Shanghai. From an autumnal Bologna to my friend G.

Francamente, era da quando sono nata che volevo vedere questa città, e, come tutte le cose che si riescono a realizzare e che si sono a lungo sognate nella propria vita, quando si è lì, almeno io, ci si ritrova completamente rintronati, avulsi, lontani.

Sta terminando ottobre, e piove, sopra il velux del mio tetto in legno, mentre da qui, da Bologna, cerco di ricordare le sensazioni provate poche settimane fa, nella mia ultima tappa a Shanghai.
 

Si dovrebbe avere l’audacia di non perdere l’attimo – che fugge – quando arriva, e scrivere immediatamente sotto l’istinto, invece che cedere al richiamo della vita oggettiva e rimandare ad un poi, un dopo, quando ci sarà più concentrazione, falso, più tempo, falso. E l’unica cosa di vera sarà che l’attimo per scrivere, rivivere, segnare, è passato.

 

 

Mi verso il caffè, il cui aroma corona il ticchettio della pioggia sui vetri. È già autunno, fuori, si sente dall’odore, deve aver già nevicato sulle montagne; mentre la mia mente rivà in quei gialli e verdi caldi del parco, quei blu al neon delle luci del locale, quel locale di Shanghai dove io e G. ci siamo riviste, dopo due anni, questo agosto.

 

Temevo di non riconoscerla, dopo due anni. Mantenevo a mente i suoi tratti somatici salienti: pelle chiarissima, capelli neri lucenti e lunghi, molto lunghi, bracciale tradizionale di giada, occhi a mandorla. Le ho fatto una sorpresa, non sapeva del mio arrivo a Shanghai.

 

D’altronde non lo sapevo nemmeno io. Così, il secondo giorno le ho scritto una mail. E lei ha risposto immediatamente.

 

Chissà, G., che effetto ti deve aver fatto, scoprire che ero li, nella tua città!

 

Ci siamo viste la sera al Barbarossa, un locale che G ha scelto per noi, un luogo di classe nascosto a Nanjing Road e frequentato dalla gioventù rampante della Shanghai capitalista. E dai colleghi occidentali in odore di “scambio culturale profondo e sentito” con le bellezze del luogo. Un locale vagamente lascivo se, penso, di stile turco o marocchino, offriva in quel della Cina  narghilè e cuscini, soprattutto, sotto un cielo viola trafitto dai grattacieli cyberpunk. Ma queste contraddizioni, come le amiamo stancamente definire noi occidentali, appartengono solo a noi appunto, al nostro modo di interpretare la commistione storica e la sovrastratificazione di epoche politiche e sociali a cui siamo stati abituati a guardare geologicamente e ordinatamente, e non devono riscuotere molta curiosità in loro. I giovani cinesi della futura classe dirigente.

 

Francamente, era da quando sono nata che volevo vedere questa città, e, come tutte le cose che si riescono a realizzare e che si sono a lungo sognate nella propria vita, quando si è lì, almeno io, ci si ritrova completamente rintronati, avulsi, lontani. Almeno io mi sentivo come il protagonista di Trainspotting in overdose dentro il tappeto rosso della “mamma”.  Abbiamo bevuto Tequila Sunrise e fumato il narghilè, ci siamo salutate calorosamente mentre i nostri compagni si scoprivano, con piacere, appartenere entrambi al pur stretto ancora gruppo degli scrittori; un Quartetto Cetra di pseudointellettuali sino-italiani, insomma, che ha cominciato a scambiarsi pareri politici, economici e sociali sul fenomeno mastodontico della Cina, sulle opportunità inesistenti di lavoro in Italia, sulla necessaria collaborazione dei nostri due paesi. Intanto le ragazze ballavano tutte lì intorno in questa terrazza marocchina immersa nel verde bosco del parco di People’s Square a Shanghai.

 

E io pensavo che la vita è davvero incredibile, paralizzata come ero nella fotografia di quegli istanti di una bellezza commovente.

 

Ti è mai capitato, G, di renderti conto che lì dove sei in un dato momento è esattamente dove pensi di dover essere? Il tuo posto…. Che il tuo posto  è esattamente quello che occupi? Soprattutto, che in qualche modo, con tutte le colpe che ogni essere umano si porta dietro, che comunque quel posto è in parte regalato, ma anche in parte conquistato? E non parlavo di lavoro, no.

 

Finalmente vedo Shanghai. Veniamo da lontano, veniamo dallo Shanxi, da Datong, perché abbiamo scoperto di non poter attraversare il confine con la Mongolia semplicemente salendo sulla transmongolica da lì, da Datong, ma che avremmo dovuto tornare a Pechino e prenotare come tutti i turisti, lungo un canale dedicato. Non ci si muove liberamente, no. Veniamo da lontano, veniamo da Bologna, veniamo dal medioevo. Arriviamo alle ventidue in albergo, il TianTian. Il tassista del mattino, di Datong, ci ha portati all’autostazione sbagliata, per cui abbiamo perduto la corsa per Pechino e ci siamo dovuti adattare a partire da altrove. È sempre altrove.
 

Veniamo dalla pioggia, dalla polvere e dall’inquinamento. Guardo in alto e vedo l’enorme bar a forma di Saturno che sovrasta People’s Square dal Samsung Building, da dove abbiamo goduto il tramonto poche ore fa. Siamo una civiltà che corre sulle immagini perché in qualche modo è più semplice vedere, che immaginare. Più semplice per me ricordare, che scrivere trovando le giuste coordinazioni carpiate di parole quanto lussuriosamente bella e futuristica è questa sfera sospesa nel cielo.

 

 

Guardo la mia amica, mentre so che una volta partita dalla Cina non ci sentiremo più a lungo. In Cina FB non è attivo, e Youtube è oscurato. Potremo scriverci via mail, è vero, ma non lo faremo.
Sono una persona pigra, pigra abbastanza da scrivere invece di prepararmi un tè cinese, di quelli comprati a Pechino prima della partenza, quelli buonissimi, mentre fuori, primo giorno d’autunno dall’ora legale, piove ancora e fa buio.

 

Lo sceneggiatore amico di G mi ha regalato un cellulare che non ho mai usato e sta, dimenticato, nel cassetto della scrivania con tutti gli ammennicoli tecnologici. Avevo promesso di avvisare quando avessi lasciato la Cina. Non l’ho fatto. La pigrizia è tutto sommato una forma di protezione.

 

Non ho fatto neppure questo, scusami G, spero che potrai scusarmi. Chissà quando ci rivedremo. Qui le cose non sono cambiate, c’è sempre meno lavoro. Hai fatto bene a tornare a casa dalla tua famiglia. Mi spiegavi che era una delle poche ad aver preferito ( e potuto permettersi di ) pagare la multa governativa e avere il secondo figlio, tuo fratello. Mi ricordo che, quando vedevi a Bologna le manifestazioni, ti preoccupavi da morire perché non ne avevi mai viste prima, dicevi “Perché lo fanno? Non sanno che è pericoloso?”. Nemmeno a Shanghai infatti, si protesta. Al massimo ci si rifiuta di passare il proprio bagaglio attraverso gli innumerevoli metal detector della metro.

 

Hai detto : “Sono molto fortunata, perché sono nata qui e ho potuto studiare all’estero. Molti cinesi non lo possono fare”.  Sei una ragazza lontana da quell’immagine della Cina trash capitalista che ha fagocitato le tue coetanee – si può dire? Quella di cui mi ero fatta una emozionata idea leggendo Mian Mian e la ‘gemella’ in Shanghai Baby e che ho visto incarnata in tutte le belle e giovani ragazze cinesi che girano nelle hall degli alberghi, tutta la settimana, senza sosta.  Abbiamo parlato a lungo delle politiche di smaltimento di interi quartieri storici, e il tuo amico non sembrava affatto d’accordo o prono alle attività governative. Ma non si può scegliere, e magari, fa anche cool dimostrarsi contrari al governo di fronte a due italiani, no?

 

La verità è che non siamo diversi. Anche lui adora la roba giapponese come faccio io, lui ha il washlet in casa, il tatami e il tavolino a scomparsa nel pavimento, grazie ad una manovella. Ha il proiettore e lo schermo che scende dal soffitto, anche lui ritiene come  S.  che Johnnie To sia uno straordinario regista. Beviamo dell’ottimo vino mentre guardiamo Red di R. Schwentke, mentre tu, G., ti sei messa in pigiama.

 

Siamo arrivati a casa vostra percorrendo uno dei miei sogni, la grande soprelevata che avvolge la tua splendida città, dal The Bund a qui, primissimo quartiere residenziale. La soprelevata che deve aver ispirato almeno una secchiata di scrittori cyberpunk e che qui sta. Abbiamo viaggiato nella sua macchina dai sedili rivestiti di pelouche, abbiamo riso alla scena riemersa nell’immaginario collettivizzato da ore di conversazione di “A Spasso con la rock star” in cui Aldous si fa passare il badtrip strusciandosi sulla pelliccia sintetica con cui ha rivestito le pareti della stanza. Le macchine filavano dietro di noi, la soprelevata era grigia  e le luci arancio mentre sembrava di volare nel buio della Cina, nel buio di shanghai dove da qualche parte, mi dicevo, in una dimensione parallela, nell’immaginario forse di Zhou Weihui, ci doveva essere il Lotti’s Bar in cui Coco, scrittrice soft porno alle prime pubblicazioni, si mantiene facendo la cameriera.  

 

Appena rientrata, ho avuto la fortuna di assistere al Mambo alla proiezione del documentario sulla vita di Ai Weiwei, “Never Sorry” e qualcosa dentro si è riscaldato. Ai Weiwei grida al mondo le stesse sensazioni di rabbia che ho provato io in Cina, rabbia verso lo smarrimento sistematico delle radici culturali, verso le ingiustizie perpetrate dal grigio regime. E Ai Weiwei è divenuto per me un modello, incarnando, pur con il suo fare dirompente e moderno, quasi pedissequamente l’immaginario del letterato, intellettuale e pittore cinese, che si è sempre opposto strenuamente alle ingiustizie del potere attraverso la propria opera creativa e che ha fatto grande la vostra storia dell’arte, la vostra storia.