“All’orlo del caos,
i confini del cambiamento
ondeggiano continuamente”
Michael D. Cohen
Snodi
“That place, that has become known world-wide, is proving what is possible”. Così Kofi Annan ha definito l’esperienza di The Hub in Sudafrica, la Soweto Mountain of Hope: The Hub è un progetto mondiale basato sul concetto di coworking. Lo dice la parola stessa: si lavora insieme, si trae spunto gli uni dagli altri, in un continuo rilancio di competenze, collaborazioni, idee, necessariamente innovative e socialmente responsabili. E’ un tentativo di dare un corpo al networking per lo più virtuale esploso grazie alla tecnologia e alla comunicazione 2.0. Dall’analogico al digitale e ritorno: essere in rete con la possibilità di guardarsi negli occhi, “a place to access experience, full of diverse people doing amazing things”.
In Italia il nodo principale è quello milanese, un’ex fabbrica di ceramica al cui interno la società di gestione (una società a responsabilità limitata) affitta slot di tempo e di spazio con possibilità di fruizione volutamente flessibili a persone o piccole start-up brillanti che ritengono vantaggioso per il proprio progetto imprenditoriale sostenere un canone mensile attraverso cui accedere a un luogo fisico e virtuale di condivisione. Milano è uno dei tanti hub che partiti da King’s Cross a Londra ora sono in rete nel e con il mondo, da San Francisco a Melbourne passando per Mumbai e altre 26 città, dove trovano forme e modalità specifiche a seconda del contesto, rimanendo accomunate dal principio base.
Nell’esperienza italana The Hub è una delle poche realtà di questo tipo che dichiara esplicitamente il proprio progetto d’impresa: rivendica la natura completamente privata dell’iniziativa, presenta una strutturazione formale e gestionale trasparente, non confonde i co-workers con dei subaffittuari in nero e il locatore con i buoni sentimenti. Gli hubbers sottoscrivono contratti e si impegnano a sviluppare progetti orientati al profitto all’interno di un contesto che dimostra il valore della condivisione, della tensione all’eccellenza e al cambiamento senza dimenticare la responsabilità sociale dell’azione imprenditoriale, l’informalità delle relazioni e la permeabilità tra lavoro e sano divertimento.
Punta a cambiare il mondo, come annuncia lo slogan ambizioso, cominciando dal cambiare il metodo di lavoro, ma qualcuno obietta che in fondo si tratti “semplicemente” di una nuova ed autoreferenziale élite creativa, chiusa nel proprio piccolo o grande openspace. Comunque sia, The Hub è uno dei tasselli che meritano considerazione.
Fiducia
Un altro tassello interessante è dato dall’esperienza dei Consorzi PAN, in questo caso tutta italiana, ma che fa sempre rima con la parola rete. L’obiettivo è la costruzione in project financing di asili nido sparsi per la Penisola. Tema solo tangente all’ambito culturale, ma che rivela un interessante lavoro di partenariato pubblico-privato come modello manageriale. E che tra le righe evidenzia l’esistenza di un istituto di credito dall’impostazione innovativa e specifica come Banca Prossima, start-up d’impresa del gruppo Intesa San Paolo che trova la quadra per declinare nel mondo tendenzialmente profit del sistema bancario alcune istanze del mondo della finanza mutualistica di prossimità.
Si vota al sostegno del terzo settore, specialmente imprese sociali e comunità del territorio. Accetta di sovvertire i propri princìpi cardine, passando dal modello algebrico che calcola il rating di un soggetto a una considerazione più ampia, secondo indici diversi, del valore socioeconomico prodotto da quel soggetto indipendentemente dalla sua capacità di solvibilità, passando cioè dal soggetto al progetto. Modalità del genere non sono nuove a livello locale, sia con le banche di credito cooperativo, sia con i gruppi di mutua autogestione finanziaria, ma può essere interessante una loro trasposizione su larga scala. Una banca non lo fa per volontariato, s’intende, ma all’interno del proprio tornaconto offre un servizio utile a una schiera piuttosto corposa di soggetti che ne ha bisogno.
Sapendo di non poter ottenere da questi garanzie in termini di liquidità (“né solida, né liquida, né gassosa”, scherza Morganti, amministratore delegato di Banca Prossima), l’istituto valuta il richiedente non solo relativamente ai numeri, ma soprattutto sulla base della credibilità e dell’efficacia della proposta imprenditoriale, vi entra nel merito come partner e si assume il rischio di questa scelta – eventualmente sbagliata e quindi dell’eventuale insolvibilità del soggetto debitore – attraverso la creazione di un fondo di garanzia interno. Il fondo è costituito da una percentuale di utile cui gli azionisti di riferimento rinunciano in perpetuo; ognuno fa la sua parte perché tutti stiano un po’ meglio, uno di quegli assunti tanto semplici da essere diventati incredibili.
Consorzi PAN è una storia all’interno di un’altra storia, che sorprende per l’inversione di ruoli normalmente attribuiti ai soggetti coinvolti in un’operazione di project financing, un’impostazione decisamente innovativa perché ha posto la banca stessa come soggetto promotore dell’operazione. In Italia lo strumento del project financing non è ancora maneggiato con scioltezza e spesso viene considerato come operazione di speculazione finanziaria nel senso più basico del termine, circoscritto a opere magniloquenti di pubblica utilità, farraginoso nelle procedure e senza un’equa ripartizione del rischio tra soggetto promotore e soggetti finanziatori.
Consorzi PAN, per contro, procede velocemente applicando il meccanismo su progetti micro e basati su logiche molto lineari: la Banca rileva dai dati il margine d’azione tanto economico quanto etico tra il rapporto di bambini nati e di posti asilo garantiti, pur assommando tutte le tipologie di asilo cui dei genitori possono fare riferimento. Se si vuole sostenere un aumento di natalità e la presenza attiva delle donne nel mercato del lavoro è chiaro che bisogna procedere con azioni concrete.
Per questo è la Banca a promuovere la costruzione di una rete di interlocutori sul territorio nazionale che, una volta in sinergia, possono far fronte dal basso e in partenariato pubblico-privato con le singole amministrazioni alla realizzazione e gestione di nuove strutture, su cui la banca stessa mette il finanziamento senza richiesta di garanzie salvo l’adesione a un codice di comportamento scritto a quattro mani, una “magna charta” al contempo codice etico e marchio di qualità per tutti gli aderenti. Alla mancanza di capitale materiale, in sostanza, sostituisce un capitale relazionale e fiduciario, intangibile ma di ugual valore, su cui è stato costruito un progetto innovativo che ha dimostrato nella pratica di essere sostenibile: in sette anni sono stati realizzati 424 asili che ospitano più di 12.000 bambini e danno impiego a più di 3.000 persone, di cui 1.000 nuovi addetti, quasi esclusivamente giovani con preparazione superiore.
Nuovi linguaggi
C’è un terzo esempio di impresa culturale proiettata verso il futuro; E’ un’esperienza capitolina, a suo tempo (correva l’anno 1999) decisamente innovativa, il cui epilogo apre ad altre considerazioni. “Zoneattive” è nata come spin-off dell’azienda PalaExpo che ne è sempre rimasta socio unico su iniziativa del e in partecipazione con il Comune di Roma, per ottimizzare la progettazione e la realizzazione di eventi di spettacolo e di arte contemporanea. Una società a responsabilità limitata composta da uno staff dipendente molto giovane, appassionato e competente, molto attivo sul fronte della ricerca e del sostegno dei nuovi linguaggi creativi, da proporre a un pubblico ampio.
Le operazioni condotte da Zoneattive in questi anni sono state molte e memorabili, basti citare FotoGrafica ed Enzimi; il progetto più ambizioso e interessante, tuttavia, è consistito nell’ideazione del trasferimento dell’intera organizzazione nella “città delle arti”, un’infrastruttura progettata nell’ex-Mattatoio di Testaccio, allo scopo di realizzare un vero e proprio centro di produzione di cultura contemporanea negli spazi cosiddetti della Pelanda (5.000 metri quadri). I cantieri sono stati aperti nel 2006 e chiusi nel 2010. Ma lo spazio, che oggi ospita la sede distaccata del MACRO, l’Accademia di Belle Arti e la Facoltà di Architettura di Roma Tre, non conta più sulla presenza di Zoneattive, che nel 2010 ha chiuso i battenti.
L’esperienza ha lasciato un segno, ed avuto séguiti, grazie alle relazioni personali di chi vi lavorava all’interno, ma in quanto tale si è conclusa, dimostrando che la natura giuridica formalmente privata della struttura poco ha potuto nel momento in cui la sua sussistenza comunque dipendeva dalla politica. Senza entrare nel merito degli orientamenti, il cambio di rotta a livello amministrativo che ha investito Roma nel 2008 ha comportato un riassetto complessivo che ha finito per costringere, nella pratica, alla chiusura dell’esperienza.
Tanto più di fronte all’intenzione di costruire realtà complesse e durature, come dovrebbe ad esempio essere un centro culturale, emerge con sempre maggior urgenza la necessità di individuare modelli forti di autonomia gestionale e sostenibilità economica, di pari passo allo sviluppo della dimensione artistica. D’altro canto il valore di un’azione culturale, che sia ad iniziativa pubblica o privata, oggi come oggi sembra non poter prescindere dalla relazione che innesca con il territorio di riferimento, e di conseguenza con l’ente locale che lo amministra. Rinunciare quindi ex ante alla costruzione di un dialogo maturo ed equilibrato con il sistema pubblico, basato su una convergenza di obiettivi piuttosto che sulla natura degli interlocutori, rischia di rivelarsi una scelta che può compromettere il risultato dell’azione in sé.
La storia recente dimostra come le pubbliche amministrazioni siano sempre meno in grado quanto a competenze e risorse economiche disponibili di essere protagoniste uniche di azioni di questo tipo, modificando necessariamente il proprio ruolo accentratore a vantaggio di una sussidiarietà orizzontale che aprirebbe scenari molto interessanti, e forse necessari, per la produzione di quei servizi cosiddetti non convenzionali, interessi collettivi non ancora pienamente compresi o non interpretabili dalle attuali routines amministrative. Le quali, per volere o per forza, lasciano spazio e necessitano di nuovi interlocutori, soggetti che a prescindere dallo status di profit o non profit riescano a coniugare il perseguimento delle finalità culturali con una totale autonomia gestionale ed economica.
Nuove alleanze
Nell’esperienza recente già esistono piccoli ma significativi casi di questo tipo, imprese culturali magari giuridicamente non riconosciute ma autonome e operative, che producono azioni culturali concentrandosi sul processo di creazione e costruzione del prodotto/progetto senza subire l’ossessione dei fondi pubblici. Lo sforzo di queste imprese è orientato a tenere insieme le dimensioni artistica, manageriale e relazionale essenziali per la costruzione della credibilità e della sostenibilità del proprio progetto. Sono impegnate a cercare entità simili con cui fare rete, a cercare entità diverse con cui fare ancora più rete. A mettere un’idea sul tavolo al vaglio di occhi dissimili senza il timore che un confronto costruttivo con altri partner, di altro genere e natura, possa rubarne l’essenza.
Oltre a produrre progetti culturali secondo logiche economiche di auto sostenibilità, affrontano culturalmente lo stesso processo di costruzione del progetto. La loro relazione con il settore pubblico si inserisce nella medesima ottica di rete, accrescitiva di valore e possibilità superando l’assistenzialismo o il controllo pubblico e scommettendo sulla condivisione degli obiettivi. Nel momento – possibile, ma non obbligatorio – in cui questa condivisione avviene si domandano per quale motivo il loro status d’impresa debba impedirgli di ottenere un sostegno pubblico. Non chiedono fondi per sopravvivere: alla sopravvivenza ci pensano già da sole; ma il sostegno pubblico potrebbe facilitare progetti coerenti con gli obiettivi strategici della pubblica amministrazione.
Il consolidamento e la valorizzazione di queste realtà sembra non costituire che un vantaggio per la loro sostenibilità e per le esternalità positive che possono apportare su un territorio. Sull’orlo del caos che Morin identificava come lo spazio ideale per la creazione – e che taluni oggi interpretano come orlo del baratro – forse allora val la pena di metabolizzare certe emersioni e tanto più osare formulazioni nuove, ricombinando gli elementi dati e forzandone altri. I tempi sembrano maturi (o forse così immaturi da poter instillare nuovi germi, e positivi) non solo per sdoganare il concetto di impresa culturale come soggetto più appropriato per l’agire culturale, che implica il sovvertimento di visioni teoriche piuttosto obsolete e di approcci pratici ad oggi confusi e poco incisivi, ma anche per pensare a strutturazioni e triangolazioni più ardite.
Assommando le esperienze positive di co-working e project financing descritte, confermando il valore dell’approccio imprenditoriale alla cultura e i benefici sociali infungibili che le realtà di produzione culturale possono apportare sul territorio, tanto più se poste in rete, si potrebbe ragionare sulla creazione di un protocollo strutturale e gestionale di aggregazione di imprese culturali, una costruzione inedita che non si configura né come centro culturale, distretto o luogo di co-working, né come uno spazio pubblico gestito privatamente. Non corrisponderebbe a nessuno di questi elementi noti forse perché ne sarebbe la somma: un raggruppamento di imprese eterogenee afferenti allo spettro ampio del settore della cultura contemporanea e della creatività, che vanno a consociarsi per produrre e al contempo vivificare uno spazio circoscritto della città da riqualificare urbanisticamente e socialmente, attraverso un modello di partnership mista sia nella progettazione sia nelle modalità di gestione.
Lo scopo sarebbe superare alcuni limiti riscontrati in esperienze precedenti (su tutti lo spontaneismo e la spesso conseguente mancanza di sostenibilità sul lungo termine di simili realtà), proponendo linee guida che, nel tenere conto della molteplicità di attori, bisogni, competenze e risorse oggi necessarie per rispondere a una società complessa, siano potenzialmente adattabili in svariati contesti.
Il progetto, seppur ad iniziativa privata, presuppone fin da subito il coinvolgimento della pubblica amministrazione e la creazione di una rete di portatori d’interesse pubblici e privati a vario titolo, uniti da un fine ultimo comune, ovvero l’accrescimento del livello di benessere collettivo del territorio. Il cluster, formalizzato in un’entità giuridica nonprofit ma dai bilanci trasparenti, si pone come soggetto promotore di un tavolo che vede la presenza di pubblica amministrazione, costruttori ed enti finanziatori, sia fondazioni di origine bancaria sia banche per il terzo settore, che sviluppano un’operazione di project financing sul modello di Banca Prossima descritto sopra, nel senso che gli enti finanziatori sono per primi coinvolti come promotori, nella fattispecie di un progetto che non rientra a priori tra le opere pubbliche programmate, ma si presenta come un’opzione possibile e accrescitiva per l’amministrazione, coinvolta essenzialmente in qualità di attivatore e facilitatore.
La pubblica amministrazione concede a titolo gratuito uno spazio in disuso al cluster, questi riceve una quota parte di finanziamento a fondo perduto dalle fondazioni di origine bancaria del territorio, vincolato al recupero strutturale degli spazi, e quota parte di finanziamento a interesse agevolato per la loro messa in funzione (dalle banche per il terzo settore o di prossimità, che rientreranno del prestito in tempi e a tassi concordati). Questa liquidità va a coprire la necessaria ristrutturazione in modo da prevedere spazi da destinare alle imprese aderenti, ad esempio un editore, una libreria con cucina, una casa di produzione audiovisiva, uno studio grafico, uno di design, un laboratorio di architettura, una residenza d’artista e foresteria, un’agenzia di comunicazione, una società di progettazione eventi interdisciplinari intorno alla cultura contemporanea e ai nuovi linguaggi.
Questi si accollano integralmente le spese di gestione e un piano di rientro del finanziamento della banca per la propria quota parte, riscattando nel tempo uno spazio dal valore superiore a quanto viene effettivamente pagato e al contempo patrimonializzando la propria realtà attraverso il proprio lavoro; la ristrutturazione prevede anche la creazione di spazi pubblici in condivisione, aree multifunzionali all’aperto e al coperto – spazio mostre, eventi, performance; zona meeting, living e relax; teatro di posa/studio di registrazione. I costi di questi spazi sono coperti sia dall’attribuzione di una loro quota parte nel piano di rientro delle aziende del cluster, che hanno facoltà di fruirne liberamente, sia dalla loro messa a reddito secondo un calendario di iniziative gestite e sviluppate dal cluster stesso, culturali e/o a finalità pubblica, gratuite o con sistemi tariffari non esclusivi per l’utenza in un’ottica di programmazione e occupazione continua degli ambienti, del tutto eterogenea, anti ideologica, solo non squalificante.
La pubblica amministrazione e gli altri stakeholders possono disporre degli spazi gratuitamente, pianificando progetti con il cluster che si avvarrà delle aziende consorziate come maestranze, le quali prestano la propria opera secondo un listino prezzi calmierato. Il beneficio per la pubblica amministrazione è il recupero e la valorizzazione di spazi urbani altrimenti negletti, oltre all’attivazione di iniziative imprenditoriali sinergiche e capaci di generare valore.
Le fondazioni bancarie ritrovano un ruolo specifico e pertinente attraverso un’azione di grant making strategico orientato alla progettualità culturale di lungo termine. Supportare lo sviluppo di quelle condizioni ambientali che consentano la crescita di realtà capaci sia a livello contenutistico sia di creazione di auto-sostenibilità, appare una posizione statutariamente forte e plausibile, indicando un percorso su cui essere seguite a ruota dalle consorelle istituzioni bancarie. Queste, in quanto enti commerciali, devono evidentemente rispondere a logiche diverse, ma non per questo possono ritenersi esenti da una questione di responsabilità sociale, che ne smussi l’orientamento speculativo e talvolta corporativo.
In questo modo si attivano delle centrali culturali, sorta di cittadelle multidisciplinari e multi offerta la cui azione passa attraverso un percorso strutturato, solido e consapevole, sostanzialmente a iniziativa privata. Un’agorà duttile, non prigioniera della burocrazia ma gratificata dall’attenersi a regole precise, non un microcosmo chiuso ma in rapporto dinamico con il proprio ecosistema, in quanto tale meticcio, ibrido e cooperativo . Le aziende del cluster si avvantaggiano della compresenza fisica (come molte esperienze di co-working insegnano) senza tuttavia rinunciare alla strutturazione di percorsi autonomi e a spazi privati di riflessione silenziosa, rimanendo reattive alle esigenze del proprio mercato e alle sollecitazioni del territorio, costruendo progetti multidimensionali.
E’ un approccio ancora embrionale, ma nulla impedisce che, sull’orlo del caos, qualcosa del genere si mostri possibile.