Approdo a Pechino di mattina. Discendere con l’aereo e impattare su un’area vastissima, che si perde in fretta nel marrone della foschia inquinata. Non si vede Pechino, ma comunque non avrebbe senso guardarla da qui. Questo viaggio è nato come le bolle soffiate con una cannuccia colorata in un bicchiere di cola, come quelle bolle si presenterà Pechino, senza senso se guardata dall’alto, ma come un’infilata di bolle nello sguardo frontale.
Dongcheng si mostra per prima e mi mostra la capitale. Questa sarà per sempre la mia Pechino, da qui l’inquinamento atmosferico si percepisce ma impatta diversamente. Dongcheng è un agglomerato di hutong della città. L’hutong è la misura minima di quartiere popolare pechinese ed è di hutong che, a parer mio, è fatto il reale tessuto urbano della capitale. Siamo a nordest della Città Proibita e a sud ovest dei Templi di Confucio e dei Lama e con essi Dongcheng confina implacabile.
Pochi qui i turisti ma per lo più l’esotico sono io, e diversi bambini e bambine mi chiedono di fare una foto insieme. Divenuti attrazione turistica, vederci passare provoca numerosi rischi di incidenti tra risciò, moto e bici, tandem, motorette, sidecar, pedoni e bimbi minuti che giocano in strada seminudi, testa rasata, su cumuli di sabbia.
L’hutong è perennemente in costruzione e in divenire nonostante i suoi cinquecento anni. Non si può sapere chi siano o in quanti vivano realmente in Dongcheng e limitrofi. Vicoli stretti placcati di fili elettrici scoperti, basse case di mattoni grigi, la vita si svolge all’aperto e le attività si sovrappongono senza pudore. Entrarvi non viene spontaneo. Già Pechino è così “malatamente” ricolma di gente da provocare il bisogno di pace e silenzio, figurarsi farsi venire in mente di entrare in una di queste strade in cui si vive come duecento anni fa vivevano i cinesi: di ristorazione da strada e piccoli locali, si vive di riciclo e umili mestieri; lo scontrino è inesistente, il che fa di queste persone commercianti non regolamentati dal governo, mal visti ai loro stessi rappresentanti dunque. Ed ecco che io li sostengo.
Gulou è una strada importante nel mio hutong di Dongcheng, vi passano autobus e macchine, oltre i normali mezzi di locomozione studiati dai cinesi. L’incrocio è conteso da un venditore di tazze sfuse di vari stili, uno di caramello soffiato su stecco, un guidatore di risciò e una venditrice, infine, di fermacapelli pelosi a forma di orecchie di animaletti. Attorno, uomini seduti in terra e decine di altre attività. È su Gulou che la guida ci è venuta a prendere questa mattina, per un tour “spremi-turisti” a cui abbiamo dovuto prendere parte per poter vedere la Grande Muraglia, e solo per essa.
Prima di cominciare ad orientarmi per Gulou ho dovuto percorrerla per 4 giorni. Cosa cementa una città ai suoi cittadini?
Sogno. Sul letto duro quasi senza materasso del mio ostello: mi osservo allo specchio, indossando orecchie di coniglio e maschera antigas. Ho capelli lunghi e lisci color arancione. “Ni hao” mi dico.
Stamattina Dongcheng si sveglia immersa nella sabbia del Gobi, mentre io mi sento ancora dentro il sogno. Ma il sogno è meno farraginoso della realtà.
Capitale dei 25 milioni e degli odori più disperati, dista dal deserto del Gobi poche centinaia di chilometri. Scatto foto alla maniera di Gianluca, tenendo cioè l’obiettivo all’altezza dell’ombelico, di sbieco, e guardando da una parte mentre scatto in tutt’altra direzione. È l’unico modo per cercare di fermare le persone che incrocio. Inoltre il taglio sbilenco delle foto mi piace, perché simula meglio il mio sguardo veloce – non si dice forse in sicilia “tagliare” per dire “guardare”? -. È più corretto, penso, dire di tagliare un particolare dal tutto, di questa Cina.
I capelli mi si attaccano alla nuca, con sudore e sabbia, quella di un distretto polveroso di mattoni da costruzione o forse quella del Gobi? Mattoncini per le vie, mattoni rubati e nascosti sotto il tappetino di un treruote, nel crepuscolo prima di cena. Risate squillanti di ragazzine in vestitini color caramella, veline.
Ancora pochi i turisti visti. Rossi, pallidi, ciondolanti.
È sabbia, sono tempeste di sabbia quelle che si alzano a nord nelle giornate come questa. Giallognola o rossiccia si poggia su tutto, entra nelle case, si attacca al bucato steso in strada, accarezza i capelli della vecchia sdentata e cieca all’incrocio per poi incollarsi su quelli della pelle-di-porcellana che prende un tè tibetano più a destra. Si pastella col sudore sulle pance scoperte dalle maglie arrotolate degli uomini di strada, i lavoratori invisi al governo centrale della grande repubblica. Tutto questo, solo questo è Dongcheng, siamo lontani dai buildings e dai loro mall con i ristoranti giapponesi o italiani e i megaschermi sintonizzati sulle olimpiadi di Londra.
Il turismo di massa è un fenomeno recente qui.
Il tramonto sabbioso imbibisce questa cartolina di Piazza Tienammen, dove un tempo i giovani studenti sono venuti a protestare e oggi bivaccano con fare occidentale di fronte la pur seria cerimonia dell’ammainamento della bandiera. Ridono addirittura mentre mimano il passo dei militari che compiono questo saluto al sole. Ignorano poi le camionette della polizia che sempre più insistentemente invitano a sgomberare a cerimonia terminata. Bisogna passare per il metal detector ed essere perquisiti prima di entrare, quasi in un rapporto uno a uno con l’intera Repubblica Popolare; riusciamo a far passare un coltello ma non una bomboletta antizanzare. Ma all’uscita, quando la sabbia del Gobi non si percepisce più e viene sostituita dalle luci acrobatiche attorno il ritratto del Gande Mao, sulle mura ciclopiche della Città Proibita, fluiamo tutti insieme placidi, verso mastodontici sottopassi. Via via perdendo di vista il vicino, avvolto come viene nell’azzurro della notte vasta, vasta secoli, vasta miliardi di persone.
Riconquistare Dongcheng attraverso uno squilibrato risciò, rovinare su strade che di notte sembrano chiudersi sulla loro magia, quando le lanterne rosse si accendono.
Pechino fa il verso alle capitali occidentali?
Contenitori. Contenitori sono i locali che fervono di sorrisi a mandorla e capelli serici. Come ovunque, e sempre me ne stupisco, mancano gli occidentali. Le piccole pasticcerie chiudono, i giovani pechinesi affollano Bailou, la strada dello shopping hipster di Dongcheng. Mangiano cibo da strada, spiedini di pollo alla paprika e dolciumi che mi ricordano quelli a base di fagioli azuki, quelli giapponesi. Anche le ragazze più sostenute non fanno caso alla polvere, all’acqua sporca, alla spazzatura che rosicchia la strada e anzi, vi si aggirano schivando tutto dai loro tacchi alla moda.
Intanto nella Bailou diventa notte, e i pub all’occidentale si riempiono. Ci fermiamo in un centro sociale, il Mao. È un posto che da fuori ricorda una piccola fabbrica, con le pareti di metallo, e da dentro mostra in tutto il suo orgoglio postcontemporaneo muri graffittati e dipinti e barman e barmaid dai capelli tinti e i corpi tatuati. Non sembra quasi di essere sostanzialmente in uno slam cinese, sembra quasi Europa. Sembra quasi il Tacheles. La musica, Rolling Stones, un po’ di noise. La sala della musica dal vivo è aperta, un gruppetto di giapponesi dai capelli alla jrock fa avanti e indietro trascinando gli strumenti. Da bere birre, drink di qualche tipo, quasi tutto in stile occidentale.
Contenitori. Anche questo mi sembra un contenitore. Ripieno di altri contenitori proprio come le scatole cinesi, è come se avessero riproposto i nostri, ma è come se nel duplicarli non vi avessero messo dentro l’anima.
Chissà se ci sono case infestate, in Cina.
Cambiamo, verso le due di notte, per un pub in legno a due piani più terrazzo dalle lanterne rosse onnipresenti, a pochi metri di distanza. Qui invece ci sono occidentali ed orientali che fanno conoscenza. Prendiamo diversi drink, mentre la musica è rimasta ferma agli anni 90: Guns&Roses, Rage Against the Machine. È un volume eccessivo, fatto per sbronzarsi, molto occidente, si. E difatti il barman marsigliese invita due cinesi sbronze a liberare i bagni, mentre i ragazzi occidentali gridano perché non riescono a sentirsi.
Tornando a casa, vedo un venditore di lampade colorate, appoggiato alla sua bici sfinita e, per un attimo, ho un fremito di emozione, credendo che all’interno delle lampade ci siano delle lucciole a far da lumino. Devo restarne delusa. Sono lampade con lucine elettriche, non lucciole catturate nei parchi della grande, mitica Capitale del Nord. Sarebbe dovuto essere il 1945, la Guerra appena finita, quella Cina. Ma quella Cina è scorsa via. Ci si può sentire davvero molto soli il giorno. Ma la notte le labbra si assottigliano, gli angoli della bocca scendono all’ingiù.
Pioverà un giorno, mi dico. E laverà via tutti questi odori marci, di antipulce e canfora. Pioverà sulle belle chiome lucide ma polverose di queste ragazze ruffiane, sulla pancia vuota di quel tipo che ricicla i cartoni, pioverà sui quei cartoni, sulla montagnetta di sabbia su cui giocavano stamattina i bambini a sedere nudo. Pioverà sul coniglio, sul pavone, galline e cagnolini nelle gabbiette per le strade, prima ancora che vengano cucinati. Sulle pesche rosa di un rosa davvero balocco. Pioverà sui cantieri dell’hutong.
E la pioggia salverà Pechino ancora per un giorno, per un giorno ancora, dalle dune mobili dell’onorevole Gobi. Nulla poté neppure la Grande Muraglia di fronte ai mongoli sui loro cavalli nani dal pessimo carattere, nulla potrà questo tifone che si avvicina contro quel deserto che si muove cantando.