Senza riforma della pubblica amministrazione anche la partecipazione naufraga

Cresce la percezione dei limiti nell’uso delle risorse esauribili e la voglia di capire dove e come si prendono le decisioni che riguardano il nostro futuro. Un bisogno che spesso s’infrange nella giungla della pubblica amministrazione italiana. Non sempre, infatti, è agevole capire dove e come si decidono le trasformazioni delle città, del territorio e dell’ambiente in cui viviamo.

Cresce la percezione dei limiti nell’uso delle risorse esauribili e la voglia di capire dove e come si prendono le decisioni che riguardano il nostro futuro. Un bisogno che spesso s’infrange nella giungla della pubblica amministrazione italiana. Non sempre, infatti, è agevole capire dove e come si decidono le trasformazioni delle città, del territorio e dell’ambiente  in cui viviamo.
Per decenni il governo del territorio è stato identificato con i piani regolatori comunali la cui approvazione, prima dell’istituzione delle Regioni, competeva al Ministero dei Lavori Pubblici. Dopo il 1972 sono le Regioni a disciplinare l’urbanistica con una legislazione molto variegata il cui connotato prevalente è la frammentazione dei piani e delle procedure. Il rapporto bilaterale Comuni-Ministero è stato sostituito dal rapporto trilaterale Regioni-Province-Comuni. Mentre le Regioni hanno sostituito il Ministero, le Province si sono semplicemente aggiunte con funzioni di cui, con tutta franchezza, proprio non si avvertiva il bisogno.
Beni culturali e paesaggio sono materie storicamente attribuite agli organi centrali dello Stato dalle leggi di tutela del 1939. Con la legge Galasso del 1985 alle Regioni venne attribuito il compito di redigere piani per la tutela del paesaggio, pur restando in capo al Ministero per i Beni Culturali un potere di surroga quasi mai esercitato; così come poco e male è stato esercitato il potere delle Regione di dotarsi di efficaci piani paesaggistici. Chi lo ha fatto, come la Giunta Soru in Sardegna, non sembra essere stato apprezzato dagli elettori, ma soprattutto dai cospicui interessi immobiliari che quel piano teneva lontani dalle coste dell’isola.
La nascita del Ministero dell’Ambiente, nel 1986, ha scorporato materie strettamente connesse all’uso del territorio dando vita ad una disciplina ambientale autonoma su beni essenziali come l’aria, l’acqua, il suolo, la biodiversità. Anche per queste materie le competenze sono articolate tra Ministero, Regioni, Province e Comuni con complesse procedure di valutazione, autorizzazione e controllo.
Parchi, riserve naturali e aree protette, disciplinati dalla legge quadro n. 394 del 1991, sono segmenti autonomi di governo del territorio i cui poteri sono attribuiti, in base al soggetto che li ha istituiti, ad enti di emanazione del Ministero dell’Ambiente, delle Regioni o delle Province.  Si tratta di territori con propri Statuti, piani e organi di amministrazione che vanno a sovrapporsi agli altri enti territoriali, in particolare ai Comuni.
Cresce inoltre la legislazione settoriale, generalmente sollecitata da lobby, per favorire interessi diffusi sul territorio nazionale, come nel caso dei grandi impianti per le energie rinnovabili, la cui realizzazione è consentita con il ricorso a procedure di valutazione ambientale che ignorano i piani urbanistici dei Comuni. Una normativa pericolosissima che, partendo dal giusto obiettivo di ridurre  le emissioni di gas in atmosfera, rischia di massacrare il territorio rurale e il paesaggio italiano, molto spesso con la complicità o la subalternità delle amministrazioni locali.
Infine il federalismo. Argomento non ancora delineato nella sua reale portata amministrativa, ma dal quale è realistico attendersi una ulteriore frammentazione di competenze, norme e modalità di utilizzo dei beni comuni, a partire dal demanio dello Stato ora attribuito alle Regioni e agli enti locali con autonomi poteri, compresa la facoltà di alienarlo a privati.
Quello che emerge è uno scenario complesso nel quale urbanistica, paesaggio, beni culturali e ambiente si intersecano in un dedalo di soggetti istituzionali e di leggi dove è sempre più difficile orientarsi, capire le diverse responsabilità e i processi autorizzativi.
In questo scenario sono sicuramente apprezzabili gli sforzi di coloro che si pongono il problema di facilitare la partecipazione dei cittadini. Bene hanno fatto le Regioni che si sono dotate di leggi speciali per la partecipazione. Sono sicuramente da estendere esperienze come quella dei laboratori per l’urbanistica partecipata a Potenza, descritta in questo numero di Tafter Journal da Piergiuseppe Pontrandolfi, Viviana Lanza, Lucia Tilio.
Occorre, però, avere piena consapevolezza del profondo degrado in cui versa la pubblica amministrazione. Un connotato che, associato alla perdita di credibilità e di autorevolezza dei decisori politici, delinea un quadro di crescente separazione tra istituzioni e cittadini.
Senza una profonda riforma della pubblica amministrazione e il ripristino di solidi rapporti fiduciari tra eletti ed elettori, è dunque molto probabile che sul governo del territorio la partecipazione si manifesti ancora ex post con la nascita di comitati spontanei, come diffusamente accaduto in questi ultimi anni.
Una forma sicuramente patologica di partecipazione di cui, comunque, i comitati sono l’effetto e non certo la  causa.