The notion of accountability and its usage in the cultural sector

All human, personal, economic and political relations are based on the notion of trust. Nevertheless, which are the subjects actually reliable or, in other words, truly accountable? It is necessary to make such a concept measurable, particularly in the economic sector because of the investment or acquisition choices related to that field of activity. The introduction of an evaluation process results to be even more difficult in the Italian cultural realm, where unselected public funds and culture budget cuts increase the uncertainty of the present.

Introduzione: fiducia in tutte le faccende umane
Il succedersi dei governi nel nostro Paese è accompagnato dal rinnovarsi di nuove “operazioni trasparenza” declinate in modi variegati e più o meno intellegibili ma sempre mirate ad andare a recuperare almeno parte della legittimazione popolare persa dalla “cosa pubblica” e dai suoi gestori.

 

Tale tendenza a insistere sul tasto del dialogo con i cittadini – nel caso specifico, con gli elettori – è l’ennesima conferma della diffusa consapevolezza della necessità di rinnovare (forse ricostruire, per alcuni re-inventare) il rapporto di fiducia.

 

La fiducia non è un concetto astratto ma la premessa ineludibile dell’atto di affidarsi, fare conto su qualcuno o qualcosa; è un’esigenza che si può manifestare a livello privato nei rapporti interpersonali ma è uno step fondamentale anche a livello politico, religioso e negli scambi economici.

 

È storicamente risaputo come i lunghi periodi di pace siano la base necessaria per il fiorire e prosperare dei commerci offrendo quell’intelaiatura di certezze necessaria agli scambi, ai trasporti e all’approntamento di strategie di produzione e vendita che superino il breve periodo. È acclarato come, contratti “blindati” a parte, chiunque cerchi partner o soci su cui fare affidamento tanto nel senso dell’onestà che della solidità patrimoniale piuttosto che della abilità professionale.

 

Il rapporto tra venditori di prodotti o erogatori di servizi e acquirenti/fruitori sta sempre più introiettando questo paradigma grazie anche al miglioramento progressivo della qualità della vita e quindi, parallelamente, della possibilità di scelta e del potere di richiesta da parte dei singoli rispetto a imprese e operatori di mercato. Tale sviluppo si lega a doppio filo al processo di ampliamento del mercato e allo sviluppo di un’ampia concorrenza orizzontale: l’oggetto della contesa non può essere più il prezzo (con margini sovente già molto assottigliati) e spesso non c’è molta possibilità di manovra sulle specifiche tecniche (perché già ottimali o semplicemente precipue del prodotto) e quindi le imprese spostano la propria attenzione sull’idea sottesa al prodotto, su quale immagine di sé veicolare, far partecipare o vendere agli utenti/acquirenti.

 

Si vede così come la fiducia, la trasparenza, l’essere affidabili possano essere un’esigenza umana, un laccio politico, un tassello religioso, una condizione necessaria all’economia fino a uno strumento di marketing.

 

Dal primo bilancio sociale agli indignados: lo scenario internazionale
Il termine che a livello internazionale sintetizza quanto detto è “accountability” ed è oggetto da tempo di studi, approfondimenti, discussioni, elaborazioni normative, buone pratiche e strumentalizzazioni.

 

Uno degli strumenti di accountability più diffuso e generalmente consolidato è il bilancio sociale; questo è nato per evidenziare l’impatto sociale che produce una determinata organizzazione (pubblica o privata che sia) sulla collettività di riferimento o su particolari gruppi interessati dalla sua azione.

 

Nel corso degli anni sono stati elaborati a livello internazionale diversi standard cui un bilancio sociale potrebbe e dovrebbe aderire e in base ai quali può essere valutato, alcuni di contenuto (come il GRI – Global Reporting Inititiave, di matrice statunitense), altri di processo (come l’AA1000 inglese o il Copenaghen Charter danese) o misti (come il Gbs italiano o l’ISA2000 statunitense).

 

La “pratica” del bilancio sociale si è diffusa nei Paesi Bassi già negli anni ’60, mentre nel ’77 è diventata di legge in Francia. Prendendo le mosse da tali esempi, la rendicontazione “ambientale” si è poi affermata anche in diversi paesi del Centro e del Nord Europa, quali la Germania e la Danimarca.

 

L’intervento in materia da parte di organismi internazionali è da segnalare per la fine degli anni settanta a firma OECD con le “Linee Guida per le imprese Multinazionali”.

 

È negli anni ’90, però, che si registra una maggiore attenzione al tema della rendicontazione sociale da parte di aziende e governi, e infatti il GRI – Global Reportin Initiative  – nasce nel 1997 su iniziativa dell’UNEP – United Nations’ Environmental Programme – e della CERES – Coalition for Environmentally Responsible Economies.

 

Animata da finalità simili, risale al 2000 l’iniziativa United Nations Global Compact, promossa dalle Nazioni Unite per incoraggiare il mondo dell’economia ad adottare politiche di sostenibilità e responsabilità sociale e a renderne nota l’implementazione .

 

Nel nuovo millennio tranne aggiornamenti e piccoli strappi non si registrano passi avanti decisivi a livello internazionale sul fronte dell’accountability, mentre proliferano movimenti sintomatici di disagio e protesta (oltre che ovviamente frutto di crisi economiche e chiari black-out della politica) che portano a emersione proprio l’assenza di legittimazione, fiducia e trasparenza, da Occupy Wall Street agli Indignados.

 

Un chiaro resoconto del diffuso clima di sfiducia è fornito dall’Edelman Trust Barometer che registra nella decade 2000-2010 un progressivo calo di fiducia nei confronti di economia e governi da parte degli stakeholder. Non a caso, dunque, è aumentato in questi ultimi anni il numero delle organizzazioni che valutano e comunicano le loro performance economiche, sociali e ambientali ed emerge la tendenza a “integrare” tali informazioni nel bilancio finanziario annuale .

 

Normativa europea e normativa italiana
Nonostante l’interesse per il tema e la consapevolezza forte dell’urgenza sociale di svilupparlo, la regolamentazione europea in materia si è caratterizzata finora per l’essere per lo più volontaria e per la frammentarietà degli interventi che hanno riguardato settori specifici, con attenzione soprattutto agli aspetti ambientali.

 

Diversi paesi come il Regno Unito, la Danimarca, la Francia e la Svezia, sono intervenuti nel regolamentare la materia in modo più stringente rispetto ai parametri previsti dall’Unione europea.

 

La proposta di legge avanzata, in ambito europeo, nell’aprile 2013 di stabilire un obbligo per le grandi società con più di 500 dipendenti di pubblicare informazioni rilevanti e concrete in materia ambientale e sociale nelle relazioni annuali, pur segnalando dei passi avanti reitera la pericolosa elasticità nel delegare la scelta di quali indicatori utilizzare per assolvere all’obbligo dato, ponendo nuovamente il problema esistente di diversi “alfabeti” dell’accountability.

 

Curioso da rilevare ma facilmente comprensibile e sintomatico delle possibili strumentalizzazioni è come l’accountability sia legata al “green” a doppio filo: da un lato molti degli indicatori si sono sviluppati prima nell’ambito ambientale  per poi essere declinati e utilizzati in altri settori merceologici, ma anche lo “sfruttamento” per altri fini delle buone pratiche di accountability ha un termine connesso all’ambiente: greenwashing (letteralmente lavaggio verde) identifica, infatti, strategie sostenibili solo sulla carta, e che non hanno come obiettivo la reale adozione dei principi della CSR ma logiche meramente comunicative e di marketing, quali possono essere strategie di comunicazione che puntano a costituire un’immagine sostenibile di un marchio o di un’impresa a seguito di eventi che hanno danneggiato la brand reputation in direzione opposta.

 

In Italia, dopo aver passato buona parte degli anni ’90 inseguendo le varie Bassanini, si è continuato a operare soprattutto sul concetto di trasparenza fino a, per esempio, il Decreto Legislativo n. 150/2009  che prevede l’introduzione di un sistema di monitoraggio e di valutazione, cosiddetto “ciclo di valutazione delle performance” della pubblica amministrazione (artt. 4-10) e impone alle pubbliche amministrazioni obblighi specifici in materia di trasparenza e rendicontazione delle performance (art. 11). Molteplici poi le previsioni in materia di abbattimento dei costi, trasparenza e semplificazione dell’azione amministrativa contemplate dai Decreti Salva Italia e Semplifica Italia , poi convertiti in legge.

 

Finanziamenti pubblici e comparto culturale italiano: riflessioni
Per quanto riguarda l’apparato pubblico si sta quindi procedendo verso una maggiore trasparenza, quella che però sembra essere assente, almeno per ora, è una attenta e costante valutazione dei progetti, delle iniziative e delle attività delle organizzazione finanziate con i fondi pubblici.

 

Questa affermazione, valida per tutti i settori di competenza statale, lo è tanto più in materia di cultura, laddove i finanziamenti a pioggia concessi dallo Stato senza prevedere fino a poco tempo fa una valutazione delle spese e delle attività intraprese hanno di fatto disincentivato gli attori della cultura nell’attivarsi per raggiungere obiettivi di sostenibilità economica.

 

Il concetto di accountability e la necessità della sua introduzione sono ancora più stringenti nel comparto culturale italiano, fatto evidente anche da una rapida analisi delle sue maggiori criticità: l’abitudine all’acritico finanziamento pubblico, la scarsa interrelazione con il mondo delle imprese, la quasi inesistente propensione a investire, il sistema di pensiero orientato a percepire la cultura come anti-economica e produttiva “solo” di contenuti, la scarsa trasparenza e l’eccessiva politicizzazione.

 

Sono diverse le riflessioni da portare avanti per inquadrare pienamente non solo la necessità di avere un sistema culturale accountable ma ancor di più l’opportunità di tale fisiologia.

 

Prima di tutto la considerazione più scontata, o quantomeno inflazionata, è il valore del comparto in questione; tanto per riportare alcuni dei dati che va di moda citare negli ultimi anni (soprattutto per evitare di dover citare quelli sul Pil e sull’occupazione giovanile probabilmente): l’insieme di attività rientranti sotto la definizione di industrie della cultura (cinema, audiovisivo, editoria, artigianato, musica) forniscono lavoro a circa 7 milioni di europei. Stando a un’interpretazione anche più estensiva del settore, nel 2010 solo in Italia il valore aggiunto è stato pari a quasi 70 miliardi di euro, quasi il 5% del VA totale, occupando circa il 7% dei lavoratori. La spesa delle famiglie italiane per “cultura e ricreazione”, così come segnalata da Federculture, si è attestata nel 2011 sui 70,9 miliardi di euro, pari al 7,4%, della spesa annua complessiva, nonostante la particolare congiuntura economica fatta soprattutto di contrazione dei consumi. Infine, l’export di cultura vale oltre 38 miliardi di euro e rappresenta il 10% dell’export complessivo nazionale; l’import è pari a 17,8 miliardi di euro e costituisce il 4,4% del totale.

 

Una seconda riflessione riguarda l’oggetto e la sua misurabilità, cioè comprendere che esistono alcuni oggetti direttamente misurabili (con quantificazioni puntuali o stime di grandezza), altri non misurabili direttamente ma attraverso fenomeni connessi e infine oggetti non misurabili ma di cui al massimo si può affermare o certificare la produzione di un effetto e la direzione dello stesso.

 

Una terza riflessione è su come l’attenzione non debba nemmeno tanto concentrarsi sull’effetto positivo di relazioni reciprocamente affidabili, quanto sulla cascata di effetti negativi che anche un minimo ammanco di affidabilità può generare con una serie di ripercussioni di peso progressivamente maggiore, e pertanto con il risultato finale di paralizzare un intero comparto, fossilizzandolo su una situazione di patologia procrastinata con tenacia dalle sue stesse “vittime”.

 

Distinguere tre diversi piani di (assenza di) accountability con specifico riferimento al comparto culturale può rendere più chiaro e verticale il ragionamento: manca innanzitutto la basilare, necessaria ma non sufficiente, accountability finanziaria. Tale contenuta responsabilità finisce per essere incentivata o quanto meno non impedita proprio dalla prassi ricorrente della copertura straordinaria del deficit e in alcuni casi del debito accumulato; la percezione che il settore pubblico è incline a coprire stati finanziari passivi anche nel caso della loro sistematica reiterazione induce i responsabili ad accettare come fisiologica una condizione finanziaria precaria e insostenibile.

 

Tale fisiologica patologia disincentiva naturalmente anche il settore privato dal cimentarsi in tale ambito, non avendo certezza né di relazioni né di modalità, figuriamoci di output e soprattutto avendo spesso a che fare con figure abituate e adagiate su tale andamento delle cose.
Una seconda area di rilevanza della quale sarebbe indispensabile garantire la solidità è l’accountability gestionale, ossia la concreta affidabilità dei protocolli del management culturale così come esso si realizza nella vita ordinaria delle organizzazioni culturali e di ogni istituzione, impresa e gruppo che con esse risulta connesso da rapporti di scambio e di interazione.

 

Spesso si incorre nell’errore di considerare tale aerea passibile di valutazioni molto soggettive invece l’affidabilità gestionale va riferita alla necessità di ricondurre le scelte adottate e le azioni realizzate a un’ossatura coerente nel suo complesso, come le azioni di marketing e comunicazione, la trasparenza, la negoziabilità e la programmazione delle carriere professionali; la rispondenza delle risorse impiegate alla qualità e all’impegno di ciascuna altra risorsa coinvolta o la fluidità dei processi e delle procedure.

 

Il terzo livello di accountability necessario è, per così dire, più alto: si tratta di affidabilità strategica, importante con riferimento alla situazione strutturale della cultura in Italia. Non si tratta, in sostanza, di un parametro misurabile con precisione da riferire a singole organizzazioni o da ascrivere a scelte e azioni di specifici professionisti del sistema culturale.

 

I finanziamenti a pioggia e la paura del giudizio
La totale mancanza di accountability nel settore culturale italiano trova una delle manifestazioni paradigmatiche nel finanziamento a pioggia delle attività culturali.

 

Oltre, infatti, che un atto di “pigrizia” intellettuale e operativa, il finanziamento generalista nasconde dietro un approccio ecumenico e generoso (oramai anacronistico) un atto di prudenza enorme da parte della pubblica amministrazione: non scegliere tra chi finanziare e chi lasciar fuori dal computo delle erogazioni evita il ricorso a procedure di (vera) selezione, fa sì che non vi sia bisogno né risulti opportuno un confronto sul comportamento e la performance delle iniziative finanziate e lascia un margine di discrezionalità enorme al soggetto erogatore negli anni successivi.

 

Qualora la procedura di finanziamento venisse strutturata secondo il rispetto di determinati criteri, questi diventerebbero sicuramente una griglia di selezione per i finanziati (con l’ovvio rischio di essere esclusi) ma anche un laccio decisionale, un criterio cui attenersi che limiterebbe l’arbitrio della PA (e quindi anche la possibilità di direzionare secondo opportunità politica, conoscenze e convenienza i capitali a disposizione).

 

I motivi per cui la richiesta di un sistema diverso non è così pressante nemmeno da parte delle imprese finanziabili e finanziate è di più immediata evidenza: il non voler rischiare di rimanere esclusi dalle erogazioni. Sono poche le imprese culturali ad avere elaborato un modello di sostenibilità reale e concorrenziale, che si sentono pronte ad andare sul mercato o ad affrontare una competizione; talvolta ciò è avvenuto per demeriti propri, altre volte per una forma mentis e una percezione di sé generalizzata quanto erronea, spesso per convenienza e con l’inevitabile condizionamento della diffusione di questo modello comportamentale.

 

I finanziamenti a pioggia presumono però una grande liquidità, che non è più caratteristica propria delle pubbliche amministrazioni. Il diminuire delle risorse pone un problema fondamentale, una scelta: preservare il metodo dell’erogazione indiscriminata, diminuendo il quantum o ragionare i destinatari, contingentandone il numero per preservare degli importi minimi che diano la possibilità di sviluppare determinate azioni?

 

In entrambi i casi i soggetti che si sono rifiutati di affrontare il mercato si scontreranno con esso: o tutti per integrare i pochi finanziamenti che avranno irrigato (poco) le casse di ognuno o alcuni per la sopravvenuta esclusione dalla lista dei fortunati beneficiari.

 

L’infarto culturale auspicato in terra teutonica potrebbe prodursi in Italia per circostanze obbligate invece che per scelta strategica, ma anche qualora nuove liquidità venissero rese disponibili ciò non toglierebbe la necessità e opportunità per il sistema culturale di confrontarsi con sé stesso in modo ampio non solo rispetto ai canoni classici del comparto ma anche secondo le logiche di equilibrio economico degli altri settori merceologici; ragionare secondo un’ottica di maggiore sostenibilità, di obiettivi, target, efficacia ed efficienza non deve essere solo l’ultima chance di sopravvivenza di operatori messi all’angolo ma il naturale percorso di ogni soggetto anche solo per produrre contenuti o erogare servizi nel migliore dei modi possibile o quantomeno puntando a tale fisiologia, pur nell’ovvia consapevolezza delle specificità di settore.

 

Conclusione: essere accountable conviene
Un’applicazione seria e diffusa del principio di accountability potrebbe determinare molteplici effetti positivi sia per il comparto che per i singoli operatori; a partire da una maggiore responsabilizzazione e presa di coscienza delle potenzialità di mercato e produttive, della necessità e opportunità di darsi obiettivi concreti perché sono raggiungibili e utili fino a una maggiore (reale) trasparenza di gestione che è preludio non solo di una maggiore efficienza ma di un più reale e sostanziale rapporto di fiducia con il pubblico, fiducia che vuol dire sì affidabilità ma anche interesse e affetto da parte di quello che poi è il target di riferimento attuale e potenziale di ogni operatore della cultura.

 

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