Quell’azzurro che tutti aspettiamo: le Fondazioni culturali del “quasi non profit”

Nel terzo settore italiano si registra un particolare miscuglio di pubblico e privato, che caratterizza molti Enti che intervengono in ambiti tipici del non profit, testimonianza, questa, della storia di un settore che si presenta strettamente correlato al processo di riforma dello Stato sociale e di trasformazione della Pubblica Amministrazione. In molti, negli ultimi tempi, hanno evidenziato come il generale slittamento istituzionale delle attività di policy verso Regioni ed Enti locali – sommato alle varie forme di coinvolgimento della comunità e, quindi, alla nuova organizzazione degli attori – rappresenti una risposta adattiva della Pubblica Amministrazione (centrale e locale), di fronte alla restrizione delle risorse economiche disponibili e all’esigenza di meglio articolare la produzione e l’offerta di beni pubblici.

Introduzione
“In ogni puzzle c’è, sempre, una zona inquietante, che spesso sfugge alle nostre aspettative, che resiste al nostro ordine spaziale e che ci lascia perplessi, di fronte alla soluzione finale. È l’azzurro del cielo”.

Il passo citato è uno stralcio dell’affascinante premessa che Antonio Saenz de Miera fa del suo libro “L’azzurro del puzzle: Fondazioni e terzo settore in Spagna”, tradotto e pubblicato anche in Italia qualche anno addietro. L’Autore, un “uomo di fondazioni”, ha usato l’azzurro del puzzle “questa parte problematica in tutti i puzzle”, come metafora complessiva per parlare di quello spazio che il così detto “terzo settore” è andato a occupare nelle moderne società occidentali. Uno spazio che in Italia, fino a non molto tempo fa, era pressoché sconosciuto e stentava a trovare spazio e dignità di osservazione sia sulla stampa, sia nella comunità scientifica italiana.
Ma questo è il passato! Nell’ultimo decennio, infatti, in molti (tra cui sociologi, giuristi, economisti, aziendalisti, esperti della comunicazione) si sono interessati nei loro lavori al settore del non profit, offrendo chiavi di lettura specifiche. Essi hanno, così, contribuito alla formazione di uno stato delle conoscenze che si caratterizza per essere il risultato di una costante contaminazione di scienze e culture tra loro assai differenti: ciascuno ha offerto interpretazioni e definizioni diverse del fenomeno che, però, non sempre ritroviamo, nel nome o nel significato, muovendo da punti di osservazione diversi. Nel terzo settore italiano, infatti, si registra un particolare miscuglio di pubblico e privato che caratterizza molti enti che intervengono in ambiti tipici del non profit, testimonianza, questa, della storia di un settore che si presenta strettamente correlato al processo di riforma dello Stato Sociale e di trasformazione della Pubblica Amministrazione. In molti, negli ultimi tempi, hanno evidenziato come il generale slittamento istituzionale delle attività di policy verso Regioni ed Enti Locali – sommato alle varie forme di coinvolgimento della comunità e, quindi, alla nuova organizzazione degli attori – rappresenti una risposta adattiva della Pubblica Amministrazione (centrale e locale), di fronte alla restrizione delle risorse economiche disponibili e all’esigenza di meglio articolare la produzione e l’offerta di beni pubblici.
Ecco colta, dunque, la motivazione essenziale della particolare contaminazione di pubblico e privato tipica di molti enti che intervengono in ambiti propri del non profit; ecco la spiegazione di un particolare favore che il legislatore italiano ha voluto riconoscere al mondo delle fondazioni sin dai primi anni Novanta, andando a comporre un quadro giuridico particolarmente ricco e complesso, arrivando ad ampliare lo spettro semantico del sostantivo fondazione. Ne sono derivate istituzioni dalle caratteristiche assolutamente peculiari, di elevata complessità organizzativa, difficilmente riscontrabili in contesti istituzionali diversi da quello italiano e solo in parte rintracciabili nella letteratura specialistica dedicata all’analisi tanto delle aziende non profit in senso stretto, quanto delle aziende pubbliche tout court.
Il dato, così rilevato, motiva oggi la necessità un’approfondita analisi delle opportunità e degli spazi applicativi di detto istituto con particolare riferimento al settore della conservazione e gestione del patrimonio culturale. Nel settore della cultura, infatti, forse più che in ogni altro, il ricorso a fondazioni è sembrato nel tempo arricchirsi di significati e aspettative fino a qualche anno fa né dichiarati né immaginati: la costituzione di nuove fondazioni è sembrato nel tempo assumere una valenza innovativa, riscuotendo un consenso sostanzialmente unanime, anche quando gli obiettivi di efficienza ed efficacia attesi non sembrano ancora oggi essere raggiunti.
Si spiega così il timore di una “moda fondazionale”, che affida alla scelta della forma giuridica istituzionale la possibilità di innovare la gestione dei beni e delle attività culturali, non curante della necessità di intervenire su aspetti inerenti alle variabili interne al sistema organizzativo aziendale dei singoli istituti.  Nello specifico, il problema teorico e applicativo che ricerca e prassi devono ormai porsi è quello di analizzare il problema del cambiamento e della innovazione delle aziende culturali pubbliche in un paradigma di “contestualità coerente”, di cui la qualità formale dell’assetto amministrativo è elemento importante ma non unico, necessitando altresì specifiche condizioni che riguardano più complessivamente il sistema di attori e relazioni interne ed esterno alle singole aziende, tali da mantenere sempre alto il livello di attenzione e tensione allo sviluppo atteso.

1. Terzo settore, crisi del Welfare e nuovi assetti di governo locale
Negli ultimi decenni, in particolare, nonostante i riconosciuti meriti, la maggioranza dei sistemi di Welfare State hanno ampiamente mostrato la loro inadeguatezza nel far corrispondere un’efficace risposta pubblica alle aspettative e alla partecipazione attiva dei cittadini, coniugando l’universalità delle prestazioni con la diversità dei bisogni, lo sviluppo economico, la coesione sociale, la crescita urbana, l’equilibrio nel territorio e l’emancipazione individuale.
Se il tradizionale modello di Welfare aveva dato vita a una configurazione del sociale incentrata sull’interazione di due sottoinsiemi, lo Stato e il mercato, dalla seconda metà degli anni Settanta sono stati creati i presupposti per ricostruire una nuova idea di cittadinanza allargata, reticolare e di comunità solidale (“Welfare Society”, dello star bene), in grado di generare il cosiddetto community empowerment.
È diventato così sempre più frequente il riferimento a una pluralizzazione dei protagonisti della politica sociale, alla partecipazione di soggetti privati e aziende non profit, alla rilevanza politica della famiglia e alla trasformazione degli utenti da attori passivi in co-produttori e co-gestori dei servizi, non più, quindi, semplici fruitori ma catalizzatori capaci di proporre e realizzare iniziative sperimentali innovative.
In questo quadro d’insieme, trova giusta collocazione il processo di decentramento amministrativo attuato a partire dalla riforma delle autonomie locali (L. 142/90) e dall’attuazione della Legge n. 59/1997 (Bassanini I). Con esso si è andato compiendo il trasferimento a Regioni ed Enti locali di numerose funzioni amministrative, assumendo il principio di sussidiarietà quale criterio di riparto delle competenze in questione (L. n. 59/1997, art. 4, II c., lett. a); D.lgs. n. 112/1998, artt. 128 ss.). Ciò ha avuto il significato di progressiva localizzazione del Welfare sociale, le cui responsabilità politico-amministrative tendono a concentrarsi prevalentemente su due livelli di governo: la Regione e il Comune.
Il processo di decentramento ancora in atto, sta quindi gradualmente ampliando e valorizzando il ruolo delle autonomie locali, estendendo non soltanto le materie di loro competenza, ma soprattutto confermando l’importanza, da parte di queste, di acquisire capacità di concertazione e negoziazione, finalizzate a creare sinergie di lungo periodo tra pubblico e privato.
Tutto ciò, sebbene idea affascinante sul piano teorico, si presenta, di fatto, come un processo estremamente complesso da gestire, ponendo serie perplessità circa l’effettiva capacità di titolarità e di esercizio delle Amministrazioni.
L’effettiva applicazione del principio di sussidiarietà, oltre a determinare la valorizzazione delle funzioni comunali (o degli Enti locali), trasforma i cittadini da utenti in “alleati” dell’Amministrazione nell’attività di governo territoriale. La realizzazione piena di tale principio spinge l’Ente locale a svolgere un ruolo di “catalizzatore” delle energie presenti nella comunità, incoraggiandone in vari modi l’emersione per la cura dei beni comuni. Tutto ciò, evidentemente, richiede la creazione di un ambiente politico-sociale specifico, in cui il rapporto fra cittadino, imprese, istituzioni sociali e livelli di governo sia improntato a criteri di efficienza, flessibilità, responsabilità e trasparenza.
Le “ricette” proposte per la creazione di una nuova cultura di governo locale sono molteplici, e, nel dibattito politico, si fa un uso sempre maggiore di termini come pluralismo, concorrenzialità, gestione manageriale. Si spinge, in tal modo, verso una progressiva separazione della production dalla provision del servizio (Musgrave, 1959; 1983; 1985), secondo uno schema tipico che vede l’affidamento al privato (profit o non profit) della produzione del servizio, lasciando a carico del bilancio pubblico il suo finanziamento. Ne deriva un quadro articolato di interessi e opportunità, in cui l’Ente locale è a volte finanziatore, a volte committente di nuovi progetti e azioni.
L’auspicio è quello di una progressiva evoluzione del rapporto tra Pubbliche Amministrazioni e organizzazioni profit e non profit, dove queste ultime siano chiamate a rispondere non solo a un’esigenza di risparmio, ma anche di innalzamento della qualità del servizio erogato, così da renderlo più vicino ai bisogni degli utenti.
In tal caso, la delega alle organizzazioni di terzo settore per la soluzione dei singoli problemi, assumerebbe il senso proprio di una scelta organizzativa, operata dall’Amministrazione per ridurre la complessità informativa legata allo svolgimento di alcune azioni di governo locale. Un passo questo che, per non rischiare di condurre a frammentazione, duplicazione e sprechi, dovrà necessariamente legarsi alla definizione di regole che consentano una chiara distinzione di responsabilità e di competenze (Ranci, Vanoli, 1994, p. 31).
Gli spazi del dialogo con il mondo profit e non profit cambiano e cambieranno, ovviamente, a seconda del settore di attività dell’Ente locale. La diversità strutturale degli interlocutori, profit o non profit, può essere quindi elemento di complessità e di grande opportunità a seconda che sia passivamente accettata o attivamente gestita. L’importante è che l’Ente locale conosca le caratteristiche gestionali delle aziende con le quali interloquisce, delegando loro compiti e responsabilità che gli appartengono.
2. Le nuove Fondazioni per la gestione dei beni e delle attività culturali: una forma di “quasi non profit”
Nel settore della cultura, forse più che in ogni altro, il ricorso a Fondazioni è sembrato nel tempo arricchirsi di significati e aspettative fino a qualche anno fa né dichiarati né immaginati: la costituzione di nuove Fondazioni è sembrato nel tempo assumere una valenza innovativa, riscuotendo un consenso sostanzialmente unanime, anche quando gli obiettivi di efficienza ed efficacia attesi non sembrano ancora oggi essere raggiunti. Il dato, così rilevato, motiva oggi la necessità un’approfondita analisi delle opportunità e degli spazi applicativi di detto istituto con particolare riferimento al settore della conservazione e gestione del patrimonio culturale.

2.1. Dalla tipicità alle tipologie: caratteristiche istituzionali delle Fondazione di “prassi”
Come già accennato, la più recente legislazione italiana fa frequentemente ricorso alla figura della Fondazione. Ne deriva un panorama ricco e complesso che non sempre aiuta a far chiarezza sulle caratteristiche distintive dell’Istituto, ma che, anzi, ha da tempo suggerito un progressivo passaggio “dalla tipicità alle tipologie”. Su queste basi, e nella logica di analizzare gli aspetti rilevanti per il comportamento organizzativo degli istituti indagati, viene presentata una ricognizione completa e, quindi, una metodologia di classificazione delle possibili “tipologie istituzionali” delle fondazioni italiane.
Queste sono le categorie a tal fine individuate:
Fondazioni di diritto civile o tradizionali, ovvero istituti che trovano legittimazione e regole di funzionamento nella disciplina generale del Codice civile;
• nuove Fondazioni individuate dalla prassi, ovvero fondazioni che, pur trovando legittimazione e regole di funzionamento nella disciplina generale del Codice civile, ne hanno interpretato in senso innovativo il contenuto, dando sostanzialmente luogo a fondazioni “atipiche” rispetto al modello classico (e consolidato). Tra queste, due sembrano essere le principali, ovvero la Fondazione di Partecipazione e la Fondazione Comunitaria (Community Foundation);
Fondazioni di diritto speciale, perché il rinvio al Codice civile, quando c’è, è puramente residuale (e vale per quanto non disposto dalla singola legge e in quanto compatibile).

Nello specifico, al modello della Fondazione di Partecipazione sembrerebbero oggi ricorrere sia il Ministero per i Beni e le Attività Culturali (si veda, ad esempio, il caso della Fondazione Museo Egizio o della Fondazione Fondazione Aquileia), sia gli Enti Locali per la valorizzazione del beni culturali di loro competenza.
Nel quadro dei modelli fondazionali, la Fondazione di Partecipazione costituisce un modello giuridico istituzionale innovativo, che assomma le prerogative della Fondazione classica e quelle dell’Associazione, così come definite dal Codice Civile. L’ideatore della Fondazione di Partecipazione, il notaio Enrico Bellezza, chiarisce come, anche mutuando in parte l’esperienza di altri paesi, il percorso seguito e l’obiettivo mirato sia stato quello di creare un nuovo strumento giuridico (de iure condito) per attuare un efficace quadro operativo tra pubblico e privato. Essa, infatti, si caratterizza soprattutto in quanto:
• è costituita da patrimonio di destinazione a struttura aperta;
• l’atto costitutivo è un contratto plurilaterale con comunione di scopo, che può ricevere l’adesione di altre parti oltre quelle originarie;
• la struttura aperta consente la variazione del numero dei contraenti senza rendere necessaria la modifica della struttura del contratto;
• possono fare parte di una Fondazione di Partecipazione Stato, Regioni, enti pubblici e privati, con il diritto di nominare i loro rappresentanti nel Consiglio di Amministrazione, secondo le indicazioni dello statuto redatto nel momento costitutivo;
• l’ingresso di nuove parti è garantito dalla clausola di adesione, o apertura, la quale può implicare il controllo di determinate condizioni di ammissibilità (ovviamente prima determinate nel contratto);
• all’attività della Fondazione possono aderire altri soggetti in qualità di Partecipanti, in quanto contribuiscono in modo determinante alla sopravvivenza dell’Ente mediante il versamento di somme di denaro, prestazioni di lavoro volontario o attraverso la donazione di beni materiali e immateriali;
• attraverso una definita composizione di Organi viene garantita la proporzionalità tra tipologia di contributo e partecipazione all’attività;
• l’assetto patrimoniale della Fondazione di Partecipazione è costituito da un fondo patrimoniale (intangibile e comprensivo del fondo di dotazione), e da un fondo di gestione per l’attività.

Sotto il profilo della struttura di governo, la Fondazione di Partecipazione (come ovvia conseguenza di quanto appena rilevato) mostra sostanziali differenze da una fondazione “classica” di diritto civile, essendo generalmente previste tre distinte categorie di soci: i fondatori, gli aderenti e i sostenitori. I soci fondatori, che possono essere privati, aziende o enti finanziatori, contribuiscono, in modo sostanziale e con i mezzi necessari, agli scopi della fondazione e si riuniscono sia in Consiglio Generale che in Consiglio di Amministrazione. I soci aderenti e i soci fondatori collaborano con somme di denaro, con donazioni di beni o attraverso la prestazione di lavoro volontario. Essi partecipano al Consiglio di Amministrazione e si riuniscono nell’Assemblea di Partecipazione, che fornisce parere consultivo sui bilanci e formula proposte di programmazione.
Come in parte già anticipato, quindi, oltre agli organi tradizionali del modello fondazionale (Consiglio Generale, Consiglio di Amministrazione e Collegio dei Revisori), nella fondazione di partecipazione si rileva la presenza (possibile e non obbligatoria) di ulteriori organi.

2.2. Il nodo del “quasi non profit”
Nell’ultimo decennio si è registrato un particolare favore del legislatore italiano nei confronti di questo “nuovo settore”. Ciò, come si è già osservato, è almeno in parte riconducibile all’urgenza di un recupero di efficienza ed efficacia dell’azione pubblica nella fornitura di servizi al cittadino, strettamente correlata a:
– la ridefinizione dei limiti e degli spazi di azione dello Stato;
– l’esigenza di investire in istituzioni capaci di assicurare una migliore intermediazione di interessi, legittimando l’azione pubblica e, allo stesso tempo, alimentando spazi di controllo sociale e forme di democrazia diretta;
– l’opportunità di avviare processi di trasformazione istituzionale e organizzativa di alcune aziende e delle Pubbliche Amministrazioni operanti in specifici settori.

Ne è derivata una configurazione mista del sistema del Welfare con un assetto di tipo neo-corporativo, nel quale continuano spesso ad apparire sfumate le differenze tra terzo settore, sistema pubblico e sistema del mercato, permettendo così la formazione di istituzioni dalle caratteristiche assolutamente peculiari, a elevata complessità organizzativa, difficilmente individuabili in contesti istituzionali diversi da quello italiano e solo in parte rintracciabili nella letteratura specialistica dedicata all’analisi tanto delle aziende non profit in senso stretto, quanto di quelle pubbliche tout court.
Su queste premesse, e per i fini di analisi che in questa sede ci proponiamo, si dimostra allora rilevante operare un distinguo tra “settore non profit” in senso stretto e “terzo settore”. Termini, questi, fin qui usati come sinonimi, ma che invece sembrerebbero assumere accezioni differenti. Osservando, infatti, le organizzazioni italiane attualmente collocate in questo spazio intermedio tra pubblico e privato, troviamo soggetti economici che si caratterizzano per il fatto di essere (Hinna, 2005):
• formalmente costituiti, e quindi distinguibili da attività di natura individuale;
• soggetti al vincolo di non distribuzione degli utili;
• privati, ovvero istituti di diritto privato che possono anche essere emanazione (diretta o indiretta) di aziende pubbliche (es. Fondazioni per la gestione di beni culturali dello Stato o degli Enti Locali).

Dunque, appare chiaro che le tre caratteristiche così individuate e intese, definiscono un’area più vasta del non profit in senso stretto (Fig. 1), nella misura in cui di quest’ultimo farebbero parte solamente quelle aziende che, seppur formalmente costituite e caratterizzate dal vincolo della non distribuzione degli utili, sono private sulla base sia della natura giuridica assunta, sia per la natura del soggetto che esercita il potere di nomina degli amministratori (Barbetta, 2000, p.131). Una caratteristica, quest’ultima, che non può ovviamente appartenere a quelle organizzazioni che sono diretta emanazione di Enti o Amministrazioni pubbliche.

Figura 1 – Il Terzo settore in Italia

Quanto appena accennato, assume significato nell’analisi che si va quindi svolgendo, non tanto per un interesse di natura classificatoria, quanto per la rilevanza che esso può assumere dal punto di vista dell’analisi economica e gestionale.
In Italia, l’identificazione di un’area distinta dal non profit in senso stretto, evidenzia infatti l’esigenza di nuove forme di regolazione dei rapporti con il settore della Pubblica Amministrazione, rapporti distinti, almeno in parte, da quelli riferibili alle organizzazioni non profit in senso stretto. A tal proposito, appare evidente come la regolazione pubblica di queste organizzazioni andrà sviluppata (in parte ciò sta già avvenendo) attraverso strumenti diversificati, fuori da uno schema di “modello ottimale”, ma fortemente orientati a dotare i singoli istituti della massima flessibilità organizzativa e gestionale, coerentemente alla dinamicità e complessità dei compiti loro attribuiti.
In particolare, la configurazione specifica del soggetto economico delle Fondazioni miste pubblico-privato, annulla la possibilità di un certo automatismo circa le condizioni di efficienza e efficacia dei servizi da queste forniti come, invece, la teoria economica sembrano poter in altri casi giustificare, sia con riferimento ad ipotesi di “fallimento dello Stato” ((Barbetta, 1993; Cavenago, 1998; Archibugi, 2002) sia ad ipotesi di fallimento del Mercato (Hansmann (1986; 1987; Easley e O’Hara 1983, 1986; Krashinsky 1986; Williamson, 1975, 1979). Detti modelli, infatti, propongono schemi di analisi e percorsi di indagine utili a spiegare i “vantaggi comparati” del ricorso alle aziende non profit in situazione di scambio tra settore “non profit in senso stretto” e Pubblica Amministrazione, in quanto parti distinte nella organizzazione del servizio pubblico. Ciò, ad esempio, è quanto generalmente accade nel campo dell’assistenza sociale o della sanità dove, appunto, permane lo schema classico in base al quale le funzioni di finanziamento restano a carico dell’operatore pubblico, mentre quelle di produzione spettano all’organizzazione non profit. Situazioni, cioè, dove l’azienda di terzo settore cede, a determinate condizioni, beni e servizi che vengono acquisiti dall’Ente pubblico, dando vita a una relazione di scambio definita e (potenzialmente) efficiente.
Qualora invece, come spesso accade nel caso nuove Fondazioni per la gestione dei beni e delle attività culturali,  si configurino situazioni di esternalizzazione strutturale – ovvero di co-partecipazione del pubblico e del privato alla medesima Istituzione (Cammelli, 2000) – cambiano le premesse sulle quali deve essere esaminato il tessuto di relazioni tra i due settori (pubblico e non profit) e, quindi, le condizioni di efficienza e efficacia organizzativa delle istituzioni di terzo settore, siano esse partecipate o neo costituite.
In altri termini, gli assunti classici di opportunità (e vantaggio relativo) del ricorso alla azienda non profit (Fondazione, Associazione, ecc.), nella gestione ed erogazione di servizi pubblici, devono essere necessariamente verificate in maniera puntuale, analizzando variabili come la composizione e il ruolo del soggetto economico, le modalità di acquisizione delle risorse, la composizione del capitale umano.

3. La complessità istituzionale ed organizzativa delle nuove Fondazione per la gestione dei beni e delle attività culturali
Nel settore della conservazione e gestione del patrimonio culturale si sta comprensibilmente facendo strada il timore di una “moda fondazionale”, che affida alla scelta della forma giuridica istituzionale la possibilità di innovare la gestione dei beni e delle attività culturali, non curante della necessità di intervenire su aspetti inerenti alle variabili interne al sistema organizzativo aziendale dei singoli istituti.
Da tenere nella dovuta considerazione, invece, dovrebbero essere i riflessi sulla natura dei compiti e sul livello dei risultati richiesti al sistema organizzativo di cui le “nuove Fondazioni” dovranno dotarsi, influendo alternativamente o contemporaneamente sia le caratteristiche delle persone che dovranno operare al loro interno (variabili individuali); sia l’insieme delle relazioni interpersonali che si manifestano nell’ambito del sistema organizzativo (variabili sociali); sia le modalità operative di svolgimento delle attività (variabili tecniche); sia le finalità istituzionali e la corrispondente struttura del soggetto economico dell’azienda-fondazione (variabili istituzionali).
A titolo esplicativo, vale forse ricordare come ad esempio le Fondazioni museali di tipo pubblico-privato a cui spesso sia il Ministero per i Beni e le Attività Culturali (MiBAC) sia gli Enti locali dichiarano di voler ricorrere, mostrano caratteristiche economiche e complessità istituzionali profondamente diverse dalle omonime Fondazioni d’oltre oceano, alle quali vengono troppo spesso assimilate. Queste ultime, infatti, sono Fondazioni tradizionali di diritto privato e, quindi, (a) Istituzioni private, (b) che gestiscono musei quasi sempre privati, (c) la cui fonte principale di entrata è data dai proventi da investimento del patrimonio finanziario di dotazione e (d) dal mercato delle donazioni private.
Le nuove Fondazioni museali italiane, invece, saranno (a) istituti misti publico-privati, (b) che gestiscono musei pubblici, (c) non dotate di un patrimonio finanziario di partenza, (d) né di un mercato consolidato di donazioni.
Sono differenze queste forse scontate, ma che pongono interrogativi assolutamente originali circa le loro reali condizioni di consolidamento e sviluppo, e che spesso non sembrano tenute nella dovuta considerazione da alcuni fautori del “modello americano” (Settis, 2002).
In particolare, partendo, dalle proposizioni appena citate, è possibile giungere a una valutazione generale della complessità organizzativa delle nuove Fondazione culturali italiane, in funzione delle variabili tipiche di classificazione di un istituto di fondazione (Hinna, 2004).  Appare infatti evidente come (Fig. 2):
1. sotto il profilo istituzionale, le regolamentazioni di settore e la conseguente dinamica/trasformazione delle combinazioni soggetti/contributi/ricompense incide sia sulla dimensione quantitativa dei compiti da esse svolte, sia sulla pressione sui risultati che, data la natura e l’eterogeneità degli interessi (politici ed economici) messi in campo, non può che vedersi incrementata.
2. sotto il profilo delle fonti di finanziamento, la necessità di dedicarsi al reperimento di risorse o all’implementazione di attività di tipo economico, implica un aumento del numero degli elementi da considerare nell’assunzione delle decisioni: le Fondazioni donative hanno raramente la possibilità di prevedere e standardizzare i flussi finanziari in entrata, elemento centrale per la determinazione degli obiettivi perseguibili; i processi decisionali sono spesso caratterizzati da un’incessante negoziazione tra obiettivi istituzionali perseguiti e bisogni percepiti e (quindi) vincenti sotto il profilo del funding; alla gestione della raccolta fondi, inoltre, sono necessariamente dedicate risorse e competenze specifiche con importanti conseguenze sul livello di specializzazione e divisione del lavoro;
3. dal punto di vista delle tecniche, infine, il fatto di essere Fondazioni generalmente operative, implica (a differenza di quanto accade per le granting foundation) la gestione diretta delle attività istituzionali, producendo direttamente beni e servizi di utilità collettiva – anche attraverso la realizzazione interna di interi processi di produzione di beni e servizi – con importanti ripercussioni sia sul profilo d’incertezza dei compiti, sia sulla dimensione quantitativa degli stessi.

Figura 2 –  Le dimensioni di complessità organizzativa: vecchie e nuove fondazioni a confronto


4. Il percorso ancora da compiere: considerazioni di sintesi
Dalle considerazioni finora esposte, appare evidente come il settore non profit, e con esso il mondo delle Fondazioni italiane, si presenti non solo in rapida espansione, ma soprattutto in rapida trasformazione.
Passata la “stagione delle norme”, però, si è ancora alle prese con il “bilancio” dei fatti. Si spiega così il timore di una “moda fondazionale”, che affida alla scelta della forma giuridica istituzionale la possibilità di innovare la gestione dei beni e delle attività culturali, non curante della necessità di intervenire su aspetti inerenti alle variabili interne al sistema organizzativo aziendale dei singoli istituti.
La sfida non è però di poco conto. Il dato empirico tende infatti a dimostrare come le Fondazioni italiane, vecchie e nuove, dimostrino ancora oggi una generalizzata difficoltà di “visioning”, ovvero di elaborazione di un progetto fortemente impegnativo, dal quale partire per costruire una propria strategia d’azione e in grado, quindi, di permettere la valutazione dei risultati raggiunti. Se per un verso è questo uno degli aspetti più noti e dibattuti nella storia delle Fondazioni – proprio per la loro essenza di Istituzioni poco sensibili alla revisione periodica dei propri obiettivi e alla valutazione della propria attività – v’è attualmente anche l’urgenza di uscire da una logica così marcatamente autoreferenziale. Oggi, infatti, le Fondazioni sono molto più numerose di prima, e vengono chiamate a uscire da logiche d’azione particolaristica per proporsi come soggetti capaci di mobilizzare e valorizzare tutte le energie della società, creando forme di cooperazione tanto con aziende non profit, quanto con imprese profit e amministrazioni pubbliche.
L’azienda Fondazione è quindi chiamata ad avviare un dialogo permanente con i propri stakeholders, e a basare su questo i propri sistemi di management, dando l’avvio a importanti innovazioni di processo o di prodotto, che siano supportate da un patrimonio cognitivo profondamente diverso da quello degli assetti organizzativi precedenti e che siano in grado, per questo, di compiere un vero e proprio salto di qualità nel governo e nella gestione dei beni e servizi gestiti.
Ciò è ancora più vero se, nel vettore di obiettivi cui l’azienda è finalizzata, si annovera un progetto di coinvolgimento dei privati come co-finanziatori del “patrimonio dedicato allo scopo”. In questo caso, che peraltro rappresenta sostanzialmente la caratteristica comune delle Fondazioni “atipiche” suggerite dal legislatore, la Fondazione dovrà dotarsi di modelli d’azione essenzialmente fondati su progettualità, qualità, spirito imprenditoriale e capacità di promuovere e gestire partnership per la costruzione di reti istituzionali solide, favorendo la creazione di forme di alleanza tra soggetti che prima ancora di essere donatori (supporters) della Fondazione, rappresentino per questa dei veri e propri partner strategici.
Al momento, però, diversi sono i fattori di natura professionale, organizzativa e culturale, che paiono oggi ostacolare il legame automatico di consequenzialità tra innovazione normativa e innovazione organizzativa, evidenziando come la prima sia condizione certo necessaria al cambiamento, ma tuttavia non sufficiente per un passaggio da una trasformazione  puramente formale ad una trasformazione sostanziale. Per questo, occorre spostare l’enfasi del dibattito sulla riqualificazione dell’offerta culturale dalla scelta del modello giuridico alla definizione del progetto istituzionale e, quindi, ai problemi di acquisizione e riconfigurazione delle competenze individuali e organizzative capaci di sostenere e alimentare il cambiamento atteso.

Il rischio, altrimenti, è quello di “un azzurro” che non c’è  e, soprattutto, non potrà esserci!

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