Patrimonio Mondiale UNESCO: la tensione tra valore universale e interessi nazionali

La Lista del Patrimonio Mondiale UNESCO rappresenta oggi il più efficace strumento internazionale di conservazione e tutela di un bene pubblico globale che include alcuni tra i più importanti tesori culturali e naturali esistenti al mondo. Tuttavia, dopo quasi 40 anni di attività, e più di 900 siti protetti, è necessario domandarsi se e come il sistema UNESCO sia stato in grado di definire e preservare questo patrimonio. Il presente contributo sintetizza alcune recenti ricerche economiche che mettono in luce come esista una tensione tra l’aspirazione al valore universale ed eccezionale della Lista del Patrimonio Mondiale, e i fattori e interessi nazionali che ne influenzano la sua composizione e la rappresentatività delle culture mondiali.

1. La Lista del Patrimonio Mondiale: un bene pubblico globale di difficile definizione
Fin dalla nascita delle civiltà, gli uomini hanno spesso riconosciuto il patrimonio culturale come un bene prezioso, il cui valore può trascendere i confini nazionali e le culture. Le sette meraviglie, ad esempio, erano riconosciute da tutto il mondo antico come delle espressioni uniche ed eccezionali del genio, della creatività e della laboriosità umana.
Allo stesso modo, la Convenzione per la protezione del patrimonio mondiale, culturale e naturale, ratificata nel 1972 dalla Conferenza generale dell’UNESCO, ha il compito di definire e favorire la preservazione del patrimonio mondiale formulando una lista dei siti di eccezionale valore per l’intera umanità. Questo trattato internazionale trae origine dalla consapevolezza emersa nelle campagne internazionali dei decenni precedenti per la salvaguardia di alcuni tesori culturali minacciati, come i templi della Nubia (Abu Simbel) nel 1959 o il centro storico di Firenze nel 1996. Ad oggi, la Convenzione rappresenta il più efficace e prestigioso strumento internazionale di conservazione e tutela del patrimonio culturale e naturale, sottoscritto da più di 180 Stati membri e con più di 900 siti iscritti nella Lista del Patrimonio Mondiale. L’Italia è attualmente il primo paese nella Lista con 45 siti, seguita da Spagna (42), Cina (40) e Francia (35). Allo stesso modo, 36 paesi non hanno nessuna proprietà culturale o naturale iscritta.
Firmando la Convenzione, gli Stati si impegnano a garantire la tutela dei siti che possono essere riconosciuti come patrimonio mondiale: la loro preservazione per le generazioni future diventa quindi una responsabilità condivisa dall’insieme della comunità internazionale.
In termini economici, la Convenzione definisce e disegna degli strumenti per la preservazione di un bene pubblico globale. Indipendentemente dalla localizzazione geografica dei siti culturali e naturali, gli stati e la comunità internazionale riconoscono un valore universale al patrimonio inserito nella Lista. Questo valore trascende il semplice riconoscimento da parte di una singola società o nazione, supera le frontiere ed è condiviso dall’umanità intera. Il patrimonio mondiale possiede infatti un valore di opzione e di esistenza non solo per le comunità nazionali in cui i siti sono situati, ma per i cittadini di tutto il mondo e per le future generazioni.
Per quanto nobili e giuste le aspirazioni della comunità internazionale, nella pratica gli obiettivi della Convenzione possono essere raggiunti solo se si riesce a definire chiaramente il bene pubblico globale, cioè individuare quali siano i criteri per considerare un sito degno di essere incluso nella Lista del patrimonio mondiale. Tuttavia, di fronte all’estrema diversità culturale e naturale, la definizione di Patrimonio Mondiale è di sicuro un’impresa non facile. In generale, la definizione dovrebbe basarsi su un giudizio di esperti sul valore eccezionale universale del sito, ma allo stesso tempo contemplare criteri di equa rappresentatività delle diverse culture ed ecosistemi.
Il sistema di inclusione di siti nella Lista ha cercato di soddisfare in parte queste esigenze. Per favorire la rappresentatività, ogni anno, gli stati membri della Convenzione possono proporre dei propri siti da inserire nella Lista del Patrimonio Mondiale. Per favorire la qualità, le candidature sono esaminate da esperti di due organi consultivi – ICOMOS per i siti culturali e IUCN per quelli naturali – che danno una prima valutazione sulla qualità della candidatura in base a 10 criteri di definizione del valore eccezionale e unico del sito. La decisione finale, se inserire o meno il sito nella Lista, spetta però al Comitato del Patrimonio Mondiale, che è l’organo direttivo della Convenzione, composto da 21 stati membri che stanno in carica circa 4 anni.
Questo sistema, rimasto quasi inalterato dal 1972 ad oggi, ha delle implicazioni nella definizione e composizione del Patrimonio Mondiale come bene pubblico globale. In primo luogo, lasciare l’iniziativa delle candidature agli stati implica che il Patrimonio Mondiale non sia una collezione statica di eccellenze nazionali, ma sia evoluto nella sua composizione e si sia accresciuto nel tempo. In secondo luogo, come nota Van der Aa (2005), indipendentemente dalla presenza nei loro territori di monumenti e tesori potenzialmente iscrivibili nella Lista, non tutti gli stati hanno aderito alla Convenzione allo stesso tempo, né tutti gli stati sono stati ugualmente attivi nel proporre candidature. Ad esempio, per quanto la Francia sia stata uno dei primi firmatari della Convenzione e uno dei paesi più attivi, la Tour Eiffel non è inserita nella Lista del Patrimonio Mondiale.
Già da questo esempio, si può notare come possa esistere un disallineamento tra le preferenze dei singoli stati e della comunità internazionale nella definizione del Patrimonio Mondiale. Allo stesso modo, come è norma in molti forum internazionali, l’iscrizione di un sito implica, conoscenze procedurali, una non indifferente attività di lobbying e la capacità di investire tempo e risorse economiche nel processo di candidatura da parte degli stati.

2. Gli interessi nazionali nella definizione del Patrimonio Mondiale
Ma quali sono i benefici e gli interessi in gioco nell’inserire un sito nella Lista UNESCO? Apparentemente, avere il riconoscimento del Patrimonio Mondiale per un sito culturale e naturale non porta direttamente ad una maggiore preservazione o a risorse finanziare addizionali per queste attività. Il Fondo internazionale del Patrimonio Mondiale assomma a circa 4 milioni di dollari l’anno, una cifra insufficiente per affrontare i crescenti bisogni di tutela e assistenza internazionale dei quasi mille siti iscritti (Bertacchini e al., 2011). L’inclusione di un sito nella lista del Patrimonio Mondiale può avere alcuni benefici indiretti non irrilevanti. Il riconoscimento di Sito del Patrimonio Mondiale può segnalare infatti la qualità e il valore del patrimonio, porre sotto i riflettori internazionali il sito e per questo attirare più facilmente fondi nazionali e internazionali per la tutela e la valorizzazione (Frey e Steiner, 2011). Inoltre, cresce sempre di più tra i gestori di siti culturali e naturali la convinzione o la speranza che il marchio “Patrimonio Mondiale” possa servire ad aumentare l’attrattività del sito e la sua capacità di posizionarsi nel mercato turistico internazionale. Su questo punto bisogna sottolineare come lavori economici quantitativi non abbiano trovato ancora un chiaro nesso causale tra presenza di patrimonio culturale o siti UNESCO e capacità attrattiva del territorio (si veda ad esempio Cellini, 2010). Tuttavia altri lavori più qualitativi e basati su casi studio confermano come la candidatura alla Lista del Patrimonio Mondiale per monumenti e aree storiche e naturali meno toccate dai percorsi turistici possa servire come strategia di branding e marketing territoriale (Rebanks Consulting, 2010). Secondo Van der Aa (2005), solo il 18% dei siti nominati direttamente dalle autorità centrali ha testimoniato una forte crescita nelle presenze turistiche dopo l’iscrizione al Patrimonio Mondiale. Questo è in particolare dovuto al fatto che le proprietà iscritte dalle autorità nazionali sono anche i siti culturali e naturali che già ricevono più visitatori. Al contrario, circa il 50% dei siti inizialmente proposti da stakeholder locali, hanno testimoniato una forte crescita di visitatori. Allo stesso modo, i siti nominati direttamente dalle autorità centrali sono quelli che attraggono maggiormente i visitatori stranieri, mentre i siti inizialmente proposti da stakeholder locali conquistano principalmente alcune nicchie nel mercato turistico nazionale.
In questa prospettiva, si inizia a comprende come l’iscrizione di siti nella Lista del Patrimonio Mondiale sia diventato per molti un obbiettivo volto a interessi che trascendono la costruzione e definizione di un bene pubblico globale. Il rischio maggiore è quindi che dopo quasi 40 anni di attività, il Patrimonio Mondiale definito e protetto dalla Convenzione non rispecchi quel bene pubblico globale immaginato dai firmatari dell’accordo internazionale, ma sia invece il riflesso di interessi locali e nazionali che possono influenzare in diversi modi la composizione della Lista del Patrimonio Mondiale.

Analizzando quantitativamente l’evoluzione della Lista del Patrimonio Mondiale alcune recenti ricerche economiche (Bertacchini e Saccone, 2011; Frey e al., 2011) hanno messo proprio in luce come la composizione della Lista non sia stata solo determinata dalle condizioni storiche e culturali che influiscono sulla presenza di tesori culturali e naturali di valore universale in determinati territori. Al contrario, la composizione e definizione della Lista del Patrimonio Mondiale è anche influenzata – o distorta – sia dalle condizioni politico-economiche degli stati che da fattori istituzionali insiti nel sistema di iscrizione del Patrimonio Mondiale.
In primo luogo, la grande preponderanza di siti iscritti da paesi europei non è semplicemente dovuta a una già criticata scelta dei criteri di selezione che favorirebbero una definizione del patrimonio culturale eurocentrica (Van Der Aa, 2005). In aggiunta, le analisi quantitative dimostrano chiaramente come i paesi più ricchi,ad esempio in termini di PIL o PIL pro capite, hanno più siti UNESCO in quanto hanno una maggiore attività di candidature e una più alta probabilità di successo dei siti proposti.
In secondo luogo, e ancora più importante, il comportamento degli stati si è rivelato nel corso degli anni strategico. La maggior parte dell’attività di candidatura e l’iscrizione dei siti da parte di uno stato è avvenuta infatti quando questo era membro del Comitato del Patrimonio Mondiale, l’organo direttivo che ha l’ultima parola sulla accettazione o bocciatura delle candidature. Per quanto la Convenzione richieda che la composizione del Comitato debba garantire un’equa rappresentanza delle differenti regioni e culture del mondo, questo bilanciamento non è mai stato ottenuto e, anche in questo caso, gli stati più ricchi e economicamente influenti a livello internazionale sono stati più rappresentati.
L’evidenza empirica di questi lavori dimostra quindi come ci siano state potenziali distorsioni nella definizione del Patrimonio Mondiale come bene pubblico globale. Queste distorsioni derivano soprattutto da differenze nelle condizioni e capacità degli stati di partecipare al sistema UNESCO del Patrimonio Mondiale.

3. Il futuro della Lista del Patrimonio Mondiale
Risolvere la tensione esistente tra l’aspirazione al valore universale della Lista e gli interessi locali e nazionali a ottenere il riconoscimento di Patrimonio Mondiale per i propri siti rappresenta senza dubbio una delle sfide più importanti per il futuro della Convenzione UNESCO.
Inoltre, non ci sono limiti formali all’inserimento di siti nella Lista del Patrimonio Mondiale. La Lista è cresciuta nel tempo ed è prevedibile che toccherà fra pochi anni quota mille siti. Chiaramente, più siti sono inseriti nella Lista più aumenta il rischio che il valore eccezionale e universale dei nuovi sia minore rispetto ai precedenti.
Già nel 1994 queste questioni erano state sollevate a livello internazionale con l’approvazione della Global Strategy for a Balanced, Representative and Credible World Heritage List. Nella Strategia, riconoscendo gli sbilanciamenti nella composizione della Lista con una marcata rappresentatività culturale in favore del patrimonio europeo ed occidentale, sono stati proposte alcune modifiche al sistema di candidatura e selezione dei siti (UNESCO, 2007). In particolare, sono state inserite nuove categorie (come le categoria del paesaggio culturale, del patrimonio industriale o moderno) per favorire l’inclusione di espressioni di patrimonio culturale meno rappresentate. Inoltre, dal 2002, vi sono state anche restrizioni nella possibilità degli stati di proporre e ottenere siti: ogni stato non può proporre più di due candidature ogni anno e il Comitato ne può esaminare un massimo di 45.
Le misure adottate però non sembrano aver avuto finora gli effetti sperati nel correggere gli sbilanciamenti della Lista (Strasser, 2002). Anzi, in alcuni casi sembrano ancora una volta aver favorito gli stati più attivi nel sistema del Patrimonio Mondiale. Ad esempio, secondo Fowler (2003) i paesi europei sono stati quelli che hanno maggiormente sfruttato la possibilità di nominare e ottenere siti nelle nuove categorie di Patrimonio Culturale. Tra il 1995 e il 2003, 29 su 44 siti nella categoria Paesaggio Culturale sono stati inseriti da paesi europei. Allo stesso modo, quasi il 90% dei siti di archeologia industriale inseriti nella Lista si trova in Europa.
Allo stesso modo, se le restrizioni nella possibilità di proporre candidature può in parte limitare le differenze nella capacità degli stati di candidare e ottenere siti UNESCO, queste misure difficilmente riusciranno a correggere gli sbilanciamenti nella composizione del Patrimonio Mondiale che nascono da un lento processo cumulativo di formazione della Lista.
Quali soluzioni ci possono essere quindi per superare la tensione tra aspirazione al valore universale della Lista del Patrimonio Mondiale e gli interessi nazionali in gioco?
Una prima soluzione, potrebbe essere quella di cambiare le regole di inserimento di siti nella Lista in modo tale che ogni paese scelga il patrimonio nazionale degno di ricevere il riconoscimento UNESCO, ma non ci sia più un processo centralizzato di valutazione del valore universale e di selezione. Questa proposta non è nuova, dal momento che è il sistema che governa la Lista del Patrimonio Intangibile dell’Umanità, creata con la Convenzione UNESCO del 2003. In questo modo, il Patrimonio Mondiale sarebbe la somma delle Liste dei patrimoni nazionali dei singoli stati. Il principale vantaggio è che ogni società riuscirebbe finalmente a includere a livello internazionale i siti che più rappresentano la sua percezione e visione di patrimonio culturale. Tuttavia questa scelta avrebbe anche delle implicazioni negative. In primo luogo, si riconoscerebbe la sconfitta da parte della comunità internazionale di riuscire a dare una definizione condivisa e universale di Patrimonio Mondiale. Il rischio è infatti che non tutti i siti che potrebbero essere di rilevanza culturale mondiale vengano ugualmente considerati tali dalle società e paesi in cui essi sono localizzati. Inoltre, lasciare la completa iniziativa agli stati senza un filtro di selezione potrebbe far esplodere il numero di siti inseriti nella rinnovata Lista, facendo così definitivamente perdere al marchio Patrimonio Mondiale UNESCO quella capacità di segnalazione della qualità del patrimonio culturale che si fregerebbe del riconoscimento.
Una seconda possibilità è forse più provocatoria ma riuscirebbe senz’altro a ridare vitalità all’aspirazione al valore universale ed eccezionale della Lista del Patrimonio Mondiale. La proposta sarebbe quella di fissare un numero massimo di siti del Patrimonio Mondiale e creare una competizione periodica tra i siti inseriti nella Lista e le candidature dei nuovi entranti. Una proposta analoga, soprattutto in riferimento alla crescita della diversità culturale del Patrimonio UNESCO, è stata avanzata da Santagata e Saccone (2011).
Come ricordato in precedenza, la Lista è cresciuta negli anni con l’aggiunta di nuovi siti e, solo in due rari casi (la città di Dresda e il santuario di Oryx in Oman) dei siti sono stati esclusi dalla Lista del Patrimonio Mondiale per il venir meno della conservazione del loro valore universale.
Mediante la nuova proposta, la possibilità di uscire dalla Lista sarebbe invece istituzionalizzata, mantenendo però quasi inalterato il sistema di candidatura da parte degli stati e il processo di valutazione da parte degli organi consultivi e del Comitato. La parte più complicata sarebbe tuttavia quella di scegliere il metodo di torneo e competizione tra i siti. Potrebbe un sito candidato che sia espressione della civiltà Cinese competere con un monumento dell’antica Roma presente nella Lista?
Per quanto difficilmente realizzabile, la nuova proposta porterebbe tuttavia alcuni benefici al sistema del Patrimonio Mondiale. In primo luogo, la competizione tra siti dentro e fuori la Lista accrescerebbe l’attenzione sul valore universale del Patrimonio Mondiale e porterebbe ad un dibattito più consapevole sulle differenze culturali nella sua definizione. In secondo luogo, il numero fisso di siti nella Lista porterebbe ad una maggiore presenza di eccellenze e quindi garantirebbe una qualità del Patrimonio Mondiale maggiore di quella che si avrebbe se il numero di siti aumentasse costantemente anno dopo anno.
Questi aspetti positivi potrebbero essere però vanificati se gli interessi nazionali e le differenze economiche e politiche degli stati saranno ancora rilevanti per determinare la capacità di candidare siti e di fare lobbying per includerli, indipendentemente da un giudizio “oggettivo” sul valore universale ed eccezionale dei siti proposti.


Bibliografia

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