La scoperta in Cina del turismo e del turismo religioso ha creato il turismo religioso di massa cinese, ovvero la cosa più vicina a una invasione di cavallette che io abbia mai visto. Dove passano, la devastazione, non cresce più nulla.
Desiderosi di un’immersione ulteriore nella pace e armonia della vita lontana dalle grandi città, decidiamo di visitare uno dei siti religiosi più famosi e importanti della Cina. Torniamo verso Taiyuan, e poi prendiamo un autobus per il gruppo montuoso. L’aspettativa è grande.
Vorrei isolarmi sulle montagne sacre, vorrei meditare, riflettere su un anno, quello che sto vivendo, passato finora nel centro dell’acceleratore karmico; vorrei pesare e capire il mio posto nell’universo, valutare quale esso sia alla luce della tempesta passata. Ma non penso nemmeno un secondo che sto cercando la spiritualità proprio in luoghi analoghi a quelli da cui Gesù cacciò via i mercanti.
Il Wutai Shan è un’area molto vasta, un gruppo montuoso completamente avvolto da nuvole e devozione, per via del centinaio di siti religiosi che ospita. Avvolto dalla devozione e da migliaia di turisti indigeni ogni giorno, turisti cinesi, ovvero cavallette.
Un piccolo pullman stracarico guidato da due autisti dai modi rozzi ma decisi. Il viaggio dura almeno 5 ore. L’ingresso all’area è gestito attraverso una sola via d’accesso, sbarrata da un grande edificio-biglietteria. Il biglietto d’ingresso a quello che, di fatto, è un ‘parco religioso’, è cumulativo e vale per quasi tutti i templi e per prendere i bus navetta della zona, che li collegano. Ci fanno scendere e a piedi ci fanno acquistare il biglietto, l’autobus è intanto andato oltre il controllo degli agenti e ci aspetta dall’altra parte. Un’altra oretta scarsa di viaggio e ci scaricano nel piccolissimo villaggio campo base per le arrampicate sui monti. Non abbiamo prenotato, questa volta, perché l’accoglienza alberghiera di queste zone è molto primitiva, tecnologicamente parlando. Comincia a piovere. Per poco scambiamo le nuvole che scendono dal cielo con la nebbia, ma sono nuvole, siamo in alto a quasi tremila metri. Le immancabili lanterne rosse cominciano a comparire, accese in questo paesaggio azzurro da madrugada, accese tra un neon e l’altro. L’intero paese, costituito quasi esclusivamente di alberghi a conduzione familiare, è pieno. Riusciamo a trovare una stanza per notte, una notte per volta. Di giorno ci addentriamo nei boschi, piove. Visitiamo i templi, ammiriamo gli scenari. Mentre orde di turisti cinesi invadono, destabilizzando, il paesaggio che vorremmo imprimerci nella memoria. Un paesaggio a sua volta, a ben vedere, non originale, ma in continuo rifacimento. Addirittura alcuni di questi templi sono copie. Sono fatti ai nostri giorni.
Diceva Brandi che nel giudizio di falsità si riconosce un giudizio problematico, col quale ci si riferisce alle determinazioni essenziali che il soggetto ( il tempio, qui) dovrebbe possedere e non possiede, ma che invece si pretenderebbe che possedesse ( nel nostro caso, si pretenderebbe che fosse originale) , “onde nel giudizio di falsità stabilisce la non congruenza del soggetto al suo concetto, e l’oggetto stesso è dichiarato falso”. E andava avanti ritenendo la copia come un falso storico ed estetico insieme, che può essere giustificato solo a fini didattici o “rimemorativi”, ma che non può sostituirsi senza danno storico ed estetico all’originale.
In specifico per la Cina questa problematica si incontra con quella della immissione nel mercato globale di prodotti falsi (copie) che vengono fatte passare per vere (originali).
Per questo ci stiamo sentendo raggirati. In Cina siamo venuti per cercare qualcosa che non stiamo trovando. Noi abbiamo interiorizzato una convinzione che viene espressa bene dallo storico dell’arte ( non a caso senese) ovvero che un edificio ricomposto, seppure con le sue stesse “membra” originali, è ancor meno di una mummia rispetto alla persona che fu viva. In altre parole, per noi l’opera architettonica è viva e vegliarda, nonna e nonno. Avevate un nonno che, da bambino, portandovi per mano sotto la statua equestre di Garibaldi, vi diceva “Saluta zi’ Pepp.”? Ecco. È quello do cui sto parlando.
Soldi, sono soldi quelli che cercano i ristoratori, gli alberganti, i monaci del Wutai Shan. In questo luogo, uno dei più religiosamente intensi di tutta la Cina, i mercanti si sono sostituiti ai religiosi. Un turismo religioso mordi e fuggi, fatto di interminabili code e gingilli turistici di pessima qualità e fattura. In alcuni casi, come sul tempio in cima la seggiovia, il biglietto va pagato all’ingresso, nonostante si abbia già quello cumulativo. Delle centinaia di personaggi intenti a mangiare ad ogni angolo delle strutture sacre, ho potuto contare soltanto tre persone intente in una preghiera tradizionale e sentita, votiva. E una di queste era un monaco. I miei desideri di sacralità e meditazione si stringono fino a creare un piccolo sassolino nero e pesante all’altezza dei polmoni: non credo che riuscirò ad essere serena qui.
Confusione, autobus, strade in rifacimento da colonie penitenziarie. Per ogni cinese al lavoro ce ne sono quattro che guardano, non è solo un luogo comune. Blocchi stradali insensati. Code lunghe chilometri. Poliziotti di uniformi e appartenenze diverse che non sanno da dove cominciare per sbrogliare il quadro della situazione. Stanno lì fermi, a guardare scendere la pioggia, il traffico impalato all’incrocio sacro. Attorno a loro si sommano disordinati altri uomini, sotto l’acqua. Lemuri girati in là, sguardo ottuso, il vuoto nella loro mente.
Una strana sensazione di prigionia. Una sacra sensazione di prigionia. Il sassolino diventa sempre più pesante, lì dentro, e occlude il respiro.
In nessuno degli alberghi riusciamo a trovare il collegamento a internet, il sassolino è diventato un sasso, pesa sempre di più. Nulla possono fare a questo punto i pur magnificenti templi. Una volta, qui , deve esserci stata la fede. Oggi, parcheggi per autobus, macchine blu e limousine. Turisti dai colori cacofonici con cappelli ridicoli che montano un micro ombrellino arcobaleno, per difendersi di volta in volta dal sole o dalla pioggia. La persona più elegante vista, una monaca. Vestiva tunica dai colori sabbia e cammello, grigio antracite. La borsa a tracollo. Il capello rasato. Quella tipica forma di cranio tagliato dietro. Rotondo volto davanti. Sguardo sereno, almeno lei.
Ceniamo.
Riusciamo a trovare un ristorante vegano ottenuto all’interno di un antico teatro. Sul palcoscenico, monaci vestiti di giallo si esibiscono in canzoni tradizionali, davanti a una scenografia paradisiaca del Wutai Shan, tristemente lontano dalla realtà lì fuori. Il teatro è davvero bello, la cucina ottima.
Dopo cena cerchiamo un computer, lo troveremo in una abitazione privata con stanza internet clandestina “arrabattata” in un magazzino. Paghiamo una cifra spropositata per il luogo, ma siamo tagliati fuori dal nostro mondo ormai da quasi due settimane in tutto, e il mondo virtuale ci sembra un necessario rifugio.
Piove, anche stanotte. Le code delle nubi si intrecciano in volute sopra i tetti. In silenzio, in tacito accordo, ripieghiamo i nostri vestiti sul letto. Distinguendoli per forma, pesantezza utilità. Li disponiamo negli zaini. La mattina dopo, all’alba, è su un autobus microscopico e scassato che ci allontaneremo per sempre dalla montagna sacra.