Riti di passaggio
Il sistema culturale attraversa una fase di radicale trasformazione. È l’intera società, il suo paradigma economico e produttivo, le sue relazioni individuali e collettive, a trovarsi su un crinale del quale si percepisce la dimensione ma non si riescono a prevedere gli esiti. La cultura, rappresentazione dinamica e critica della realtà, delle sue interpretazioni e dei suoi aneliti, ne racconta l’evoluzione e ne prospetta il futuro. Per poterlo fare è necessario che il sistema culturale ridisegni sé stesso, alla luce dei cambiamenti in atto, e in vista di un paradigma che sarà dominato da una nuova scala di valori.
Se tale snodo epocale riguarda tutti i Paesi e i Continenti, esso tocca con più intensità e talvolta con maggiore drammaticità i non pochi nervi scoperti dell’esperienza italiana. Segnato da una gabbia istituzionale rigida e al tempo stesso fragile, percorso tuttora da una deriva etica che pone la cultura in un’aura di ineffabilità, cristallizzato da protocolli di decisione e d’azione tanto obsoleti quanto bizantini, revocato in dubbio dal drenaggio progressivo dei fondi pubblici così come dall’assenza di attenzione privata, il sistema culturale italiano continua a confidare nell’abbrivio dei decenni passati in cui le questioni rilevanti sono state ignorate o derubricate.
La realtà è di norma meno statica delle analisi e delle decisioni. Non soltanto la cultura italiana soffre da molti anni di una cristallizzazione che ne spegne molte opportunità, ma anche l’economia della cultura adotta una visione dimensionale, meccanica e spesso acritica di fenomeni ben più complessi e significativi di quanto le tabelle possano mettere a fuoco. Manca l’analisi approfondita delle motivazioni, degli sconfinamenti, delle ibridazioni; ci si continua a compiacere del tema minimalista e deformante dell’impatto sull’economia locale, come se il punto cruciale della cultura fosse attivare pasti al ristorante e notti in albergo.
Mentre questo stanco abbrivio del sistema culturale si protrae lungo una linea d’ombra sempre meno confortante, le cose accadono. La maggior parte dei decisori e degli addetti ai lavori continua a rimpiangere le certezze d’antan; alcuni si arrabbiano e cercano di identificare le possibili strade per un dignitoso sbocco attraverso azioni magari eclatanti ma credibilmente fertili; altri ancora si muovono già al di fuori dei flussi mainstream mescolando immaginazione e tecnica, progettando e realizzando iniziative ricche di linguaggio e forti di capacità gestionali. C’è un altrove, ignorato dal dibattito e appena lambito dalle istituzioni, in cui si gioca la scommessa sul futuro della cultura.
I fenomeni emergenti, peraltro, appaiono tuttora scomposti e occasionali, come è logico che avvenga: essi derivano da intuizioni di pochi, da congiunzioni astrali non facilmente replicabili, da ostinazioni condivise. Occupano aree considerate marginali o comunque poco canoniche (è davvero paradossale e contradditorio che l’establishment culturale stenti a riconoscere e accreditare l’evoluzione delle cose). Mettono in circolo risorse e talenti di grande dinamismo, capaci di ascolto reciproco e di intelligenza collettiva. Colorano spazi urbani insospettabili, restituendo finalmente l’arte e la bellezza ai luoghi consueti e familiari, e liberando le relazioni culturali dalle torri d’avorio in cui sono tuttora arroccate.
Visioni e percorsi
Per poter interpretare quanto avviene nel sistema culturale italiano orientandone i percorsi e gli sviluppi appare necessario – alla luce degli intenti di fondo che animano la visione e l’analisi di questo volume, così come delle narrazioni che ne pongono in evidenza fermenti e frontiere – mettere a fuoco la spina dorsale che ne regge l’incedere: la cornice metodologica che ridefinisce la gerarchia di valori; il palinsesto territoriale e infrastrutturale che descrive il senso e la caratura degli spazi, dei progetti e delle iniziative culturali; i processi che coagulano le capacità e le visioni verso concezione, produzione e diffusione di cultura; i mercati che rappresentano lo sbocco naturale in cui il valore della cultura viene reso esplicito e può essere estratto da una varietà di fruitori che manifestano consenso, partecipano e condividono, pagano un prezzo composito e donano garantendo sostenibilità e futuro alla cultura la cui assenza condannerebbe la nostra vita a un grigiore meramente funzionale e incapace di darle alcun senso.
Le prospettive e le esperienze offerte nel numero speciale di Tafter Journal dedicato a epos rappresentano i primi passi di un’analisi condotta con nuove chiavi di lettura verso un ridisegno sostanziale e pertinente della mappa culturale nelle sue varie e complesse sfaccettature. Pur non indicando in modo organico e sistematico i possibili indirizzi che inevitabilmente dovranno segnare il sistema culturale nei prossimi anni, i contributi pongono in evidenza fatti scollegati ma significativi che rispondono a una palese insufficienza del quadro attuale: si tratta di un ventaglio di progetti e azioni che si collocano in quella fertile terra di nessuno nella quale la sostanza sopprime le etichette, la responsabilità si basa sull’inventiva e sul rigore progettuale, la leggerezza calviniana viene mescolata con l’apertura laica à la Voltaire.
Ne scaturisce una serie di indicazioni che, opportunamente combinate, potranno forgiare l’agenda dell’economia e della politica culturale, evitando di cadere ancora nell’ossimoro tra bellezza e denaro (l’economia è analisi critica dei processi e non fissazione monetaria), e rigettando il conforto pavido dell’elemosina pubblica (la politica è interpretazione del sentire comune e identificazione di opportunità simmetriche).
Si tratta di costruire un ecosistema coinvolgente basato su un approccio cognitivo che riconosca le tracce culturali nella capacità semantica, dialogica e didascalica dell’offerta culturale: il substrato materiale, il contenitore spaziale e la localizzazione territoriale non garantiscono di per sé alcuna caratura culturale: non tutto ciò che viene pubblicato attiva un metabolismo culturale, né tutto ciò che viene dipinto, suonato o recitato; non tutte le cose esposte in un museo sono per questo capaci di convogliare valori culturali verso il visitatore; non tutti i luoghi di una città d’arte ne riflettono il significato artistico, architettonico, storico e culturale.
Tale approccio passa per un’importante presa d’atto che viene di norma evitata in nome di una lettura dogmatica e ideologica dei processi culturali: la società non può e non deve essere divisa in modo binario tra colti e ignoranti, come se queste sommarie qualifiche si potessero acquisire con la nascita e segnassero a vita gli individui. Tutti cominciamo da ignoranti e – attraverso processi efficaci di apprendimento e di condivisione – percorriamo i territori culturali acquisendone progressivamente linguaggi, stili e valenze. E’ vero che la velocità e l’intensità di questi percorsi sono eterogenee e mostrano sbocchi soggettivi, è altrettanto indiscutibile che ciascuno può accrescere il proprio vocabolario culturale con l’esperienza, l’apprendimento e l’apprezzamento. La società va dunque vista come un complesso organismo pulsante e in costante evoluzione, in cui offerta e domanda di cultura si incontrano generando valore e benessere.
Territori, processi, mercati
Finita la sbornia manifatturiera la cultura deve uscire dall’isolamento in cui l’ha confinata uno statuto speciale che è risultato comodo tanto per le istituzioni quanto per i professionisti del settore. Il ritorno alla piena cittadinanza territoriale della cultura la rende normale e ne impone comunque una nuova leggibilità tra le maglie di un palinsesto urbano, paesaggistico e ambientale nel quale essa risulti l’ossatura di fondo; diventati irrilevanti e per molti versi viscosi i confini e le frontiere, si esaurisce il rosario dei luoghi comuni dei quali la cultura ha voluto paludarsi per schivare le domande che avrebbe dovuto porsi già molto tempo fa. Che l’Italia sia la patria dell’opera lirica o il Paese dell’arte o anche soltanto il luogo che ospita più di metà del patrimonio culturale mondiale sono affermazioni prive di significato e di pertinenza.
Il palinsesto culturale del nostro Paese è caratterizzato da alcuni tratti specifici che non fanno dell’Italia un competitore vincente (non è mai esistita una guerra a colpi di monumenti o spettacoli) ma descrivono con incisività le opzioni dialogiche e le responsabilità gestionali della sua importante e diffusa offerta culturale. Una stratificazione di civilizzazioni ricca e condensata in ogni area del Paese, un legame solido e fertile delle cose culturali con la forma urbis, una connessione evidente tra patrimonio architettonico e attività teatrali e di spettacolo rendono percettibile il valore della cultura nelle sue molteplici dimensioni e richiedono una nuova organizzazione dell’offerta culturale, fondata sul rispetto per la comunità residente e sul desiderio di narrare e consolidare il significato specifico e inconfrontabile dell’evoluzione culturale dei luoghi.
La gestione del territorio come mappa culturale deve essere delicata e al tempo stesso incisiva, rimettendo in discussione le opzioni che scaturiscono dagli spazi, dalle strade e dagli edifici dentro un reticolo di relazioni e opportunità non più condizionato dalle definizioni convenzionali; l’arte acquista senso se offerta in ogni luogo, la storia del territorio è interpretabile se i segni culturali vengono restituiti alla consuetudine e alla partecipazione della comunità, la creazione e la produzione di cose culturali è resa possibile e naturale dall’assenza di pregiudizi e di nostalgie: non sono poche le città italiane tuttora attanagliate da un passato che appare nobile solo perché in gran parte dimenticato, e per questo incapaci di costruire un credibile futuro.
Il palinsesto territoriale è la culla di processi creativi, simbolici e critici che generano cultura nel senso etimologico più appropriato, quella coltivazione che richiede una relazione tra seme e terreno da una parte, e una moltiplicazione di valore dall’altra. Condizioni necessarie e sufficienti per la nascita di idee e progetti, per il loro concretarsi in modo specifico, per l’accrescimento del patrimonio culturale di tutti, tali condizioni passano attraverso il sostanziale ridisegno dei profili istituzionali, organizzativi e gestionali del sistema culturale. Un’azione del genere dovrà fondarsi su una visione strategica e multidimensionale dei fenomeni culturali, stabilendo obiettivi e strumenti, elaborando indicatori e parametri, negoziando in modo trasparente i profili tecnici e operativi di progetti e iniziative, in una parola ridefinendo la griglia istituzionale e riscrivendo la mappa delle alleanze e delle complicità.
La lenta agonia del sistema culturale manifesta da tempo il proprio canto del cigno producendo e rafforzando una varietà di manifestazioni son-et-lumière che ne pongono in evidenza una sostanziale renitenza progettuale: mostre blockbuster, festival dedicati a una miriade di branche del sapere o anche soltanto a temi ritenuti appealing per la stampa, spettacolarizzazioni a buon mercato finalizzate a un presunto marketing territoriale e orientate alla dimensione del turismo di massa, concorsi letterari e talent-shows di danza e lirica. Sono tentativi goffi e talvolta protervi di mantenere in vita il sistema per impedirne la necessaria rinascita; attivare un processo di analisi, confronto e valutazione di questa corrusca fase di passaggio può condurre il sistema culturale a rendere espliciti e condivisi i propri obiettivi strategici, il quadro dei diritti e dei doveri connessi all’offerta e alla domanda culturale, la definizione approfondita dei ruoli rispettivi e magari reciproci di pubblico e privato (tuttora cristallizzati in attribuzioni pigre e derivanti da consunti luoghi comuni).
La solida fertilità del territorio e l’incisiva efficacia dei processi attivano un’inedita varietà dei mercati, luoghi meno paradigmatici di quanto l’economia manifatturiera ha voluto farci credere, ma certamente snodi dinamici nei quali il valore delle cose viene riconosciuto e valutato; abbandonando l’ossessione monetaria si vede con chiarezza una catena di mercati a tecnologia variabile e ad accesso fluido nei quali le opzioni con cui il destinatario dell’offerta culturale può manifestare il proprio apprezzamento sono molteplici: la partecipazione, il ritorno, il trascinamento di altre persone, il passa-parola convinto e invitante, la donazione, il tempo, il consenso. Appare evidente che il pagamento di un prezzo per l’esperienza culturale e per l’acquisto di beni e servizi che ne possano integrare il valore è un effetto di una reazione complessa, e se si vuole è la ricaduta naturale di un morbido impatto nella sfera emotiva, sentimentale e cognitiva di ogni singolo individuo coinvolto nell’esperienza culturale.
Se il mercato più pertinente della cultura è quello dei fruitori diretti, molti altri mercati si attivano lungo flussi di scambio specifici, superando quella sequenza gerarchica che per decenni ha tentato di costruire un cordone finanziario capace di promettere sopravvivenza alla cultura: il botteghino, il sostegno pubblico, le sponsorizzazioni, il soccorso delle fondazioni di origine bancaria. Comprendere i benefici che ciascun potenziale interlocutore può e vuole derivare dall’esistenza, dalla diffusione e dall’impatto della cultura permette di identificare forme, modi, criteri e meccanismi che governano i mercati culturali. La partita non si gioca più sulla presunta sensibilità culturale di pubbliche amministrazioni, imprese o gruppi sociali, ma sulla capacità infungibile della cultura di contribuire al perseguimento di fini rilevanti che altrimenti sarebbero irraggiungibili.
La specificità dei valori culturali (si pensi al senso d’appartenenza, alla qualità della vita, al capitale sociale, all’inclusione e alla cittadinanza) richiede una svolta anche nella gestione di questi complessi mercati. La percezione oggettiva ed etica della cultura ha fatto ritenere che il canale di scambio appropriato dovesse rivolgersi erga omnes in modo immutabile; ciò costringeva ogni possibile interlocutore ad aderire senza riserve a una gerarchia convenzionale di valutazioni che di fatto illustrava un mondo iconico e per molti versi ermetico. La fenomenologia dei mercati e della stessa società in evoluzione, insieme alle mappe sociali ed economiche generate da nuovi cittadini e da indirizzi multiculturali richiedono, al contrario, l’attivazione e il mantenimento di relazioni specifiche, personali, adattive e mobili nella consapevolezza che il valore della cultura non può che emergere dall’interazione critica tra offerta e domanda, cosa che per sua stessa natura non può cristallizzarsi in un blocco di marmo né seguire un protocollo standardizzato.
Orizzonti
Scrivere l’agenda per l’economia e la politica della cultura dei prossimi anni è una sfida che non va elusa o rinviata. Le tante nevralgie che stanno segnando i percorsi delle nostre società in uscita dalle certezze manifatturiere chiedono a gran voce una presenza intensa e pervasiva della cultura per essere in grado di comprendere gli orientamenti della realtà e della fantasia nel futuro che è già cominciato. Non è più il momento di attendere che qualcuno si muova; il magma culturale che le narrazioni di questo volume mettono a fuoco mostrando le intuizioni e i fermenti delle culture future ha bisogno di nuovi approcci e di nuove regole.
Ne saranno coinvolti gli addetti ai lavori, imprenditori e gestori di organizzazioni culturali, artisti e interpreti creativi, professionisti ed esperti che maneggiano un settore produttivo di elevatissima ricchezza e significatività. Ne saranno interessate le imprese e le società dell’economia privata, cui il driver culturale risulta sempre meno prescindibile per poter acquisire senso e ruolo in un sistema produttivo dall’evoluzione imprevedibile. Ne dovrà essere responsabile il settore pubblico se saprà attivare una diversa visione orizzontale (le relazioni con le molteplici sfaccettature della comunità del territorio) e verticale (la combinazione di attribuzioni e strumenti capace di incastrarsi efficacemente tra i diversi livelli di governo).
Ciò richiede elaborazioni e azioni prive di pregiudizi. La gestione dell’offerta culturale, la partecipazione della domanda e la complicità di imprese, gruppi e comunità si sviluppa già, per quanto in modo ancora embrionale, lungo il crinale che coniuga opportunità e responsabilità, e soprattutto si avvale delle risposte fornite dalla realtà in base alle quali sarà possibile far evolvere e sintonizzare le strategie e le prassi in modo da conseguire gli obiettivi adottati. L’azione pubblica, comunque cruciale in un campo così generoso di valori e beneficî collettivi e condivisi, dovrà essere orientata oltre la mera protezione dell’esistente, la valutazione censoria delle iniziative artistiche, la percezione meccanica e pavloviana dei processi culturali.
Non si può più rinviare il ridisegno dell’assetto istituzionale, che in Italia si ostina a governare i musei come uffici periferici del ministero del tutto privi di autonomia gestionale e finanziaria, a tenere in vita i teatri con un sostegno statico e connesso alle dimensioni del personale, a lasciar sopravvivere i siti archeologici, i monumenti e molta architettura solo in vista dell’arrivo dei turisti internazionali, a concentrare il proprio sforzo sulla spesa corrente trascurando le esigenze e le possibilità che scaturiscono dall’investimento pubblico, dal valore degli spazi territoriali, dall’infrastruttura tecnologica, dalla formazione specialistica e dalle relazioni internazionali.
Negli anni più recenti la cultura è stata fatta oggetto di una messa a fuoco piuttosto cerimoniale, forse attenta più ai profili oleografici che non a quelli sostanziali. Occupazioni e manifesti, interessi veri e sensibilità artificiali, disinvoltura sui problemi concreti ed enfasi sulle cose trascurabili, la cultura del nostro Paese è tuttora intrappolata nelle sabbie mobili di un sistema che ama le etichette più dei fatti, dichiarandosi etico per mascherare una protervia da operetta mentre langue in una palude ormai inestricabile.
Semplificando e confidando in un rapido ritorno della decenza e della ragionevolezza si può tentare una basica lista di cose che il parlamento, il governo, le amministrazioni regionali e locali, e soprattutto i professionisti della cultura dovrebbero considerare per imprimere al sistema culturale quell’abbrivio che le stesse narrazioni di questo volume pongono in chiara evidenza ma che risultano tuttora neglette da un establishment poco incline all’evoluzione. La cultura esprime un valore unico e infungibile; ignorarlo, trascurarlo o addirittura perderlo sarebbe un gesto autolesionistico.
Sintesi: che fare?
Progettare le culture future dipende dall’innesto di idee, regole e approcci sulla capacità di ascolto e di interpretazione di quanti destinano la propria capacità e la propria passione all’orientamento del sistema culturale. Alla luce di quanto emerge da intenzioni, narrazioni e valutazioni raccolte nel numero speciale di Tafter Journal dedicato a epos si possono delineare gli ambiti d’azione imprescindibili.
Il primo riguarda il quadro istituzionale che regge il sistema culturale. Fatto di norme, vincoli e divieti che di fatto zavorrano le possibili opzioni imprenditoriali e impediscono la piena cittadinanza di trasparenza e di accountability delle organizzazioni e dei professionisti, è una griglia normativa e regolamentare che trascina con sé prassi e paure dannose per l’intero sistema culturale italiano. Si tratta di identificare in modo condiviso obiettivi strategici e processi efficaci; attribuzioni di responsabilità e di potestà decisionale tra i diversi livelli di governo; meccanismi trasparenti di selezione, monitoraggio e valutazione dei dirigenti e dei professionisti.
Il secondo consiste nella formazione del capitale umano, ancorato tuttora a modelli obsoleti e reciprocamente impermeabili, vittima di formalismi tabellari che sfornano industrialmente pezzi di carta ma non costruiscono approcci e saperi; il sistema formativo italiano in tutti i suoi gradi tende a privilegiare una visione individualistica, specialistica e competitiva mentre la società mostra di preferire utili mescolanze disciplinari, fondamentali lavori di gruppo e scambi di metodo e contenuto, orientamenti strategici informali ma capaci di generare valore e di accrescere il benessere della comunità.
Il terzo mette a fuoco il palinsesto territoriale e l’infrastruttura tecnologica che ne assiste le dinamiche sociali ed economiche, e quindi culturali. La città è tuttora figlia del capitalismo manifatturiero e della sua contrapposizione binaria tra centro e periferia, tra decisori ed esecutori. Il suo ridisegno (dal reticolo viario alle licenze commerciali, dal verde attrezzato agli spazi di socializzazione, dai servizi ai segni identitari) è condizione di fondo per elaborare quei piani strategici dei quali molte città parlano senza sapere come concepirli e realizzarli. La tecnologia incoraggia le sinergie, ottimizza l’offerta ed espande la domanda di cultura, nutre la creatività, connette i mercati.
Il quarto concerne le relazioni, gli scambi e le sinergie tra pubblico e privato, tra la cultura e l’economia, tra l’Italia e il resto del mondo. Sono dinamiche segnate da luoghi comuni che pongono le parti in una sorta di confronto tra buoni e cattivi, tra virtuosi e barbari. Superare la stasi di ruoli pregiudiziali può estrarre valori inediti e dare forza a empirismi incisivi basati su nuove alleanze tra stato e impresa, su una concezione dell’impatto economico della cultura capace di oltrepassare la deriva monetaria che enfatizza il peso di pernottamenti e pasti dimenticando la qualità della vita, il senso di appartenenza, il dialogo tra culture e l’inclusione sociale. E potrebbe convincerci che non è la dimensione dell’offerta culturale italiana a rilevare, ma la nostra capacità di gestirla efficacemente: un orientamento cosmopolita, con un forte incentivo alla mobilità di artisti e professionisti in entrambe le direzioni è irrinunciabile.
Il quinto richiede una nuova impostazione del regime fiscale e tributario della cultura: sostanziali esenzioni che incoraggino la localizzazione di artisti creativi e di organizzazioni culturali negli spazi urbani; agevolazioni tariffarie per le attività di produzione e scambio di prodotti e iniziative culturali; riduzioni delle imposte indirette sulle transazioni relative a opere d’arte, libri, audiovisivi e prodotti digitali; introduzione di incentivi in-kind che concedano l’uso di spazi pubblici e di strumenti tecnologici per la produzione di cultura. Nuove regole richiedono comunque chiari ed efficaci meccanismi di monitoraggio, valutazione e sanzione.
Il sesto disegna la società italiana emergente, sempre meno convinta di poter contare esclusivamente su un passato roboante ma in definitiva non troppo conosciuto. Lo sciovinismo è strettamente legato alla paura, condizione tipica di una società arricchita ma poco alfabetizzata. Le società dinamiche, a partire dalla Roma dei Sette Colli, considerano propri cittadini tutti coloro che ci vivono dentro: l’identità non può essere mera memoria del passato, ma prospettiva condivisa, desiderio di un percorso comune, capacità di ascolto reciproco capace di tradursi in nuova progettualità. Prima di preoccuparci che i nuovi cittadini conoscano l’arte italiana dovremmo piuttosto curiosare nelle loro weltanschauungen, fatte spesso di diversi rapporti con il tempo e lo spazio, con la natura e la bellezza, con l’ingegno umano e la fantasia.
Il settimo, infine, riguarda tutti noi che dovremo una volta per tutte abbandonare la comoda culla in cui siamo stati svezzati apprendendo una visione moralistica e compiaciuta della cultura e del suo valore. Per troppo tempo siamo rimasti convinti che la società si divida in colti e ignoranti, che la cultura vada protetta e non esperita, che agli appassionati fosse garantito uno statuto etico altrimenti irraggiungibile. Non è vero: il metabolismo culturale è possibile per ciascuno, solo che ne abbia l’opportunità; gli esperti di oggi sono i neofiti di ieri. La cultura non può sopravvivere ai molti decenni di arroccamento nelle torri d’avorio, va restituita al tessuto urbano e alla vita quotidiana di una comunità sempre più complessa e delicata. Non tutti diventano buoni per merito della cultura, ma con ogni probabilità grazie all’esperienza culturale si sentono più felici.