Quali sono i sistemi generatori e organizzatori di cultura: questa è la domanda alla base dei due contributi, l’uno di Valeria Dell’Aquila, l’altro di Fabiana Lanfranconi, che suscitano riflessioni e spunti diversi ma interessanti.
Il primo dei due contributi assume una prospettiva spesso trascurata, analizzando la spinta propulsiva “dal basso” o, se si preferisce, spontanea, in termini di iniziative ed eventi culturali. Il pretesto per approfondire il tema è la città di Torino e le sue politiche culturali degli ultimi anni che ne hanno cambiato pelle, favorendone la trasformazione da città industriale a luogo delle culture; la prospettiva risulta particolarmente interessante perché richiama l’attenzione sui fenomeni promossi non dalle istituzioni, ma da gruppi di cittadini, artisti, attivisti che reinventano i modi di fare cultura e cercano di disegnare percorsi non convenzionali, non effimeri, non esclusivamente basati sul finanziamento pubblico. Si tratta di un fenomeno comune ad altre grandi e piccole città del Paese che ha spesso, fra gli altri meriti, da un lato, quello di dare luce e visibilità a settori artistici che si muovono a cavallo fra il dilettantismo assoluto e il professionismo integrale, funzionando quindi da motore per la crescita di nuove identità culturali e artistiche; dall’altro, quello di agire in stretta relazione con il territorio e con la comunità locale, intervenendo spesso sulla rivitalizzazione di aree urbane marginali o degradate. È difficile prevedere come questo genere di eventi culturali non istituzionali possa nel breve periodo evolvere, ma certamente è facile immaginare che ci si trova oggi di fronte ad un tentativo naturale di riempire gli spazi vuoti lasciati, in un momento di grave crisi economico-finanziaria, dalle pubbliche amministrazioni, tradizionalmente promotrici o sovvenzionatrici di cultura.
Il secondo dei due contributi, quello di Fabiana Lanfranconi, ha in comune con il primo il problema della governance culturale, sebbene con una prospettiva in questo caso pienamente istituzionale, inserendosi in un dibattito, oramai ricco e articolato, sul modello delle fondazioni di partecipazione come possibile sintesi tra settore pubblico e privato nel campo della gestione museale. Attraverso un confronto con la via francese all’integrazione pubblico-privato nel settore culturale, emerge, per il caso italiano, un quadro fatto di luci ed ombre, che mette correttamente in evidenza come il “disegno normativo delle fondazioni di partecipazione, così come ipotizzato agli inizi […] sembra essere stato tradito”. Perché svolgano bene il compito per cui vengono costituite, occorre che lo statuto che regolerà la vita delle fondazioni di partecipazione non sia standardizzato, non sia “copiato” da altri, come spesso è avvenuto. Lo strumento merita che si confezioni un abito statutario “su misura”, adattato alla varietà dei soggetti che partecipano ed ai rispettivi ruoli. Inoltre, bisogna che si costruiscano delle “vere” fondazioni di partecipazione; non si deve fingere di offrire una partecipazione che è in realtà solo lo schermo alla creazione dell’ennesimo ente inutile.