Profilo
La letteratura economica sulla concentrazione territoriale di imprese nasce con la definizione di distretto industriale di Alfred Marshall negli anni Venti del secolo scorso (Marshall, 1919). Da allora il concetto di distretto industriale è stato ampliato, arricchito, approfondito, ripreso e studiato da numerose prospettive di analisi (tra i moltissimi: Becattini, 1987; Sforzi, 2000; Bottinelli e Pavione, 2011; Lazzeretti et al., 2010) di pari passo con lo sviluppo del contesto economico e sociale, fino alla sua evoluzione in numerose nuove e più complesse declinazioni, ad esempio, di recente, quelle di sistemi produttivi locali, distretti produttivi, distretti culturali, cluster creativi, distretti tecnologici, metadistretti industriali, sistemi locali territoriali, network di imprese, etc.
Il presente articolo sintetizza i risultati di una ricerca desk, condotta all’interno dell’Università IULM, sulla localizzazione spaziale in Italia delle imprese appartenenti alla filiera produttiva dell’industria musicale. L’osservazione dell’evoluzione del settore musicale italiano nell’ultimo decennio, sia dal punto di vista dell’offerta che della domanda (Ardizzone e Ramello, 2007; Ardizzone e Barbarito, 2008 e 2010) da una parte, e lo studio delle industrie creative dall’altra, di cui l’industria musicale fa parte secondo le definizioni contenute nel Rapporto KEA (KEA, 2006) e nel “Creative industries mapping document” del Dipartimento inglese per la Cultura, i Media e lo Sport (DCMS, 1998), ne hanno costituito le premesse. L’obiettivo è cercare di verificare attraverso l’analisi dei dati disponibili se la filiera musicale italiana è concentrata geograficamente sul territorio italiano e a quale tipo di agglomerato di imprese possa essere ricondotta la concentrazione di medie, piccole e soprattutto microimprese che ne fanno parte.
Il dibattito scientifico, ma soprattutto politico e culturale, nell’agenda europea e internazionale più che italiana, si sta recentemente concentrando sulla valorizzazione del patrimonio culturale e creativo quale strumento di competitività internazionale, almeno in quei “paesi sviluppati” che, anche grazie alla crisi, hanno capito che, nell’odierno sistema economico post-industriale, le leve della competitività internazionale non possono più essere basate sui classici settori manifatturieri. Lo studio dei cluster culturali e creativi, in questa prospettiva, risulta allora necessario a mappare i fenomeni, prima ancora che essere punto di partenza per progetti di valorizzazione e sviluppo locale e non.
In generale, lo studio degli agglomerati di imprese non può prescindere dall’analisi dell’evoluzione del concetto di distretto industriale né da quello della normativa nazionale e regionale di riferimento, almeno nella misura in cui il progetto di studio voglia rappresentare l’input per il raggiungimento di un risultato concreto quale quello di un riconoscimento formale di un distretto. In estrema sintesi, la letteratura economica negli ultimi decenni ha approfondito lo studio delle concentrazioni locali di imprese da numerosi punti di vista: quello degli studi di economia industriale, di economia aziendale, di management, degli studi di urbanistica, di geografia e di economia della cultura.
Ora, non è qui utile né possibile ripercorrerli, ma quello che sostanzialmente è avvenuto è stato un progressivo allargamento del concetto di distretto industriale e l’emergere di una grande quantità di classificazioni di tipologie di agglomerati di imprese che possano ben interpretare e rappresentare la grande quantità dei diversi tipi di agglomerati esistenti, non ultimi i recenti cluster culturali e creativi, completamente ignoti alle classificazioni di non molti anni fa. Questo processo è stato consequenziale all’emergere della società dell’informazione e della conoscenza che ha reso meno nitido il confine tra i classici settori industriali; allo sviluppo delle tecnologie dell’informazione a supporto delle relazioni, che riducono le distanze fisiche tra gli attori economici; ai processi di globalizzazione e internazionalizzazione e soprattutto alla crescente produzione di valore aggiunto di natura immateriale e di capitale intangibile.
Accanto a questa evoluzione c’è stato anche uno sviluppo parallelo della normativa nazionale sugli agglomerati di imprese. Le Leggi italiane riconoscono formalmente solo i distretti industriali, i metadistretti industriali, i sistemi produttivi locali e i distretti produttivi, che devono essere individuati formalmente dalle Regioni in base a criteri statistici specifici. L’arretratezza della normativa nonché la lentezza dei processi di riconoscimento, hanno determinato una situazione attuale in cui le industrie culturali e creative non sono considerate cruciali per lo sviluppo.
Inoltre, di questi modelli, solo quello del distretto produttivo può essere adatto ad una industria creativa come quella musicale, in quanto di natura non manifatturiera, né costituita da imprese che competono e collaborano ad un solo stadio della catena produttiva, ma piuttosto sono in una relazione di concorrenza e complementarità a più livelli del processo produttivo. Un interessante trend è stato anche quello, sempre in seno alla normativa, della possibilità di riconoscere “libere aggregazioni di imprese”, non secondo un approccio gerarchico di tipo top-down da parte delle istituzioni, ma di tipo bottom-down, ovvero per iniziativa delle imprese che ne fanno parte.
Analisi
La metodologia che si è deciso di adottare per la ricognizione è stata dettata dai limiti cui si è fatto cenno sopra e dai dati disponibili. Sono stati utilizzati due campioni: uno estratto tramite il codice Ateco delle attività economiche inerenti la filiera musicale, che però non permette per i suoi intrinseci limiti di ottenere un campione di imprese statisticamente e anche in sé rappresentativo delle imprese che fanno parte della filiera musicale; un altro campione, più “arbitrario”, in cui sono state incluse le imprese contenute nei database di una rivista specializzata del settore, “Musica&Dischi” che recensisce ogni anno gli operatori della filiera musicale. Ciò ha implicato la necessità di integrare manualmente nel primo campione almeno i principali operatori esclusi.
Di questi due gruppi di imprese è stata analizzata la numerosità assoluta e relativa per area geografica, e laddove possibile il fatturato e i dipendenti (tenendo presente che quelli presenti nei bilanci di esercizio non sono statisticamente rappresentativi in quanto le imprese non sono obbligate a dichiararli). Le due tabelle successive mostrano le categorie di operatori considerate nei due campioni e la loro numerosità.
Dalla tabella 1 sono stati eliminati i codici 592020 (edizioni di musica stampata) e 952901 (riparazione di strumenti musicali) inizialmente inclusi nella ricerca a causa di un basso numero di imprese risultate attive nel 2009 sul territorio nazionale (per entrambi solo 2). La ricerca è stata effettuata nel mese di luglio 2011 con l’ausilio del software AIDA di Bureau van DijK, che contiene i dati finanziari delle società di capitali italiane.
I risultati ottenuti attraverso i due campioni sono coerenti: entrambi mostrano una fortissima concentrazione delle imprese, del fatturato e dei dipendenti in Lombardia e, in particolare nell’area milanese.
Nel primo campione delle 2.915 società di capitali attive e con un fatturato almeno pari a zero nel 2009 operanti nella filiera della musica nel 2009 (nel mese di agosto 2011 quando è stata effettuata l’estrazione ancora molti bilanci 2010 non erano disponibili), 726 (un quarto del totale) si trovano in Lombardia, seguita a grande distanza dal Lazio (15%) e dall’Emilia Romagna (11%). Le altre Regioni, eccetto il Veneto e la Toscana, sono al di sotto del 7%.
Delle imprese lombarde circa due su tre si trovano nella provincia di Milano. Dei 2,53 miliardi di euro di fatturato complessivo generato dalla filiera, circa la metà viene prodotta in Lombardia e, di questa l’80% a Milano. In Lombardia hanno la propria sede di lavoro quasi un terzo di tutti i lavoratori recensiti e di questi quasi il 70% a Milano. Le restanti regioni cumulano solo un quarto dei ricavi totali. Scendendo nel dettaglio delle attività economiche un’analisi più dettagliata mostra che la localizzazione, per tutte le categorie di operatori, è concentrata nella Provincia di Milano che possiamo quindi definire capitale della musica italiana e in special modo, se guardiamo al fatturato generato, delle edizioni musicali, delle trasmissioni radiofoniche, degli studi di registrazione e della discografia. Quest’ultimo risultato, riferito alla sola discografia, conferma quanto già rilevato su un campione diverso di imprese in uno studio precedente (Ardizzone e Ramello, 2007).
Prendendo in considerazione i dati di Musica&Dischi (secondo campione), su 4.619 imprese un terzo del totale si trova in Lombardia, e la maggior parte nella Provincia di Milano (un quarto del totale italiano). Segue il Lazio con il 18% del totale (e circa lo stesso numero di operatori del solo comune di Milano, che ne conta 872). Rispetto al totale nazionale a Milano si concentrano quasi il 20% degli operatori e a Roma il 15%. A seguire, le Regioni più importanti sono l’Emilia Romagna (11%), la Toscana (6%) e il Piemonte (6%). Tre delle quattro categorie di operatori più numerosi del campione, le case discografiche, gli editori musicali e gli studi di registrazione, mostrano una concentrazione in Lombardia intorno al 30%, e anche in questo caso sono quasi totalmente localizzate nel comune di Milano. Questo dato, seppure non confrontabile con il precedente, conferma il primato di Milano dove si trova la maggior parte degli editori musicali, delle case discografiche e degli studi di registrazione.
Poiché la maggior parte delle imprese di questo campione è composta da piccole imprese individuali e società di persone, non obbligate a depositare il bilancio presso le CCIAA, sono stati analizzati i dati di bilancio di sole 568 società. Di queste, il 41% si trova in Lombardia, il 20% in Lazio e l’11% in Emilia Romagna, confermando tutti i dati precedenti. Emerge una più netta concentrazione dei ricavi in Lombardia, che ne raccoglie più della metà (53%), seguita dal Lazio e dall’Emilia Romagna con circa il 10%. Quest’ultimo dato conferma che le imprese più grandi (società di capitali) si trovano in Lombardia (soprattutto della discografia e dell’editoria musicale).
Naturalmente per il riconoscimento formale da parte della Regione Lombardia sarebbe necessario uno studio più approfondito e soprattutto un desiderio di aggregazione da parte delle imprese interessate, storicamente divise da forti divisioni interne. D’altra parte in questo settore la complementarità delle attività è in una fase di forte crescita, che sta portando a una sempre maggiore integrazione verticale delle attività della filiera. Se consideriamo che le imprese di questo settore lamentano il disinteresse delle istituzioni pubbliche nei confronti dei temi e problemi dell’industria musicale (la difesa del diritto d’autore, la necessità di una nuova legislazione, l’insegnamento della musica e di uno strumento musicale anche negli istituti superiori, l’accesso a fondi pubblici, etc.), il riconoscimento di un distretto produttivo potrebbe essere lo strumento per iniziare un percorso diverso.
Un’ultima riflessione riguarda il ruolo trainante che la città di Milano potrebbe assumere. Milano è già considerata a pieno titolo come una “città creativa” in quanto sede e motore di sviluppo di molte attività basate sulla creatività, come la moda, il design, l’architettura, tanto che la Lombardia ha provveduto al riconoscimento formale dei relativi metadistretti industriali. E’ rimasta però indietro, a differenza delle altre grandi città europee, sulla valorizzazione delle industrie culturali e creative in cui primeggia, tra cui non solo la musica ma anche la comunicazione, l’audiovisivo, l’editoria, la pubblicità e il software. In questo è stata frenata, da una parte, dalla mancata capacità di fare network e di una cultura dell’aggregazione da parte delle imprese appartenenti a questi settori, dall’altra, da una miopia delle istituzioni pubbliche, dalla mancanza di una visione di lungo periodo e di una scarsa capacità di interpretazione dei trend in atto.