in relazione l’alto numero di vittime registrato nelle città – elemento che ha pesato moltissimo nella memoria collettiva dei siciliani – con il tipo di struttura urbana, caratterizzata dall’assenza di slarghi e da strette strade ad andamento irregolare. Questo tipo di impianto, non solo non offriva ai cittadini facili vie di fuga in caso di sismi, ma costituiva pure un serio ostacolo al necessario e rapido ripristino delle loro attività e dei collegamenti viari.
<Di quest’architettura siciliana, e della visione urbanistica che le è collegata – ha scritto Giulio Carlo Argan – si conoscono le occasioni esterne: a cominciare dal terremoto che determinò la necessità di ricostruzioni rapide e pressoché totali. Ma al di là, c’è la volontà di rinnovare la struttura e l’assetto dei centri urbani. Il Barocco siciliano è indubbiamente la testimonianza di uno sforzo “moderno”: il più grandioso e il più audace, forse, che l’Isola abbia mai prodotto. V’è, in quest’architettura, una evidente intenzione modernistica>
Con l’intensa attività edilizia di quegli anni (stando alle cronache, per quanto riguarda solo l’architettura religiosa, sarebbero stati attivati circa mille cantieri) può ritenersi colmato il “ritardo”dell’area orientale dell’Isola rispetto alle innovazioni già introdotte nell’area occidentale. E non solo. D’ora in poi le esperienze di riconfigurazione urbana si porranno a confronto, oltre che coi modelli italiani, anche con coeve esperienze europee.
Quale ruolo “urbanistico”, in questa straordinaria rinascita, abbiano giocato i committenti appare dagli studi sempre più chiaro. Quale parallelo ruolo abbiano invece giocato i veri artefici della ricostruzione, anche attraverso probabili scambi con l’area occidentale della Sicilia, costituisce il capitolo di una storia che sempre più si sta delineando in questi anni.
Numerosi sono i protagonisti del volto barocco delle tante città ricostruite o rifondate: architetti, ingegneri, capimastri, artigiani (lapidum incisores, muri faber, decoratori, stuccatori, etc.) questi ultimi ancora in gran parte poco noti o addirittura anonimi, ma che partecipano con le loro diversificate specializzazioni al rinnovamento edilizio in misura non minore dei più noti architetti.
Tra le tante figure emerge quella di Rosario Gagliardi, maestro <del Val di Noto e del suo Valle>, forse il più originale tra gli architetti del Settecento siciliano, certo la personalità più innovativa e meno legata alle “regole” nel panorama dell’Isola.
Il caso Gagliardi suggerisce tra l’altro, come il discorso sull’innovazione in architettura debba essere strettamente correlato anche con la visione urbana, che questi protagonisti indubbiamente dimostrano di avere.
I suoi cantieri religiosi nel Val di Noto testimoniano un’evoluzione progettuale complessa, che riguarda gli impianti planimetrici, ma soprattutto i prospetti: l’immagine urbana ne risulta segnata in modo del tutto innovativo. Edifici che costituiscono quinte prospettiche su vie e piazze o maestosi fondali scenografici fanno da fulcro nel contesto dell’ambiente cittadino e sono anche un’emergenza del paesaggio.
Gagliardi è il riconosciuto maestro della facciata-torre alla siciliana (che si sviluppa in altezza e ingloba il campanile), tipologia che lo avvicina alla sensibilità di artisti attivi nella Mitteleuropa. Si pensi ad esempio, come gli studi hanno più volte segnalato Fischer Von Erlach o Lucas Von Hildebrandt e altri operanti in Germania, come l’architetto Gaetano Chiaveri, attivo in Sassonia. Alcune analogie tra il San Giorgio di Ragusa, il San Giorgio di Modica e la Hofkirche di Dresda non sembrerebbero lasciare dubbi sull’ipotesi che possa esserci stato un influsso diretto, nel contesto più generale degli scambi culturali favoriti dalla dominazione asburgica in Sicilia. I progetti di Gaetano Chiaveri per la costruzione della Hofkirche di Dresda sono infatti conosciuti in Italia attraverso la pubblicazione delle incisioni di Lorenzo Zucchi, ben note alla corte di Napoli.
Il modello di prospetto a sviluppo verticale ha avuto una straordinaria fortuna nel Val di Noto, caratterizzando inconfondibilmente il paesaggio sacro degli Iblei e ponendosi come “segnale nuovo” e nuova emergenza visiva del territorio. Lo dimostrano i casi esemplari del San Giorgio di Ragusa Ibla, dello stesso Gagliardi, o del San Giorgio di Modica, frutto di un iter progettuale più lungo e complesso che vede impegnate diverse figure.
E’ in particolare il motivo “nordico” della imponente facciata-torre del Gagliardi a porsi come esperienza d’avanguardia che ricollega l’ambiente culturale siciliano, dell’area orientale, a quello del barocco italiano più maturo, alle esperienze europee e, pure, a quelle precedenti di colonizzazione dell’America Latina, la cui influenza urbanistica appare evidente. Qui la facciata della cattedrale è già intesa come emergenza dello spazio sacro e dell’ambiente urbano: “monumento” del paesaggio, costruita in cima ad una scalinata o in posizione svettante. Non si può non pensare, a tal proposito, ai numerosi prospetti imponenti che dominano con la propria mole il territorio e rendono tipico il paesaggio urbano degli Iblei.
L’impegno progettuale innovativo del Gagliardi e gli echi suscitati dalla sua opera condizioneranno gran parte delle architetture religiose dopo il 1693. Queste si pongono tra l’altro come capisaldi di quell’idea di “renovatio urbis” perseguita con forza dalla Chiesa, che trova in Gagliardi uno degli interpreti più grandi.
Questa “complessità” di elementi e di echi di varia provenienza, che appaiono confluire nell’opera del Gagliardi, testimoniano l’avanzamento della cultura urbana, sua come di altri protagonisti e artigiani dell’edilizia, e allo stesso tempo rivelano una forte eredità culturale sedimentata durante il Seicento, a partire dal secolo precedente.
Le tante trasformazioni della città seicentesca ormai delineate, sono elementi rivelatori dell’innovazione che si sta affermando, ben prima del 1693, in un quadro culturale e sociale in evoluzione.
L’altro grande protagonista è, per l’area di Catania, l’architetto palermitano Giovan Battista Vaccarini, il cui linguaggio riflette invece una maggiore influenza da parte del classicismo barocco e della cultura ufficiale romana, cui rimane legato dagli anni della formazione presso la corte del Cardinale Ottoboni, rielaborando in modo del tutto personale i modelli del primo barocco conosciuti e studiati direttamente. La sua esperienza architettonica risulta in tal modo formata, com’era prassi del tempo, in parte sullo studio diretto dell’antico e in parte su quello delle grandi fabbriche romane, e palermitane, in corso di realizzazione.
Con le sue scelte ha determinato il carattere e l’omogeneità stilistica degli edifici di Catania dopo il 1693, accrescendo notevolmente la valenza scenografica dello spazio urbano.
I suoi impianti e le sue facciate sono concepite come “quinte” rispetto alla strada o alla piazza su cui si affacciano e sono caratterizzati dall’uso dell’ordine gigante e dalla combinazione di materiali diversi: pietra calcarea e pietra lavica, o marmo, come nel caso della Cattedrale catanese.
La ricostruzione di questo edificio costituisce una vera e propria impresa urbanistica. Si tratta infatti dell’inserimento dell’originaria fabbrica normanna, solo in parte sopravvissuta al sisma, all’interno del nuovo schema viario di Catania.
La prima architettura catanese del Settecento si afferma invece all’insegna del prestigio e della versatilità dei maestri locali: Alonzo di Benedetto, Amato, Blundo, Palazzotto, Viola, etc., la cui esuberanza e frenesia decorativa caratterizza le prime fabbriche di Catania subito dopo il terremoto. Si tratta di edifici più deboli dal punto di vista compositivo, ma decisamente carichi di vitalità artistica. La principale invenzione riguarda la non rigorosa applicazione degli ordini classici e, soprattutto, l’uso assai frequente di elementi scultorei: mostre, mensole, cartigli, modanature e risalti architettonici in genere, addensati sulle facciate degli edifici.
La presenza del Vaccarini, divenuto <Architetto della Città di Catania> (1735), si inserisce in questo ambiente invertendo il segno del linguaggio architettonico popolare e introducendo la nuova regola compositiva classicista, derivata dal barocco romano.
Il primo incarico che vede impegnato a Catania il Vaccarini è quello per la costruzione del portico di levante del Palazzo Universitario, segnalato da un documento del 1730. Fin da questa sua prima opera, l’architetto, denominato <Sopraintendente>, rivela la propria inclinazione culturale, rifacendosi ai modelli romani ed allo studio dei trattati, in particolare del Serlio.
Come è tradizione del cantiere barocco, nell’ampio territorio del Val di Noto i saperi e le tecniche si intrecciano, la cultura del progetto e la cultura del cantiere non di rado costituiscono un’unità inscindibile. Ma sono spesso i capimastri e le maestranze artigiane ad assumere le funzioni direttive e progettuali del cantiere. La tradizione artigiana si perpetua qui da padre in figlio, all’interno di famiglie che costituiscono delle vere e proprie “dinastie”, cui non sfugge il controllo della produzione architettonica. Questi maestri dell’edilizia spesso si affermano con una creatività autonoma, favorita anche dalla committenza, disposta ad affidar loro incarichi di responsabilità progettuale, oltre che di semplice esecuzione.
Il sapere artigiano si fonda tuttavia, oltre che sulla pratica cantieristica, anche sulla circolazione libraria e sull’uso e la conoscenza approfondita dei trattati.
E’ così che le origini artigiane di grandi architetti come Rosario Gagliardi sono la premessa naturale e consapevole del proprio percorso progettuale, a dimostrazione del forte peso esercitato dalla tradizione e dalla cultura del cantiere nella formazione professionale più matura.
La grande civiltà urbanistica del dopo terremoto dimostra dunque nel complesso come alla catastrofe si offrono soluzioni di altissima qualità architettonica, espressione anche di un forte coordinamento economico tra diversi gruppi sociali, che non sembra avere paragoni.
Appena dopo le scosse del 9 e 11 gennaio 1693, il vicerè nomina suo vicario generale per la ricostruzione Giuseppe Lanza Duca di Camastra. Questi, dotato di amplissimi poteri, si reca immediatamente nel territorio colpito e, avvalendosi della collaborazione di tecnici della statura dell’ingegnere militare Carlos de Grunembergh, è in grado di gestire l’emergenza con scelte coraggiose.
Grande azione di stato e forte capacità organizzativa sono le due condizioni che sembrano realizzare gli esiti di altissima creatività e costituiscono una risposta efficace agli effetti del sisma.
Le scelte urbanistiche di quel dopo terremoto sono comunque il risultato di una storia tormentata e difficile, in cui i protagonisti riescono, alla fine, nell’immane impresa di tramutare la sciagura in “occasione”.
Dai molteplici casi di città ricostruite deriva il forte impulso all’affermazione del barocco nel Val di Noto, effetto anche della complessità delle varianti locali e dei molteplici modi di manifestarsi della tendenza al moderno nel sistema urbano di quest’area. L’evento sismico rilancia certamente l’attività edilizia, ma questa è largamente debitrice nei confronti di una strategia di innovazione urbana che ha le sue radici nel Cinquecento e nel Seicento.
Si è anche imposto negli ultimi anni il tema della revisione di quel generico giudizio di <apocalisse> in Sicilia, da cui hanno preso le mosse molti studi, che ha reso indistinto il ruolo delle varianti locali.
La grande civiltà urbanistica che si afferma nel dopo terremoto ha inoltre suscitato nuovi orizzonti interpretativi, che hanno invertito le vecchie opinioni sull’uso del territorio siciliano, o meridionale in genere, da parte delle grandi dominazioni straniere.
L’elevata creatività che si manifesta fa anche riflettere sui modi in cui in Sicilia il “potere lontano” può consentire un’architettura in piena libertà rispetto ai modelli. Su queste ed altre riflessioni si fonda l’interpretazione di autenticità oggi riconosciuta al barocco siciliano, rispetto ad altre aree del barocco internazionale, che spiega anche la straordinaria ricchezza progettuale e urbanistica che investe l’Isola nell’età della ricostruzione post-sismica. Una ricchezza certamente indicativa pure dei legami e degli intrecci tra ambienti artistici diversi, spesso considerati come “universi” se non proprio separati, comunque lontani: Roma, Napoli, la Spagna si pongono invece come aree di riferimento essenziali per un discorso sull’architettura e la città in Sicilia in epoca barocca. L’Isola si lascia influenzare però, dagli apporti di tali contesti, in modo del tutto proprio, offrendo alla fine esiti di assoluta originalità.
L’unicità del barocco del Val di Noto scaturisce da questo complicato quanto sapiente intreccio e dalla circolarità di scambi e rimandi culturali tra l’ambiente romano e l’ambiente europeo e tra questi e le aree più periferiche.
Il ruolo centrale di Roma città-capitale del mondo cattolico, centro propulsore in Italia del linguaggio barocco, si è rispecchiato sui protagonisti siciliani per lo più attraverso un apprendistato compiuto direttamente presso le scuole o le botteghe dei maestri romani, altre volte attraverso la grande circolazione internazionale dei trattati e delle incisioni a stampa, come dimostra in Sicilia pure la cultura e la formazione dei capimastri e artigiani, ai quali sono affidati, come si è osservato in precedenza, ruoli non solo direttivi del cantiere, ma perfino progettuali.
Lo studio e il rilievo dell’antico, in particolare di Roma antica, hanno influito non poco sui percorsi progettuali e formativi di grandi personalità come Rosario Gagliardi o Giovan Battista Vaccarini, la cui esperienza si basa innanzitutto sulla conoscenza attenta dei codici linguistici del rinascimento e del barocco, ai quali si sono accostati dimostrando però una notevole autonomia e libertà interpretativa.
Per i tempi in cui è attuata, le scelte e i modelli culturali di cui si fa portatrice, la ricostruzione costituisce una testimonianza sia dell’urbanistica del tempo sia della società che la produce. Ma non è di secondaria importanza mettere inoltre in evidenza come buona parte del rinnovamento urbano conseguente all’impatto del sisma nell’area del Val di Noto sia ricollegabile anche ad una nuova “cultura antisismica”.
Una recente rilettura dell’evento aiuta infatti a conoscere meglio un aspetto ancora inedito del fenomeno della rinascita siciliana, che si rivela però d’importanza non indifferente ai fini della conservazione e della prevenzione del rischio sismico. Si tratta cioè di un assai vasto patrimonio di città e di monumenti, ricostruiti o ristrutturati in modo unitario, tanto da farne un caso a sè nel complesso panorama dell’edilizia storica italiana e internazionale.
Appare più chiaro allora come la ricostruzione si ponga di volta in volta come momento di svolta per la riconfigurazione dello spazio urbano, ma anche come esigenza diffusa di modernizzazione in senso “antisismico”.
Ecco una serie sintetica di alcuni primi dispositivi che emergono dalla ricostruzione siciliana e che fanno di questo caso un modello di riferimento internazionale anche per successivi eventi distruttivi:
-il diverso rapporto tra altezza degli edifici e larghezza delle strade ricercato fin dall’immediato post-1693;
-la costruzione di ampie piazze, che rispecchia un atteggiamento volto a favorire la creazione di vie di fuga, da aprirsi negli spazi per lo più angusti dovuti all’antica formazione dei tessuti urbani, essendo la <ristrettezza> delle strade la principale causa di morte, accertata dai tecnici dell’epoca;
-il diffuso utilizzo di volte finte (“incannucciate”) nell’apparecchiatura edilizia degli edifici storici del Val di Noto;
-il ricorso ad un più ampio spessore murario nelle costruzioni, quasi sempre oggetto di un generalizzato ampliamento;
– l’impiego di poderosi pilastri, preferiti all’uso delle colonne, dato che, per opinione diffusa, la sezione orizzontale rettangolare offriva una maggiore resistenza nelle strutture verticali.
Questi ed altri accorgimenti costruttivi sono indicatori di un certo tipo di consapevolezza raggiunta dagli architetti e dalle maestranze del tempo. Perfino lo spostamento di sito, proposto ed in parte attuato per le città più colpite – che è da considerarsi una vera e propria problematica della ricostruzione, dalle molteplici implicazioni – si può intendere come rifiuto del vecchio impianto urbanistico medievale, considerato poco sicuro in caso di altri sismi.
Tutti questi elementi inducono a riflettere sulla storia e sul ruolo dei cantieri dopo il 1693, da leggere principalmente, certo, in chiave di adeguamento stilistico ai modelli internazionali del barocco, ma anche in chiave di “prevenzione sismica” e di applicazione di un certo numero di essenziali dispositivi antisismici.
A conferma di quanto espresso in precedenza, valga la citazione della relazione riguardante la costruzione della nuova chiesa di San Michele Arcangelo a Scicli, in cui l’architetto Gagliardi (inviato nel 1750 dal vescovo di Siracusa per effettuare un sopralluogo durante i lavori, probabilmente dopo la scomparsa del progettista dell’edificio Michelangelo Alessi) dichiara che è sconsigliabile realizzare la volta reale e suggerisce di costruirla con legname, “virgoni” e gesso, “per piu` facilmente resistere alla scossa del terremoto”. Questo accorgimento è indicatore di una precisa valutazione costruttiva, che non manca di aver riscontro nella notevole diffusione di volte finte (“incannucciate”), riscontrabili nell’edilizia storica dell’area degli Iblei.
Sono altrettanto interessanti i disegni di Gagliardi per la chiesa di Santa Chiara a Noto, che mostrano sia in pianta che in alzato l’orditura in legno della volta e le capriate per la copertura.
Altrettanto interessante è l’atteggiamento del Vaccarini che, con decisione dichiarata fin dal contratto di affidamento dell’incarico, impone lo smontaggio delle colonne già costruite nel portico del Palazzo Universitario catanese, per tener conto probabilmente dell’azione dei terremoti.
Nel caso esemplare della ricostruzione di Catania – che ha certamente costituito un modello per altre città – i documenti registrano delle vere e proprie, articolate <istruzioni> ovvero regole antisismiche <per la nuova re-edificazione della città>, mentre in altri casi si tratta invece di accorgimenti dovuti all’esperienza del terremoto.
E’ col terremoto siciliano che sembra dunque farsi strada la ricerca sugli effetti che il terremoto produce per mettere a punto un nuovo e più efficace modo di costruire. L’evento, per convinzione popolare sentito come <punizione divina per le colpe degli uomini>, comincia ad essere studiato come fenomeno naturale.
Solo successivamente, col terremoto che distruggerà Lisbona nel 1755, a oltre mezzo secolo da quello siciliano, si metteranno a fuoco le direttrici della moderna ingegneria antisismica, determinando un nuovo rapporto tra architettura e terremoti.
* Questo scritto costituisce una rielaborazione tratta dal volume “La valle del barocco. Le città siciliane del val di Noto patrimonio dell’umanità”, Catania 2002, al quale si rimanda per l’apparato bibliografico e le note.