Partecipazione e programmazione sociale: i Tavoli Tematici nei Piani di Zona della Provincia di Torino

Il focus di questo contributo, che prende le mosse da una più ampia ricerca sui processi decisionali all’interno dei Piani di Zona (PdZ) nella Provincia di Torino, è costituito dalla dimensione partecipativa di politiche di programmazione sociale quali, appunto, i PdZ. Nello specifico, particolare attenzione è riservata al luogo privilegiato di sviluppo di una decisionalità a più voci: i Tavoli Tematici. Argomenti per indagare la portata partecipativa dei PdZ sono: il target dell’inclusione, gli strumenti comunicativi utilizzati, la questione della rappresentanza, le dinamiche conflittuali, l’analisi coalizionale.

Introduzione
Il focus del presente contributo è costituito dalla dimensione partecipativa di specifiche politiche di programmazione sociale: i Piani di Zona (PdZ). Tali politiche, introdotte dalla l. 328/2000 “Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali”, cosiddetta “Legge Turco”, costituiscono lo strumento fondamentale per definire e costruire, attraverso “la partecipazione attiva dei cittadini, il contributo delle organizzazioni sindacali, delle associazioni sociali e di tutela degli utenti”, un sistema locale integrato di interventi e servizi sociali, in una logica di “promozione della solidarietà sociale” e di empowerment, ossia di “valorizzazione delle iniziative delle persone, dei nuclei familiari, delle forme di auto-aiuto e di reciprocità e della solidarietà organizzata”. Il Piano di Zona, dunque, nell’ambito della programmazione e del governo delle politiche sociali, si pone quale strumento strategico partecipato e territoriale. Da un lato, infatti, è la risultante di un processo di pianificazione consensuale fondato sulla concertazione tra una pluralità di attori, istituzionali e non; dall’altro, è organizzato per ambiti territoriali sovra-comunali, spesso corrispondenti ai distretti socio-sanitari, che perimetrano l’area della comunità partecipante.
I Piani di Zona sono stati scelti quali oggetto di indagine in quanto rappresentano un caso emblematico di “politiche di nuova generazione”; al pari, certo, di altre policies, quali ad esempio le politiche di rigenerazione urbana e quelle ambientali di Agenda 21, ma meno studiate, pur incidendo allo stesso modo sulla vita dei cittadini. Non vi è dubbio, infatti, che i Piani di Zona rientrano a pieno titolo tra quelle policies che segnano il passaggio da un paradigma burocratico dell’amministrazione pubblica, ancora sostanzialmente riconducibile alla lezione weberiana, a un paradigma cosiddetto post-burocratico (Barzelay 1992), che contrappone al government la governance (Rodhes 1996; Mayntz 1999); al coordinamento negativo o sequenziale la partecipazione, ossia il coordinamento positivo o simultaneo (Scharpf 1994); alla conformità alle regole l’orientamento ai risultati (Osborne e Gaebler 1992); alla gerarchia e alla verticalità la rete e l’orizzontalità; agli atti unilaterali gli accordi volontari e i contratti (Bobbio 2000; Perulli 2004); al mero controllo l’apprendimento; alle prassi consolidate la sperimentazione; e, per finire, alla tendenza a limitare la discrezionalità quella a favorire l’innovazione (Girotti 2007).
La dimensione partecipativa dei PdZ rappresenta invero solo una parte dell’oggetto di studio della ricerca da cui questo articolo scaturisce. Tale oggetto, infatti, è costituito dalla totalità dei processi decisionali(1) che, nel corso del  I° triennio di programmazione dei PdZ nella Provincia di Torino(2), si sono sviluppati all’interno delle politiche di pianificazione zonale. Più in dettaglio, particolare attenzione è dedicata a tre differenti aspetti di questi processi: l’interazione e l’integrazione tra la componente tecnica e la componente politica degli Enti che hanno gestito la programmazione; i rapporti tra le istituzioni coinvolte (Consorzi socio-assistenziali o Comunità Montante, ASL e Comuni) nei singoli processi di pianificazione; le relazioni tra soggetti istituzionali e soggetti appartenenti alla società civile più o meno organizzata.
La ricerca condotta risponde a un disegno quali-quantitativo. Gli strumenti di rilevazione prescelti sono infatti due: interviste in profondità su traccia strutturata e batterie di domande chiuse autosomministrate agli intervistati in presenza degli intervistatori. Gli intervistati, fonte primaria di questo contributo, sono i responsabili dei servizi sociali degli enti gestori attivi sul territorio provinciale torinese(3).

Partecipazione e Tavoli Tematici
All’interno dei PdZ, i Tavoli Tematici meritano senz’altro un’attenzione particolare, in quanto luogo privilegiato della partecipazione e di sviluppo di una decisionalità “a più voci”. Nel contesto piemontese, infatti, l’architettura dei PdZ prevede tre organi di programmazione: l’Ufficio di Piano (UdP), il Tavolo Politico Istituzionale (TP) e i Tavoli Tematici (TT). Se i primi due costituiscono i veri e propri organi di governo del Piano, il terzo rappresenta invece l’arena riservata al confronto e alla partecipazione. Nello specifico, l’UdP è l’organismo “tecnico” di gestione complessiva del Piano; il TP è l’organo di rappresentanza dei Sindaci dei Comuni dell’ambito territoriale, che costituiscono i titolari effettivi del PdZ; i TT sono gli spazi d’incontro in cui prendono forma la concertazione, la programmazione partecipata nonché l’elaborazione progettuale condivisa da parte degli attori istituzionali ed extra-istituzionali, in primis cooperative e volontariato (Fonte: Linee Guida 2004).
La totalità degli ambiti territoriali di programmazione zonale nella provincia di Torino ha attivato almeno quattro Tavoli, relativi, seppur con denominazioni volta a volta mutevoli, alle seguenti aree tematiche: anziani; disabili; adulti in difficoltà (talvolta denominato “contrasto alla povertà e inclusione sociale”); minori e giovani (talvolta denominato “minori e responsabilità familiari” o “età evolutiva”). Alcuni ambiti territoriali, però, presentano un numero più elevato di Tavoli, o perché ai quattro tavoli usuali si aggiungono il tavolo delle dipendenze e/o il tavolo dell’immigrazione o perché si è deciso di effettuare uno sdoppiamento tematico dell’area corrispondente al tavolo minori, distinguendo l’area minori dall’area giovani e creando così due diversi tavoli. Nella demarcazione delle aree tematiche, un elemento interessante è costituito dal fatto che il tema delle responsabilità familiari, usualmente legato al tavolo minori, viene talvolta integrato all’interno del tavolo adulti, che solitamente, invece, viene inteso come “adulti in difficoltà” e non come “genitori”.
Rispetto all’organizzazione tematica dei TT, è importante sottolineare come la divisione in quattro aree derivi dalla ripartizione in categorie sulla base della quale il socio-assistenziale organizza le proprie attività di routine. Tale ripartizione si fonda sull’individuazione dei target effettuata facendo riferimento alle differenti fasi del ciclo di vita dei soggetti destinatari delle prestazioni e informa la struttura stessa degli enti gestori dei servizi socio-assistenziali, i quali presentano, appunto, una struttura organizzativa articolata in quattro aree di intervento. La scelta di attivare tavoli tematici che ricalcano la struttura interna dell’ente gestore, se da un lato rappresenta un’affidabile garanzia di continuità tra l’attività di programmazione zonale e il lavoro ordinario degli enti gestori, dall’altro potrebbe essere spia di un’opzione essenzialmente conservativa da parte di questi ultimi, che talvolta ha rischiato di inibire la propensione all’innovazione e all’attivazione rispetto ai social problems emergenti.
Allo scopo di comprendere la portata partecipativa dei PdZ, è essenziale focalizzare l’attenzione su chi effettivamente ha partecipato al lavoro dei Tavoli. Se, in linea di principio, i TT erano aperti a tutti gli interessi, le competenze e le voci più significative del territorio, di fatto a essere coinvolti sono stati principalmente soggetti sociali strutturati e organizzati in qualità di effettivi operatori della politica: in primis, cooperative e associazioni di volontariato, ma anche case di riposo, sindacati, scuole e, in un minor numero di realtà, parrocchie e associazioni ricreative, sportive e culturali. La partecipazione, dunque, risulta essere limitata a rappresentanti organizzati di specifiche categorie e problemi, piuttosto che aperta a singoli cittadini impegnati nel sociale ma non direttamente riconducibili a enti o organizzazioni. La cittadinanza in senso ampio, ancorché destinataria della politica, rimane sostanzialmente esclusa dalla programmazione.
Un target di inclusione ristretto trova conferma anche nella scelta degli strumenti comunicativi: nella maggior parte dei casi si è fatto ricorso a strumenti indirizzati a specifici target – lettere, telefonate, inviti e incontri mirati; mentre marginale è stato l’utilizzo di canali di informazione e di comunicazione generalista – articoli su giornali locali e assemblee pubbliche. Una possibile spiegazione della scelta di strumenti di comunicazione selettivi e particolaristici risiede nello scarso investimento del politico nella politica. Strategie comunicative di carattere diffuso e universalistico, infatti, richiederebbero un impegno e una promozione diretta da parte dei politici comunali; mentre l’utilizzo di strumenti mirati è più gestibile da parte di quelli che si sono rivelati gli effettivi imprenditori della politica: i tecnici.
Al di là della natura generalista o particolarista degli strumenti utilizzati, va sottolineato il ricorso poco diffuso a strategie di comunicazione innovative, quali la costruzione di siti web o la creazione ad hoc di un logo del PdZ come strumento di marketing territoriale e, per converso, il predominante utilizzo di modalità di informazione e comunicazione tradizionali. Tali strategie, anche laddove rispondano a un’esigenza di comunicazione generalizzata (v. assemblea pubblica), favoriscono, di fatto, processi di autoselezione: in altre parole, configurano una politica di programmazione prevalentemente riservata a soggetti ‘interessati’ e già attivi nel settore di policy.
Un’inclusione autoselettiva è la conseguenza inevitabile della rilevata assenza di un vero e proprio disegno di reclutamento dei partecipanti e di supporto, nonché di incentivazione, alla partecipazione. La prevalenza delle dinamiche di autoinclusione, e ancor più di autoesclusione – alla base delle quali opera, a detta di molti intervistati, “la paura di perdere la propria identità e di essere fagocitati da un meccanismo istituzionale”, al punto che il PdZ può essere “vissuto come un vincolo al proprio valore espressivo” – aggrava una delle criticità più rilevanti di tutto il processo di programmazione: il problema della rappresentanza delle parti sociali. Un problema di rappresentanza, e ancor meglio di delega formale, si pone, con ben poche eccezioni(4), per tutte le categorie di soggetti coinvolte nel processo di programmazione, e in particolare per quei mondi – istituzionali e non – che si presentano frammentati al proprio interno: ASL, cooperative, volontariato e scuole.
I policy makers hanno tentato di ovviare al problema chiedendo, fin da subito, di individuare delle specifiche persone in grado di rappresentare i principali soggetti collettivi. Il tentativo, tuttavia, si è rivelato fallimentare: non solo non è stato possibile individuare delle persone che rappresentassero l’intero mondo delle cooperative, del volontariato, delle scuole e dell’ASL, ma spesso i partecipanti non sono riusciti a portare all’interno dei tavoli posizioni che non esprimessero punti di vista puramente personali ma che, viceversa, fossero condivise all’interno della propria organizzazione.
Al di là della spinosa questione della rappresentanza, non si può non rilevare la presenza di un problema di fondo: una mancanza di chiarezza circa i compiti e gli obiettivi dei TT. Nello specifico, la pressoché totalità degli intervistati ha manifestato una diffusa “perplessità sulla realizzabilità di quanto emerso dai tavoli”, sollevando così dubbi in merito alla fattibilità delle proposte progettuali elaborate in sede partecipativa. Inoltre, in termini di “enormi difficoltà a capire che fine avrebbe fatto il lavoro svolto nei tavoli”, è stata sollevata la cruciale questione del recepimento delle linee d’azione proposte dai TT da parte dei tecnici ma, soprattutto, dei politici. Dubbi, quelli qui menzionati, assolutamente fondati, in quanto da più parti è stata denunciata “una vera e propria scissione tra la fase di consultazione e quella di redazione del Documento di Piano”.
In sintesi, a prescindere dal fatto che si sia verificato un generale appiattimento sul livello consultivo, agli stessi policy makers non era chiaro se si dovesse attuare una semplice consultazione o si dovesse costruire un percorso di vera e propria codecisione. Ancora, i TT dovevano fermarsi a un’analisi condivisa del contesto, delle risorse e dei bisogni o dovevano elaborare vere e proprie proposte di policy in forma di progetti? E da ultimo, la scelta delle linee d’azione prioritarie spettava ai soli politici o anche ai TT? Tali quesiti non solo non sono stati adeguatamente affrontati a monte dell’attivazione dei PdZ, ma sono rimasti sostanzialmente insoluti lungo tutto il I° ciclo di programmazione.
Il confronto tra le esperienze dei diversi ambiti territoriali ha consentito ai policy makers di pervenire a un set di elementi di apprendimento comuni in relazione ai TT, ossia al participative setting (Elster 1998). I gestori dei servizi sociali, innanzitutto, hanno imparato che il numero dei TT non deve essere troppo elevato: troppe arene partecipative sono difficili da gestire e da coordinare. Inoltre, hanno sperimentato sulla propria pelle che un numero troppo elevato di partecipanti ai TT nuoce alla capacità di programmazione; tanto è vero che, in talune occasioni, alcuni ambiti territoriali si sono trovati a dover sdoppiare i TT per mere ragioni numeriche. Un altro elemento di apprendimento, frutto di esperienza diretta, riguarda la necessità di concentrare nel tempo il lavoro dei TT, in modo da contenere il rischio di un calo fisiologico della partecipazione: tempi troppo sfilacciati aumentano la propensione alla partecipazione da parte di soggetti per così dire “perdigiorno” (Regonini 2005). Al fine di limitare il rischio di un deficit di coordinamento, è importante poi che i TT procedano in parallelo, evitando pause troppo lunghe tra un incontro e un altro. Allo stesso scopo conviene che il lavoro dei TT si svolga in modo strutturato, con obiettivi, tempi e regole predefinite. La costituzione di arene con setting altamente strutturati e istituzionalizzati anziché informali e autogestiti dai partecipanti è stata l’opzione prescelta fin dall’inizio dalla pressoché totalità degli ambiti, in quanto tale modalità di gestione delle arene, se da un lato costringe la partecipazione, limitandone la spontaneità e in definitiva la democraticità, dall’altro facilita la governabilità delle arene stesse. In sostanza, quindi, emerge ancora una volta un trade-off tra governabilità e democraticità, risolto sempre a vantaggio del primo polo e a scapito del secondo. Da ultimo, un’importante prescrizione ha a che vedere con la collocazione dei temi nei singoli tavoli. È evidente, ad esempio, che trattare il tema della genitorialità all’interno di un tavolo ‘adulti in difficoltà’ distoglie l’attenzione dalla ricerca di soluzioni adeguate rispetto al problema centrale: le misure di contrasto alla povertà e all’esclusione. In altre parole, nonostante i problemi siano complessi e interrelati, è necessario aggregare nei singoli TT tematiche omogenee, mettendo a punto una buona strategia divisionale.
Un modo per analizzare le dinamiche interne ai TT è cercare di comprendere quali siano stati i TT più conflittuali, quelli più propositivi e quelli in cui si è pervenuti addirittura a forme deliberative. Sotto il profilo della capacità propositiva, non andiamo incontro a grandi sorprese: i TT più propositivi corrispondono alle arene in cui siedono soggetti con capacità organizzative autonome e su cui si è investito di più – anziani e disabili. La ricerca, infatti, ha messo in evidenza come le scelte di investimento abbiano sistematicamente premiato le aree tematiche dei cosiddetti ‘soggetti forti’ del sistema socio-assistenziale (Teagno 2009), nonché quelle a più alto conflitto atteso, perché caratterizzate dalla presenza di soggetti – come alcuni sindacati nel tavolo anziani e le associazioni di genitori di disabili nel tavolo sulla disabilità – fortemente organizzati e capaci di veicolare in maniera più pressante e rivendicativa la domanda sociale(5).
I dati, in sintesi, mostrano un’importante equazione tra risorse possedute dai partecipanti (strutturazione e autonomia organizzativa), animosità del dibattito (conflittualità) e ricchezza di contenuti dello stesso (capacità propositiva).
È sorprendente, invece, la non totale corrispondenza tra tavoli propositivi e tavoli che hanno innescato dinamiche deliberative, ossia arene in cui si è giunti a soluzioni condivise attraverso il ricorso ad argomentazioni razionali non prettamente incentrate su interessi egoistici e strategici ma imperniate piuttosto su un concetto di bene comune (Habermas 1992). I tavoli per così dire deliberativi, infatti, non sono rappresentati solamente dai tavoli tradizionali – anziani e disabili – ma anche da tavoli più ‘sperimentali’, quali il tavolo immigrati e il tavolo minori. Tale dato conferma, da un lato, che la deliberazione necessita di investimento e di eredità positive – e quindi anche di capitale sociale pregresso – e dall’altro che la sperimentazione e l’inquiry, ossia il trattamento creativo dell’incertezza (Lanzara 2005), rappresentano il milieu privilegiato della deliberazione.
L’elemento che, più di tutti, favorisce la cooperazione e il confronto è la risorsa strategica “fiducia” (Mutti 1998; Barbera 2001), che in alcuni casi fortunati è già disponibile – si pensi, ad esempio, a TT che raccolgono l’eredità di gruppi di lavoro attivi da anni – e che molto più spesso va costruita e alimentata nel tempo, tanto tra i partecipanti quanto tra questi e le istituzioni.
Viceversa, la cooperazione e il confronto, e quindi un diffuso clima di fiducia, sono ostacolati da alcuni atteggiamenti e comportamenti imputabili a entrambi i fronti. Sul versante dei partecipanti, un fattore ostacolante è costituito da uno specifico atteggiamento – il “chiedere senza dare” – che viola il principio di reciprocità e nega la corresponsabilità. Un esempio di questo atteggiamento è riportato da uno degli intervistati: “in tutti i tavoli ci si aspettava una forte regia da parte dei servizi sociali. Per questo motivo i partecipanti non pensavano di dover decidere niente, ma di poter vedere esaudite le proprie richieste”. Sul versante delle istituzioni, un comportamento estremamente dannoso è dato dal non tener conto, di fatto, di quanto emerge dalla partecipazione dopo aver scelto formalmente di dare l’avvio a un percorso partecipativo. Un esempio di grave tradimento delle legittime aspettative dei partecipanti è fornito da un altro responsabile dei servizi sociali: “la scelta delle priorità effettuata dai politici ha di fatto anestetizzato la capacità propositiva e la propensione al confronto dei partecipanti ai tavoli”.

Conclusioni
A chiusura di questo contributo, è utile verificare se i tratti partecipativi fin qui delineati ci consentano di ricondurre i PdZ a specifici modelli di policy codificati in letteratura.
Sebbene nei processi sia stata rilevata la presenza di elementi di acredine e di tavoli strutturalmente più conflittuali di altri, è importante evidenziare come il livello di conflittualità complessivo risulti in definitiva tutt’altro che elevato. Ciò, se da un lato fa sorgere il dubbio che i Piani di Zona abbiano dato vita a percorsi sostanzialmente tecnici e non aperti a un vero confronto, dall’altro è perfettamente in linea con l’analisi coalizionale condotta: all’interno dei tavoli non si sono create coalizioni avversarie tendenzialmente stabili – riconducibili a dinamiche tipiche di politiche a somma zero e redistributive – ma coalizioni variabili a seconda dei singoli problemi affrontati – espressione tipica, invece, di politiche percepite come distributive (Lowi 1972).
Proprio un’interpretazione distributiva delle politiche – o quantomeno della loro fase di programmazione – è perfettamente compatibile con un livello di conflittualità non esasperato, coniugabile pertanto con l’idea secondo cui, da un processo di pianificazione, tutti possono guadagnare, se non in termini materiali almeno in termini di rappresentanza: ogni soggetto partecipante, nell’ambito di politiche inclusive, a differenza di quanto accade in contesti in cui la programmazione è unilateralmente affidata a soggetti istituzionali, ha la possibilità di far sentire la propria voce.

Note

(1) Anche, quindi, da quei processi che non hanno coinvolto attori extraistituzionali.
(2) La ricerca è stata realizzata da un’équipe del Dipartimento di Scienze Sociali dell’Università degli Studi di Torino, composta dai due autori del presente contributo e dai Proff. F. Girotti e P. Almondo, in qualità di coordinatori.
(3) Per maggiori dettagli sul disegno complessivo della ricerca cfr. Cataldi e Gargiulo, (2010).
(4) Fanno eccezione, ad esempio, i sindacati e alcune associazioni di tutela di specifici diritti, quali quelli dei disabili, che di fatto detengono il monopolio della rappresentanza nel proprio settore.
(5) Indubbiamente, tali scelte non solo hanno penalizzato investimenti in nuovi settori e problemi, ma rivelano, in aperto contrasto con la retorica della fertilità del conflitto e della sua gestione creativa (Sclavi 1994, 2000, Sclavi et al. 2002), una concezione patologica e disfunzionale dello stesso (Ciaffi e Mela 2006), che, come tale, se non neutralizzato viene certamente affrontato attraverso strategie di contenimento preventive.

Riferimenti bibliografici

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