Orientamenti

Quando si parla di cultura si finisce per mettere a fuoco il concetto di identità. Sono proprio le cose (beni, attività, idee) senza identità o con elementi parziali e insufficienti a farci escludere che si tratti di cultura. Stiamo maneggiando un concetto complesso, evolutivo, che la paura e l’ignoranza legano soltanto al passato, come se l’identità dovesse essere protetta; al contrario, è la mancanza di prospettiva che taglia le ali all’identità, qualunque essa sia.
Ora, anche senza addentrarci troppo nei delicati meandri del tema, si può capire quanto esso sia meritevole di attenzione se si prova a fare un elenco: la convenzione culturale vigente abbraccia cose esistenti e magari anche molto anziane, ma difficilmente si potrebbe negare la caratura culturale di “2001 Odissea nello spazio” o di “Blade Runner”, così come della world music o di altri prodotti culturali nati in laboratorio e non riferiti al passato.

Quando si parla di cultura si finisce per mettere a fuoco il concetto di identità. Sono proprio le cose (beni, attività, idee) senza identità o con elementi parziali e insufficienti a farci escludere che si tratti di cultura. Stiamo maneggiando un concetto complesso, evolutivo, che la paura e l’ignoranza legano soltanto al passato, come se l’identità dovesse essere protetta; al contrario, è la mancanza di prospettiva che taglia le ali all’identità, qualunque essa sia.

 

Ora, anche senza addentrarci troppo nei delicati meandri del tema, si può capire quanto esso sia meritevole di attenzione se si prova a fare un elenco: la convenzione culturale vigente abbraccia cose esistenti e magari anche molto anziane, ma difficilmente si potrebbe negare la caratura culturale di “2001 Odissea nello spazio” o di “Blade Runner”, così come della world music o di altri prodotti culturali nati in laboratorio e non riferiti al passato.

 

Il punto dolente non è questo. Piuttosto, è il sistema culturale in quanto tale a soffrire di una fragile identità, in una fase di cambiamento radicale nella quale i pilastri del paradigma sociale, economico e culturale si stanno muovendo verso orizzonti imprevedibili. Per molto tempo abbiamo concepito e interpretato la cultura come un blocco compatto di valori, ne abbiamo valutato il pubblico dei fruitori come un insieme omogeneo di individui mossi da reddito, istruzione ed età più che da motivazioni intrinseche e soggettive. Questo mondo è finito.

 

La questione è profonda e dirimente. Ne sono un’importante testimonianza i saggi di Ginevra Domenichini e di Ares Kalandides, che affrontano temi distinti ma per più di un verso complementari. Le relazioni tra cultura e impresa richiedono una sostanziale messa a punto, e allo stesso modo il territorio ha bisogno di ridefinire sé stesso all’interno di una nuova mappa di valori e di bisogni. Anche in questi casi specifici la vulgata culturale è stata comoda e meccanica: il successo si misura in termini dimensionali, le strade da percorrere sono evidenti, si tratta di competere con efficacia.

 

Ecco il convitato di pietra che per molti decenni ha condizionato analisi, valutazioni, giudizi: il mercato, adottato come cartina di tornasole della fenomenologia culturale. E’ stato il parametro di riferimento delle organizzazioni culturali, come scrivono gli economisti “bound to failure”; se il bilancio non funziona la cultura è un fallimento e uno spreco, dal che deriva una dissennata gerarchia sequenziale in base alla quale il divario dei ricavi deve essere coperto dalla spesa pubblica (quello di Baumol è davvero un morbo, ne sono stati affetti per lunghi anni sia i manager culturali sia i decisori pubblici), e se non basta così a soccorrere il bilancio della cultura ci dovrà pensare il mondo imprenditoriale; in casi estremi, ecco le fondazioni di origine bancaria.

 

E’ stato il metro di giudizio anche per le città d’arte, contagiate dal virus del marketing territoriale ponendosi in una bizzarra competizione reciproca, giocando sugli effetti speciali, accettando la violenta delocalizzazione delle mostre blockbuster (Monet e compagni conoscevano Treviso e Brescia?), ragionando lungo la scia rachitica dell’impatto finanziario fatto di notti in albergo e pasti al ristorante, come se gli esiti della cultura si potessero ridurre al profitto di pochi a costo della congestione e dello snaturamento degli spazi urbani. Le città sanno che cosa vogliono diventare? Riescono a leggere il proprio passato come un percorso che le conduce verso un’identità pertinente? Solo le più attente si stanno ponendo il problema, cogliendone la complessità; altre sono paralizzate da una nostalgia pesante e da un’evidente mancanza di coraggio.

 

E’ la cultura a doversi orientare. In un paradigma permeato di valori cognitivi, di urgenze creative, di aspettative relazionali essa occupa una posizione centrale e cruciale per tutta la società, per le imprese che dovranno reinterpretare il proprio senso in un mondo post-manifatturiero, per il settore pubblico che ancora si diletta con temi obsoleti come la sovranità o l’efficienza e non riesce a inquadrare l’afflato collettivo che ne giustifica l’azione, per gli stessi professionisti della cultura che solo in pochi casi si danno all’esplorazione di un sistema in cui i mercati sono tanti, le opportunità numerose e varie, le responsabilità più dense verso una comunità morbida e acuta, eterogenea, curiosa e veloce.